I remake di film e serie vanno forte
Se ne producono sempre di più per adattarli a nuove lingue e nuovi paesi: spesso conviene, ma non sempre funziona
Da qualche anno nel cinema e nella serialità televisiva mondiali ci sono due tendenze parallele in contrapposizione l’una con l’altra. Da un lato c’è Parasite che vince l’Oscar e ci sono, in gran parte grazie alla globalità di alcuni servizi di streaming, serie non in inglese come Lupin o La casa di carta che hanno grande successo e sono viste perlopiù doppiate o con sottotitoli. Dall’altro lato c’è la crescente tendenza a fare, pochissimo dopo l’uscita di un film o una serie, un suo remake in un’altra lingua adattato per il pubblico di un altro paese. A questa tendenza Le Monde ha dedicato in questi giorni un lungo speciale, intitolato “La remakemania”.
Le due tendenze sono contrapposte perché una si basa su un probabile interesse mondiale di pubblici con lingue e culture molto diverse per contenuti che sono anzitutto pensati per un certo paese e spesso molto connotati con tradizioni, abitudini e luoghi di quel paese. L’altra prevede invece di partire da un contenuto in una certa lingua per rifarlo in un’altra sostituendo personaggi, battute, dinamiche e luoghi originali così da renderli più vicini e comprensibili per un pubblico molto diverso.
Vista la sempre crescente internazionalizzazione di piattaforme come Netflix o Amazon Prime Video, è piuttosto facile prevedere che sempre più spesso serie non statunitensi e nemmeno non in inglese avranno successo nel mondo. Anzitutto perché è nell’interesse di questi servizi, e anche per due altri motivi: perché sembra che persino gli americani, storicamente parecchio avversi al doppiaggio, ci si stiano abituando e perché – per usare le parole del regista di Parasite Bong Joon-ho – sempre più spettatori sembrano più propensi a superare la «barriera di pochi centimetri rappresentata dai sottotitoli».
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Ci sono però altrettanti buoni argomenti per sostenere che, nonostante tutto, anche i remake, i rifacimenti e gli adattamenti da un paese all’altro continueranno a esistere e a cavalcare quella che Le Monde ha definito «un’onda planetaria che tocca il cinema e le serie, che vai dai film più d’autore fino ai prodotti ben più commerciali».
Anzitutto, come ammette lo stesso Le Monde, “remake” è una parola comoda e comune, ma non del tutto appropriata. Un remake, infatti, può anche essere il rifacimento di un film anni dopo l’originale: magari nella stessa lingua, e in certi casi addirittura dallo stesso regista, come successe per esempio ad Alfred Hitchcock che diresse nel 1934 L’uomo che sapeva troppo e che nel 1956 rifece un altro L’uomo che sapeva troppo.
Quello di cui parla Le Monde è quindi qualcosa di diverso da quanto fatto per esempio da Luca Guadagnino quando nel 2018 ha diretto Suspiria, remake dell’omonimo horror del 1977 di Dario Argento. Quei remake sono spesso dovuti a qualcosa che Le Monde definisce “retromania”: un confronto con il passato per reinterpretarlo in nuovo modo, magari con migliori effetti speciali, budget maggiori e chiavi di lettura più moderne.
Sono invece qualcosa di molto diverso le serie e i film che pochissimi anni dopo la loro uscita in un certo paese vengono rifatti, spesso molto simili sia nelle premesse che nella trama, in altre lingue e per altri paesi. È quello che è successo di recente con il film statunitense CODA, che ha per protagonista una ragazza con la passione per il canto che è l’unico membro udente di una famiglia sorda, e che è un rifacimento di La famiglia Bélier, film francese del 2014.
O, in maniera ancora più estrema, è quello sta succedendo con il film italiano Perfetti sconosciuti, che dopo essere uscito nel 2016 ha avuto «ventuno adattamenti in cinque anni, dal Messico alla Polonia, dall’Ungheria alla Turchia». Così tanti che anche certi addetti ai lavori non sembrano nemmeno sapere che l’originale è quello italiano, e che quindi finiscono col fare al suo regista Paolo Genovese i complimenti per l’efficace “remake” di un film che in realtà era stato suo prima che di chiunque altro.
Lo stesso è successo con il film italiano Benvenuti al Sud, remake del francese Giù al Nord. O con il film francese Quasi amici – Intouchables che negli anni è stato rifatto in versione indiana, argentina e coreana e che nel 2017 ha avuto anche la sua versione statunitense: Sempre amici, con Bryan Cranston e Kevin Hart. Lo stesso Cranston è tra l’altro protagonista della serie Your Honor, rifacimento della israeliana Kvodo. È inoltre già prevista una versione coreana della spagnola La casa di carta, che tra i protagonisti avrà Park Myung-hoon: un attore di Parasite, film da cui HBO trarrà una miniserie statunitense.
Tra i tanti strani incastri di questa strana «frenesia ipercontemporanea», Le Monde fa notare che in Francia è possibile vedere, un giorno dopo l’altro, la serie Your Honor sull’emittente Canal+ e la sua versione francese (anch’essa tratta dall’originale israeliana) Un homme d’honneur su TF1.
