La Cina sta cambiando il suo modello di sviluppo?
Il governo ha avviato una grande campagna di repressione contro il settore privato, e si comincia a pensare che dietro ci sia un piano
di Eugenio Cau
Nelle ultime settimane il governo cinese ha messo in atto una serie di azioni repressive contro alcuni grossi settori dell’economia, a partire da quello tecnologico, che tra luglio e agosto hanno provocato in pochi giorni un’ondata di panico sui mercati e generato perdite per 1.500 miliardi di dollari, secondo le stime di Bloomberg. Queste misure sono state così drastiche e risolute che alcuni osservatori si sono spinti a ipotizzare che il regime comunista cinese sia intenzionato a modificare il modello di sviluppo perseguito negli ultimi quarant’anni.
Potrebbe farlo in favore di un modello che dà maggior importanza al controllo politico da parte del Partito comunista e alla stabilità sociale, piuttosto che alla libertà d’impresa e allo sviluppo economico, come sembra aver confermato di recente il presidente cinese Xi Jinping quando ha proposto la «prosperità condivisa» come un «requisito essenziale del socialismo» e il nuovo obiettivo dell’economia cinese. Negli ultimi tempi lo slogan è diventato diffusissimo in tutti gli apparati della propaganda cinese.
Anche se trarre conclusioni frettolose è probabilmente prematuro, quello che è successo nelle ultime settimane nell’economia cinese è per molti versi un evento storico. Nel giro di pochissimo tempo il governo ha praticamente neutralizzato un settore economico valutato 120 miliardi di dollari (quello dell’istruzione privata), ha provocato clamorose perdite di valore nelle più grandi e potenti società tecnologiche del paese e ha dato l’impressione di poter bloccare le quotazioni all’estero delle aziende cinesi – anche se, almeno su questo, ha fornito rassicurazioni sul fatto che per ora non succederà.
Queste misure hanno stupito e spaventato anche gli investitori internazionali, oltre ad aver fatto perdere a molti di loro miliardi di dollari. Gli investitori hanno cominciato a chiedersi se, di fronte all’apparente volontà del governo cinese di mettere sotto maggior controllo l’economia, investire in Cina sia ancora una strategia valida.
Per molti listini borsistici legati all’economia cinese, soprattutto quelli che contengono aziende tecnologiche, luglio è stato il mese peggiore dai tempi della grande crisi finanziaria del 2008. E alcuni grandi investitori internazionali, anche se non tutti, hanno sostenuto che le interferenze del governo sull’economia potrebbero compromettere in maniera consistente gli investimenti esteri nelle aziende cinesi.
Regole e repressione
Lo scompiglio delle ultime settimane nell’economia cinese è in realtà cominciato lo scorso novembre, quando le autorità decisero di dare una lezione a Jack Ma, fondatore della società di e-commerce Alibaba, uomo più ricco dell’Asia e il più famoso e ammirato imprenditore della Cina.
Alla fine del 2020 Jack Ma si stava preparando a quotare in borsa Ant Financial, una sua società di pagamenti digitali, in quella che avrebbe dovuto essere la più grande e ricca quotazione della storia. Meno di 48 ore prima del debutto, però, la borsa di Shanghai, dove Ant Financial si sarebbe dovuta quotare assieme alla borsa di Hong Kong, annunciò il ritiro della quotazione, a causa di un cambiamento improvviso di alcune regole.
Jack Ma, che fino a quel momento era stato uno dei campioni nazionali dell’industria tecnologica cinese, entrò in disgrazia, e dalla fine del 2020 non ha quasi più fatto apparizioni in pubblico. Ant Financial non si è ancora quotata in borsa, e nel frattempo ha dovuto pagare una enorme multa ed è stata costretta a una pesante ristrutturazione del suo modello di business.
Le ragioni per cui Jack Ma e Ant Financial sono cadute in disgrazia sono ancora oggetto di discussione. Al tempo si disse che le autorità cinesi si erano risentite dopo che Jack Ma, in un discorso tenuto a ottobre del 2020, aveva criticato duramente il sistema normativo e burocratico della Cina, accusando le banche cinesi di agire come un «banco dei pegni». Altri sostennero che Ant, con il suo enorme giro d’affari e le sue pratiche finanziarie in gran parte poco regolate, costituisse un rischio sistemico per l’economia cinese, che doveva essere messo sotto controllo dal governo.
In ogni caso, tutti pensarono che si fosse trattato di un caso isolato. Il trattamento riservato ad Ant spaventò molto gli osservatori internazionali, che però si convinsero che si fosse trattato di una punizione esemplare che non si sarebbe più ripetuta. Jack Ma aveva sfidato il potere del Partito comunista ed era stato punito, ma i suoi colleghi imprenditori avrebbero preso nota ed evitato gli stessi errori, così tutto sarebbe potuto riprendere come prima. Invece, dopo Jack Ma, il Partito non si è più fermato.
