Perché Kabul-come-Saigon
Alcuni momenti della fine della guerra in Vietnam, catastrofici per gli americani, sono stati paragonati a quello che sta succedendo a Kabul: e qualche similitudine c'è
Il 29 aprile del 1975, dopo l’entrata dei nordvietnamiti a Saigon (oggi Ho Chi Minh) che mise fine alla guerra in Vietnam, gli elicotteri militari degli Stati Uniti cominciarono a evacuare dalla città gli americani e i loro alleati. Una delle fotografie più famose di quel giorno ritrae una fila di persone che cerca di salire su un elicottero atterrato sul tetto di un edificio.
Era uno degli ultimi voli utilizzati dagli Stati Uniti per portare al sicuro il personale civile e militare: quell’edificio ospitava gli uffici della CIA e a salire sull’aereo furono soprattutto politici sudvietnamiti con le loro famiglie.
Quelle immagini, e il caos che le accompagnò, sono state ricordate molto negli ultimi due giorni, perché paragonate a quello che sta succedendo in Afghanistan, con la conquista della capitale da parte dei talebani, l’evacuazione dell’ambasciata americana tramite un ponte aereo (anche a Saigon fu evacuata l’ambasciata) e le scene successive di confusione e panico.
Il paragone tra Kabul e Saigon è stato riproposto anche a causa di alcune parole pronunciate dal presidente americano Joe Biden il mese scorso. Biden aveva negato che potesse esistere qualsiasi similitudine tra l’Afghanistan e il Vietnam, dicendo che non si sarebbero viste in nessuna circostanza persone evacuate dal tetto dell’ambasciata come era successo a Saigon. Le immagini degli ultimi giorni sono state usate per sottolineare il fallimento della guerra contro i talebani e il suo finale disastroso, così come era successo nel 1975 in Vietnam.
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Pur con tutte le dovute differenze, ci sono alcune similitudini tra la caduta del Vietnam e quella dell’Afghanistan, entrambe seguite all’accordo di ritirare le truppe americane dal territorio dopo molti anni di guerra.
L’evacuazione degli americani e dei loro alleati da Saigon fu avviata alla fine della guerra in Vietnam, che durò dal 1960 al 1975 e fu combattuta da una parte dal Vietnam del Nord, guidato dalla dittatura comunista di Ho Chi Minh e sostenuto al Sud dal movimento armato dei vietcong, e dall’altra dal Vietnam del Sud, dove dopo il conflitto di Indocina era stato instaurato un regime anti-comunista guidato da Ngô Đình Diệm e sostenuto dagli Stati Uniti. Fu una delle guerre più violente e sanguinose del Novecento ed è considerata la prima grande sconfitta militare degli Stati Uniti durante la Guerra Fredda.
Le due parti in guerra avevano firmato gli accordi di pace di Parigi nel gennaio del 1973 dopo lunghe e complicate trattative. Tra altre cose, gli accordi prevedevano il ritiro delle truppe americane dal Vietnam del Sud, dove di fatto avrebbero potuto invece rimanere le truppe nordvietnamite: per questo gli accordi piacevano molto poco agli alleati degli americani, che li vedevano come una resa imposta dagli Stati Uniti. Il governo americano aveva però convinto i sudvietnamiti a firmarli promettendo l’intervento americano in difesa del Vietnam del Sud nel caso in cui i nordvietnamiti avessero violato i termini dell’intesa: accadde nel marzo del 1975, quando i nordvietnamiti sostenuti dai vietcong cominciarono l’offensiva militare che li portò, il mese successivo, a prendere il controllo di Saigon.
In quel momento, la presenza militare statunitense in Vietnam era già diminuita in modo significativo.
Per una serie di ragioni anche interne, tra cui le dimissioni dell’allora presidente americano Richard Nixon a causa dello scandalo del Watergate, il Vietnam non era più una priorità per gli Stati Uniti. A Saigon era rimasta l’ambasciata e un centro della CIA, mentre il principale centro di coordinamento militare delle truppe americane era stato ridotto a una sede diplomatica che aveva il compito di fornire soprattutto supporto logistico alle truppe sudvietnamite. Il Congresso americano, poi, aveva tagliato le spese e ridotto l’impiego di mezzi militari per sostenere gli alleati: come la guerra in Afghanistan, quella in Vietnam era stata lunga e costosa ed era sempre meno sostenuta dai cittadini americani e dai loro governi.
Quando cominciò l’offensiva nordvietnamita nel 1975, nessuno si aspettava che le truppe nemiche arrivassero alla capitale in soli 55 giorni. Come quella dei talebani, l’offensiva finale nordvietnamita avanzò con la conquista delle capitali provinciali, fu rapidissima e non incontrò molta resistenza.
