La legge spagnola per tutelare i rider è molto discussa
Non piace alle aziende di consegne, costrette ad assumere i lavoratori, ma anche tra i rider c'è dibattito
In Spagna, il 12 agosto è entrato in vigore il decreto legge con cui a maggio il governo ha regolamentato il lavoro dei cosiddetti rider: coloro che prestano servizi di consegna a domicilio attraverso piattaforme come Glovo, Deliveroo, Just Eat e Uber Eats. Il decreto, soprannominato “ley rider” (ovvero “legge rider”), impone a queste società di stipulare contratti di lavoro dipendente invece di quelli di lavoro autonomo usati finora, nonché di essere più trasparenti sugli algoritmi utilizzati per organizzare le consegne. Il decreto ha convertito in legge una sentenza della corte suprema spagnola di settembre scorso ed è stato il primo di questo genere in Europa.
Rivendicata con orgoglio come un traguardo importante dal governo e da alcuni sindacati del paese, la legge è stata però fortemente criticata da alcune associazioni di rider, che si sono lamentate, tra le altre cose, di non essere state coinvolte nelle contrattazioni che hanno portato al testo finale. Secondo loro, le nuove norme tolgono flessibilità al lavoro del rider e porteranno alla perdita di posti di lavoro, perché le società non saranno in grado di impiegare tutte le 30 mila persone che svolgono questa professione in Spagna.
A intensificare le polemiche c’è stato il fatto che, a fine luglio, in previsione dell’approvazione della legge la piattaforma Deliveroo ha annunciato l’intenzione di abbandonare il mercato spagnolo.
Da anni, tantissimi rider lamentano la mancanza di diritti che sono garantiti a chi ha un contratto di lavoro dipendente, come il diritto ad avere malattia e ferie pagate o quello al versamento dei contributi pensionistici da parte dell’impresa per cui lavorano. Diversi tribunali europei sono stati chiamati a occuparsi della questione, con esiti differenti. La Spagna però è il primo paese in cui è arrivata una sentenza in favore dei rider da parte della corte più alta: il Tribunale Supremo, equivalente della nostra Corte di Cassazione.
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A settembre dell’anno scorso, chiamata a pronunciarsi sul caso di un rider che lavorava per la piattaforma Glovo, la corte suprema spagnola aveva deciso che il lavoratore era da intendersi a tutti gli effetti come un dipendente della società, perché questa era proprietaria del marchio sotto cui il rider operava e della tecnologia che impiegava nel suo lavoro, oltre a fornirgli i clienti.
Sulla base di questa sentenza, dopo mesi di discussioni con sindacati e imprese, lo scorso maggio il governo spagnolo aveva emanato la ley rider, secondo la quale i rider devono essere considerati lavoratori dipendenti – a meno che non possa essere dimostrato il contrario – e come tali vanno trattati, garantendo loro tutti i diritti che questo tipo di rapporto contrattuale prevede. Inoltre, la legge dà ai lavoratori e alle organizzazioni che li rappresentano il diritto di conoscere gli algoritmi usati per valutare il loro lavoro e assegnare loro le mansioni. Per ridefinire i propri rapporti contrattuali con i lavoratori, il governo aveva dato alle imprese tempo fino allo scorso 12 agosto.
Dopo l’emanazione del decreto, la ministra del Lavoro, Yolanda Díaz, aveva detto: «questa legge protegge i più vulnerabili perché riguarda i giovani del nostro paese ed è per questo che ciò che stiamo facendo è così importante».
Tuttavia, nonostante la soddisfazione espressa da lei e da alcuni dei sindacati che hanno partecipato alle trattative, alcune associazioni che rappresentano i rider si sono dette da subito contrarie alla legge e migliaia di lavoratori hanno scioperato perché fosse rivista.
Le ragioni di contrarietà alla legge però variano molto. Il collettivo sindacale Riders x Derechos e l’importante sindacato spagnolo Unión General de Trabajadores (UGT), che peraltro ha partecipato ai negoziati con le imprese, sostengono di fatto che la legge non sia sufficientemente rigida nei confronti delle aziende.
Al contrario, quattro associazioni, Asociación Autónoma de Riders, Asociación Riders Unidos, Asoriders e Asociación Riders Profesionales, delle quali non è chiaro il numero di iscritti, ritengono che la legge dovrebbe sì tutelare i lavoratori ma consentire loro maggiore flessibilità (che è un po’ quello che vogliono le aziende) e hanno addirittura scritto una lettera al commissario europeo per il Lavoro e i Diritti sociali, Nicolas Schmit, chiedendogli di intervenire per fermare la legge (cosa che però non è in suo potere).
Nella lettera, le associazioni hanno scritto di voler rimanere indipendenti e mantenere la libertà di decidere in autonomia le modalità di svolgimento del proprio lavoro, cioè quando e per quanto tempo farlo, scegliendo ogni volta la piattaforma per cui lavorare: tutte decisioni che non potranno più prendere con la nuova legge. Ovviamente, questi rider non vogliono rinunciare ai diritti e alla trasparenza che la legge dà loro, ma chiedono che tali diritti vengano riconosciuti rimanendo lavoratori autonomi, senza dover rinunciare alla flessibilità che è preziosa per molti di loro.