Secondo Le Monde, più che ai remake questi rifacimenti e adattamenti somigliano ai format dei programmi televisivi di vario genere che vengono ideati e sperimentati in un paese, e poi nel corso degli anni rifatti altrove, spesso con modifiche minime.
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Così come per i format televisivi, anche in questi casi non esiste una sola direzione di adattamento: a volte l’opera originale parte da un paese più grande e ricco e viene rifatta in uno più povero, che sfrutta così la possibilità di risparmiare sui costi relativi alla scrittura di una sceneggiatura per poter puntare su un prodotto già sperimentato. Altre volte, l’opera originale – i cui diritti raramente costano più di qualche decina di migliaia di euro – arriva da un paese più piccolo e viene rifatta altrove con un budget ben più alto e con attori molto più famosi. E ci sono anche casi di film i cui rifacimenti restano perlopiù in una certa area geografica: come successo con il film sudcoreano del 2014 Miss Granny, che poco dopo è stato rifatto in Cina, e poi – tra gli altri – in Vietnam, Giappone, Thailandia, Indonesia, Filippine e India.
Ci sono paesi, per esempio l’Italia e la Francia, in cui i rifacimenti vanno in entrambe le direzioni. E paesi che invece sono noti perlopiù per le loro serie originali. Tra questi, il più famoso e citato è Israele, la cui industria audiovisiva negli ultimi anni si è spesso dimostrata parecchio abile nel creare serie le cui versioni straniere hanno poi molto successo. I motivi sono probabilmente legati al fatto che, non essendo grandissimo, Israele non si può permettere grandissime produzioni, ma per ragioni storiche, economiche e culturali (qualche mese fa riassunte dalla Stampa) ha comunque tutto il necessario per essere una prolifica fucina di format televisivi.
Oltre a Kvodo è successo per esempio con BeTipul, una serie rifatta in 18 paesi che ruota attorno agli incontri e ai dialoghi di uno psicologo con i suoi clienti, e che l’autore Hagai Levi ha definito «un piatto già pronto che ognuno può assortire a modo suo». La serie, ha scritto Le Monde, «è un campo-controcampo intimista, che offre a ogni cultura la possibilità di mettere i suoi traumi sul lettino».
La formatizzazione di film e serie tv però non sempre funziona. Perché sempre più spesso capita che – mentre una serie viene comprata, rifatta e resa disponibile – un rilevante numero di spettatori ha già avuto modo di vedere la sua versione originale, preferendola in quanto per l’appunto più autentica e autoctona.
Ci sono poi altre questioni, specie quando si tratta di rifacimenti statunitensi, che sono più legate al fatto che, come ha scritto di recente Hollywood Reporter, «certi spettatori sono diventati più sensibili alla questione dell’appropriazione culturale». A volte, secondo Le Monde, si arriva perfino a qualcosa di simile alla censura: per esempio quando nell’adattare la serie francese Dix pour cent (nota in Italia come Chiami il mio agente!, ) la Turchia ha scelto di rimuoverne i personaggi omosessuali.
Altre volte ancora, soprattutto negli Stati Uniti, qualcuno prende piuttosto alla leggera i diritti per un’eventuale versione statunitense (che comunque costano relativamente poco) ma poi la serie o il film non vengono fatti perché ci si rende conto che è ormai passato il momento buono o, addirittura, che non si riesce a trovare un modo per traslare una certa storia verso un altro paese. Secondo Hollywood Report è quel che è successo con un possibile rifacimento statunitense di Giù al Nord, di cui Will Smith prese i diritti senza però poi riuscire a «riposizionare con successo la storia».
Intanto, in parte per risolvere problemi di questo tipo e in parte per andare incontro all’altra tendenza legata alla globalizzazione di servizi e contenuti, si iniziano a vedere alcune forme per certi versi ibride. Più che rifare versioni molto simili di un film o una serie straniera, sembra stia prendendo piede l’idea di fare qualcosa di più simile a uno spinoff: cioè un film ambientato nello stesso mondo narrativo di un altro, ma in questo caso in un altro paese, con un’altra lingua e per la gran parte con protagonisti diversi.
Questo tipo di approccio sembra poter funzionare soprattutto con storie a loro volta globali: per esempio in film di spionaggio, di fantascienza o catastrofici. Le Monde parla per esempio di un possibile spinoff spagnolo del film Netflix Bird Box, o di un futuro prequel/spinoff del film di zombie Army of the Dead ambientato per buona parte in Germania e incentrato su uno dei suoi protagonisti, interpretato dal tedesco Matthias Schweighöfer.
Già nel 2019 Netflix aveva provato a sondare possibilità simili con la sua serie Criminal, divisa in quattro parti: una britannica, una francese, una tedesca e una spagnola. Si sa inoltre che i fratelli Russo, due che si intendono non poco di “universi cinematografici”, stanno lavorando per conto di Amazon a Citadel, una serie-di-serie (o una saga “multi-serie”) di cui si sa ancora pochissimo ma che a una serie principale ne affiancherà altre ambientate in diverse parti del mondo, Italia compresa.
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