Gli Stati Uniti non intervennero come si aspettavano gli alleati: mentre i nordvietnamiti e i vietcong avanzavano, gli americani si limitavano a reazioni simboliche, tra le altre cose evitando di parlare pubblicamente di quanto stava accadendo. La situazione peggiorò rapidamente e il Congresso americano mandò una delegazione nel Vietnam del Sud per valutare se fosse il caso di aumentare le spese per sostenere le truppe locali: decise di no.
Come in Afghanistan, gli americani continuavano a dirsi fiduciosi nella possibilità di negoziare un accordo con i nemici: quando parte del paese era ormai in mano alle truppe nordvietnamite, gli Stati Uniti parlarono di negoziare una resa che avrebbe permesso al personale americano di rimanere nel paese. Parlarono anche di evacuazione, ma senza arrivare a un piano definitivo.
A Washington, il Consiglio per la Sicurezza Nazionale scriveva a Henry Kissinger, allora consigliere per la sicurezza nazionale, che il conflitto in corso era solo «un preludio a un nuovo ciclo di negoziazioni volte a implementare gli accordi di Parigi» a vantaggio dei nordvietnamiti, che avrebbero «fatto le loro conquiste in primavera per poi proporre un cessate il fuoco». Gli Stati Uniti, insomma, parlavano dell’offensiva come se fosse solo una temporanea ripresa del conflitto, destinata a concludersi senza significative evoluzioni.
A sottovalutare quello che stava succedendo furono anche alcuni diplomatici americani a Saigon. Thomas Polgar, capo della CIA in città, raccontò per esempio che all’ambasciata nessuno sentì l’urgenza di affrontare con decisione il tema dell’avanzata dei nordvietnamiti.
Tra la fine di marzo e l’inizio di aprile, quando la seconda città più grande del Vietnam era sotto assedio e il Vietnam del Sud aveva chiesto un massiccio supporto logistico, l’amministrazione dell’allora presidente Gerald Ford propose di aiutare gli alleati con più di 700 milioni di dollari di aiuti e attrezzature militari. Ma non trovò il sostegno necessario per farlo: agli Stati Uniti non conveniva investire molto su un paese che si trovava, ormai inequivocabilmente, sull’orlo del collasso. A quel punto gli Stati Uniti tentarono di risolvere la situazione attraverso vari canali diplomatici, cercando di rallentare l’avanzata nemica e di guadagnare tempo per pianificare un’evacuazione efficiente del proprio personale diplomatico. Arrivarono anche a chiedere aiuto alla Russia, senza ottenere nulla.
Un articolo pubblicato sul Washington Post il 13 aprile del 1975 descriveva chiaramente il precipitare della situazione e il drastico ridimensionamento dei piani per l’evacuazione del personale diplomatico statunitense e degli alleati. Il governo era partito dicendo che avrebbe fatto uscire dal paese centinaia di migliaia di sudvietnamiti, raccontava il Washington Post, ma poi si era ritrovato a pianificare in fretta e furia un’evacuazione frettolosa ed estremamente ridotta nelle sue dimensioni.
Come a Kabul, le truppe nemiche raggiunsero la periferia della capitale nelle prime ore del mattino. Era il 29 aprile del 1975, le truppe nordvietnamite e i vietcong erano vicinissimi a Saigon, ma nessuno aveva ancora predisposto degli elicotteri per evacuare gli americani. Solo verso la tarda mattinata il governo statunitense li fece partire. Polgar disse che il governo «perse ore preziose».
Nel corso di tutto il giorno successivo, più di 80 elicotteri, ognuno in grado di portare circa 50 persone, portarono via da Saigon parte del personale militare civile e militare americano e sudvietnamita. Migliaia di civili si arrampicarono sulle pareti dell’ambasciata sperando di essere imbarcati da uno dei tanti elicotteri che, circa ogni 10 minuti, atterravano dove potevano per portare via le persone.
Furono scene drammatiche, che molti hanno paragonato ai tentativi disperati dei civili afghani di salire sugli aerei militari all’aeroporto di Kabul.
Fu dal tetto di un albergo che il fotografo danese Hubert Van Es scattò la famosa foto dell’evacuazione di molti sudvietnamiti dall’edificio che ospitava il centro della CIA a Saigon. L’ultimo elicottero lasciò Saigon prima delle 8 del giorno successivo: erano state evacuate circa 7000 persone (5500 vietnamiti e circa 1500 americani, secondo le stime statunitensi). Il Vietnam del Sud annunciò la propria resa, e la guerra finì.
Quel giorno, alla Casa Bianca, il presidente degli Stati Uniti disse: «Quest’azione chiude un capitolo del vissuto americano. Chiedo a tutti gli americani di fare fronte comune, evitare le recriminazioni, guardare avanti ai molti obiettivi che condividiamo e di lavorare insieme ai grandi compiti che ci restano da realizzare».