Il mestiere del rider si è diffuso in tutto il mondo con l’espandersi di quella che viene chiamata “gig economy” (“economia dei lavoretti”): un modello economico basato sul lavoro a chiamata, che ha carattere occasionale e temporaneo. Le società che sfruttano questo modello sono generalmente grandi imprese hi-tech che gestiscono piattaforme digitali di intermediazione tra chi cerca un servizio e chi lo offre, come per esempio chi vuole ordinare del cibo pronto a casa e chi lo cucina (i ristoranti).
Il modello di business di queste imprese, che con la pandemia hanno visto aumentare notevolmente il proprio giro d’affari, si è sempre basato sulla disponibilità di un’ampia flotta di rider prontamente disponibili e flessibili in termini di orari, nonché sulla minimizzazione dei costi di questo personale, ingaggiato attraverso le stesse piattaforme con contratti di lavoro autonomo. La maggior parte delle aziende di consegne al momento opera in perdita.
La flessibilità dei lavoratori è quindi un valore importante per le imprese, sia dal punto di vista operativo sia economico.
Ma anche i rider, la cui composizione sociale e anagrafica è estremamente varia, hanno opinioni molto differenti. Alcuni hanno celebrato la legge spagnola e la stabilizzazione dei loro contratti che questa potrebbe portare, mentre altri attribuivano grande valore alla flessibilità degli orari e, intervistati da Bloomberg a Madrid la scorsa settimana, hanno detto di aver lasciato Uber Eats dopo che la società, per ottemperare alla nuova legge, aveva proposto ai lavoratori un’assunzione con orari fissi attraverso un’agenzia di collocamento.
Un altro problema sollevato dalle associazioni dei rider è la perdita di posti di lavoro che questa legge rischia di generare. Secondo uno studio di Adigital – associazione che rappresenta gli imprenditori attivi nell’economia digitale spagnola – imporre alle aziende di assumere i rider come dipendenti farebbe perdere il lavoro a circa 23 mila di loro: tre quarti del totale. Un’ora di lavoro di un singolo rider costerà infatti molto di più per l’impresa che lo debba assumere come dipendente, perciò le imprese assumeranno il minimo numero indispensabile di rider, massimizzando le ore di lavoro che possono ottenere da ognuno di loro.
Le reazioni di alcune delle maggiori piattaforme all’emanazione della legge sembrano confermare queste aspettative: Glovo ha promesso di assumere solo il 20 per cento dei rider che lavorano con la sua piattaforma, mantenendo gli altri in una condizione di autonomia che secondo l’azienda rispetterebbe le nuove regole (decisione criticata duramente dal maggior sindacato spagnolo, il CCOO, perché va contro lo spirito della norma). Peraltro, come riportato da Bloomberg, il nuovo algoritmo di Glovo tenderebbe a favorire i rider assunti, lasciando meno lavoro agli altri. Questo potrebbe scatenare una gara al ribasso tra i rider indipendenti che, pur di ottenere le consegne disponibili, chiederanno sempre meno soldi per il proprio servizio, vedendo così ridursi non solo la quantità di trasporti richiesti, ma anche il compenso medio per ogni trasporto effettuato.
Deliveroo invece intende chiudere l’intera divisione spagnola, anche se la decisione non è ancora definitiva: nel corso di questo mese si consulterà con i rider e i propri impiegati in Spagna per giungere a una decisione finale. Al momento però, data anche l’introduzione della legge, la chiusura sembra la decisione più probabile. La società sostiene infatti che l’investimento richiesto per mantenere attivo e competitivo il suo ramo spagnolo sia sproporzionato rispetto al ricavo economico: dal mercato spagnolo Deliveroo ottiene solo il 2 per cento delle proprie entrate.
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C’è poi il problema dell’economia sommersa che la gig economy nasconde. Daniel Gutierrez, l’ex rider che ha fondato Riders x Derechos, ha detto a Bloomberg che circa la metà dei fattorini spagnoli lavora senza un proprio account sulle piattaforme, noleggiando illegalmente quello di qualcun altro. Si tratta principalmente di immigrati irregolari, che non hanno il permesso di lavorare in Spagna e perciò prendono in prestito account registrati da rider spagnoli (che possono aprirne uno per piattaforma e noleggiare ad altri quelli che non usano), riconoscendo loro tra un quarto e un quinto degli introiti ottenuti. Riders x Derechos sostiene che la nuova legge colpirà economicamente gran parte di queste persone, che già vivono in situazioni di fragilità economica e in mancanza di diritti, perché chiaramente non possono essere assunte senza un permesso di lavoro nel paese.
Dall’emanazione della legge, secondo la Asociación Profesional de Riders Autónomos, finora solo un quarto dei rider spagnoli ha ottenuto contratti di lavoro dipendente: un numero che combacia con le stime di Adigital.
Nonostante tutti i problemi sottolineati dalle associazioni spagnole di rider, i sindacati di tutta Europa sembrano guardare al caso spagnolo come a un esempio. La Confederazione europea dei sindacati (ETUC), organizzazione sindacale che dialoga con le istituzioni europee per conto di 90 sindacati da 38 paesi, per un totale di 45 milioni di lavoratori rappresentati, ha sostenuto che l’Unione Europea debba seguire le orme della Spagna: la ley rider, ha detto il suo segretario, Ludovic Voet, «stabilisce lo standard per le prossime azioni dell’UE sulle società che gestiscono le piattaforme».
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