Nei mesi successivi all’affossamento di Ant Financial le autorità cinesi fecero diverse dichiarazioni che lasciavano intendere che fosse in corso una grande azione di regolamentazione e repressione dell’economia, non soltanto per quanto riguardava singole aziende ma a livello sistemico.
A dicembre, durante una riunione di alto livello del governo, Xi Jinping disse che una delle priorità del regime era evitare «l’espansione disordinata del capitale», un modo per dire che il settore privato doveva essere messo sotto maggior controllo. Il primo luglio di quest’anno, in un discorso per la celebrazione del centenario del Partito comunista cinese, ha aggiunto che l’obiettivo per la Cina è la «prosperità condivisa», e da quel momento ha continuato a promuovere il nuovo slogan.
A metà agosto, in un discorso riportato dall’agenzia di stampa ufficiale Xinhua, Xi ha ribadito l’obiettivo, annunciando tra le altre cose che per raggiungere la «prosperità condivisa» sarà necessario «regolamentare i redditi eccezionalmente alti e incoraggiare i gruppi ad alto reddito e le imprese a restituire di più alla società».
Questa dovrebbe essere la normalità per un regime comunista, ma per la Cina costituisce invece un cambiamento ideologico importante rispetto agli ultimi 40 anni: alla fine degli anni Settanta Deng Xiaoping, lo storico leader che aprì la Cina ai mercati e consentì la sua straordinaria espansione economica, disse che per facilitare lo sviluppo economico sarebbe stato accettabile se alcune persone fossero «diventate ricche per prime», nonostante i princìpi di uguaglianza dell’ideologia comunista.
A luglio, dopo le celebrazioni per il centenario del Partito, la grande azione di regolamentazione e repressione del settore privato è cominciata, e si è concentrata soprattutto sulle aziende tecnologiche.
Dopo Ant Financial le autorità cinesi si sono occupate di Didi, un’altra notissima e importante azienda tecnologica che si occupa di servizi di automobili con autista (come Uber in Occidente). Alla fine di giugno, l’azienda si era quotata alla borsa di New York contro il volere delle autorità cinesi (secondo le ricostruzioni di vari media), che pochi giorni dopo avevano aperto un’inchiesta sulle sue pratiche di sicurezza, soprattutto per quanto riguarda la gestione dei dati di possibili località sensibili per il governo.
Il governo aveva ordinato a tutti gli App Store di rimuovere l’app di Didi, rendendola impossibile da scaricare, e l’azienda ora potrebbe essere costretta a dover pagare una multa o a limitare il proprio servizio. Potrebbe inoltre dover cedere al governo buona parte dei dati in suo possesso sugli utenti e sulla gestione del business.
Dopo l’indagine del governo, in meno di un mese Didi ha perso 29 miliardi di dollari di valore.
Le misure che più hanno preoccupato gli investitori hanno riguardato un settore meno noto in Occidente, ma comunque di grande valore economico: quello dell’istruzione privata.
Il sistema scolastico in Cina è eccezionalmente competitivo, fin dalle scuole primarie, e lo diventa sempre di più mano a mano che il percorso di istruzione va avanti. Per entrare all’università gli studenti devono affrontare un esame a livello nazionale, il Gaokao, che ha origini nella Cina imperiale e che in pratica è l’unica occasione per molti ragazzi di giocarsi il proprio futuro. Tutti gli anni circa 10 milioni di studenti affrontano il Gaokao, e il 20–30 per cento di loro non riesce a passarlo e deve aspettare un anno intero per ritentare. La graduatoria del Gaokao determina inoltre chi potrà frequentare le università più prestigiose.
Per questo, in Cina si è sviluppata un’enorme industria dell’istruzione privata, in cui spesso le famiglie con figli spendono una notevole porzione del loro reddito. Alcune aziende hanno avuto particolare successo in questo settore, e sono diventate compagnie tecnologiche che fanno lezioni online e organizzano corsi personalizzati usando l’intelligenza artificiale. Le più importanti si chiamano TAL Education, New Orient e Gaotu e sono società miliardarie quotate da anni alla borsa di New York: il valore dell’intero settore è stimato a più di 120 miliardi di dollari.
A metà luglio, dopo diversi giorni di notizie incontrollate, il ministero dell’Istruzione ha pubblicato un nuovo regolamento per il settore che, tra le altre cose, impedisce alle aziende che si occupano di istruzione scolastica di finanziarsi con investimenti esteri e in alcune circostanze impedisce loro di finanziarsi del tutto, imponendone la trasformazione in non profit. Le tre grandi aziende del settore, che sono quotate a New York e che dunque hanno azionisti esteri, in pochi giorni hanno perso due terzi del proprio valore, e non è ancora chiaro in che modo potranno continuare il loro business. Il ministero, tra le altre cose, ha condannato l’industria dell’educazione privata perché sarebbe «ostaggio del capitale».
Poi è stato il turno di Meituan, un’altra grande e famosa azienda tecnologica che opera in diversi settori, tra cui la consegna a domicilio di cibo e l’e-commerce, che dopo una serie di misure (l’apertura di un’indagine per abuso di posizione dominante, la pubblicazione di nuovi regolamenti per il settore delle consegne) ha perso oltre 30 miliardi di dollari di valore e secondo il Wall Street Journal potrebbe dover pagare una multa ingente.
Le autorità si sono occupate anche di Tencent, che assieme ad Alibaba è la principale azienda tecnologica cinese. L’azienda è stata oggetto di varie misure del governo, che hanno comportato tra le altre cose il blocco delle iscrizioni a WeChat, la più diffusa app cinese, un’inchiesta giudiziaria contro alcune funzioni dell’app e una serie di limitazioni al suo business dei videogiochi, che sono stati definiti come «oppio spirituale» da un giornale controllato dal Partito. Dal suo picco di gennaio, l’azienda ha perso oltre 400 miliardi di dollari di valore.
Le autorità hanno inoltre introdotto nuove regolamentazioni e aperto indagini su altri settori, come quello delle criptovalute e dell’e-commerce, e alcuni esperti sostengono che la campagna potrebbe estendersi anche a settori come la sanità privata e il mercato immobiliare. Di recente, le misure del governo hanno colpito anche le farmacie online, il settore dell’industria cosmetica e perfino i produttori di alcolici.
Una cosa importante da notare è che la maggior parte delle aziende che hanno subìto la regolamentazione del governo si è quotata in borsa, spesso all’estero. Una delle preoccupazioni principali delle autorità riguarda il fatto che in teoria le quotazioni all’estero per le aziende cinesi sono strettamente regolamentate, e che per evitare le regolamentazioni queste usano degli strumenti piuttosto ambigui chiamati entità a interesse variabile (VIE).
In pratica, aziende come Didi creano una filiale in paradisi fiscali (spesso le Isole Cayman), ed è questa filiale a quotarsi all’estero, non l’azienda madre. Questo implica una notevole perdita di controllo per il regime cinese, che dunque sta reprimendo questa pratica e, per esempio, l’ha vietata nel settore dell’istruzione privata.
Se l’uso delle VIE fosse vietato anche in altri settori (cosa che per ora il governo ha negato di voler fare) significherebbe che alle aziende cinesi sarebbe praticamente vietato quotarsi all’estero: un’ipotesi che ha provocato enorme preoccupazione sui mercati.
Un nuovo modello?
Ciascuna delle iniziative adottate dalle autorità cinesi può essere considerata individualmente, e per ciascuna è possibile trovare una giustificazione piuttosto concreta. L’azione contro Ant Financial serviva a punire Jack Ma e ridurre i rischi sistemici sulla finanza; quella contro le scuole private può essere inquadrata nel tentativo del governo di aumentare la natalità riducendo le spese per le famiglie con figli; quella contro Tencent rientra in una nota campagna del governo contro gli effetti dei videogiochi sui giovani – e così via.
Ma il fatto che tutte queste iniziative così invasive contro le imprese private siano arrivate nel giro di pochi mesi ha spinto molti analisti a considerarle come parte di una campagna complessiva, che mira a riportare sotto il controllo dello stato ampi settori dell’economia, a ridurre la dipendenza della Cina dal capitale straniero e, forse, perfino a modificare il modello di sviluppo del paese.
Bloomberg ha fatto un titolo piuttosto significativo a questo proposito: «Dopo 40 anni in cui hanno consentito al mercato di giocare un ruolo sempre maggiore nello sviluppo economico, i leader della Cina si sono ricordati una cosa importante: sono comunisti».
Thomas Tsao, un investitore di Shanghai, ha detto sempre a Bloomberg che chi ritiene di poter valutare le misure del governo caso per caso «si sta perdendo il quadro generale. [I leader cinesi] stanno sperimentando un nuovo modello». Su Reuters, Pete Sweeney ha scritto che «il rapporto del Partito comunista con il capitalismo si sta inasprendo».
Anche analisti che per lungo tempo sono stati considerati come ottimisti sull’andamento dell’economia cinese, come per esempio Stephen S. Roach, un professore di Yale esperto di Cina, davanti alle ultime manovre del governo hanno scritto che la Cina si sta allontanando dal percorso di sviluppo capitalistico e prosperità negli ultimi decenni.
Non tutti la pensano così. Per alcuni, la grande campagna di repressione contro il settore privato è destinata a terminare senza provocare cambiamenti sistemici.
Soprattutto, c’è disaccordo su come interpretare la decisione di mettere sotto controllo il tumultuoso modello di sviluppo degli ultimi decenni e rispolverare parte dell’ideologia socialista: per alcuni, come per esempio Stephen Roach, rischia di mettere a repentaglio la prosperità del paese; per altri non è necessariamente un male.