La rivincita dei QR code
Utilizzati pigramente per anni, per un periodo snobbati e derisi, con la pandemia si sono rivelati utilissimi e probabilmente rimarranno tra noi
di Gabriele Gargantini
Non che se ne fossero mai andati del tutto, ma da qualche tempo i QR code sono tornati. Nei menu dei ristoranti e, soprattutto, nei Green Pass di cui tanto si parla. Per i QR code, dei codici a barre bidimensionali, è una sorta di rivincita: perché mentre in Cina li si usa da anni con profitto e costanza, in gran parte del resto del mondo sembravano, fino a prima della pandemia, una tecnologia vetusta e superata, che era in procinto di scomparire ancora prima di attecchire davvero.
I QR code sono tornati, di nuovo, dopo essere stati spesso abusati dalla pubblicità e a volte anche derisi per la loro apparentemente scarsa utilità: ora quei quadratini da inquadrare con la fotocamera si sono rivelati utilissimi in un contesto in cui quasi chiunque ha uno smartphone con una fotocamera e una buona connessione a internet, e in cui meno cose vengono toccate dalle mani di ognuno e meglio è per tutti. «È finalmente arrivato il loro momento», ha scritto Quartz, ed è una «inaspettata rivalsa di una largamente calunniata tecnologia».
Sembrano quindi esserci ragioni per credere, come ha fatto notare tra gli altri il New York Times, che ormai «i QR code sono qui per restare». Ma non è davvero detto, visto che è già la terza volta che, fuori dalla Cina, sembra essere finalmente arrivato il loro momento. E non è nemmeno detto che sia un bene, viste le ampie possibilità di tracciamento che offrono a chi li crea e controlla. Di certo, comunque, prima di arrivare sui tavoli dei ristoranti e nelle certificazioni verdi del 2021, hanno fatto un giro largo e strano.
I QR code furono inventati nel 1994 in Giappone, perché Toyota aveva bisogno di un sistema semplice e veloce per tracciare e tenere sotto controllo i pezzi di automobili che si muovevano nella sua catena di montaggio. L’azienda chiese quindi alla sua controllata Denso Wave, che si occupava e ancora si occupa di sistemi integrati, di pensare a qualcosa che potesse essere più semplice, più veloce e più potente dei codici a barre monodimensionali sviluppati negli anni Cinquanta da alcuni studenti statunitensi e dopo successivi perfezionamenti usati nei negozi di tutto il mondo.
Del progetto che portò ai QR code si occupò soprattutto Masahiro Hara, che al tempo era un giovane ingegnere della Denso Wave, che di recente ha raccontato che non si aspettava in nessun modo che quei crittogrammi – dei piccoli messaggi cifrati in grado di contenere tante informazioni in poco spazio – potessero trovare un senso anche lontano da una catena di montaggio.
A differenza dei codici con le barre orizzontali e di altri sistemi bidimensionali che già esistevano, i QR code (dove le due lettere stanno per “Quick Response”, risposta rapida) avevano due importanti peculiarità: alcuni quadratini non erano lì per contenere informazioni, bensì per aiutare i dispositivi che li dovevano inquadrare a farlo meglio e più in fretta. Per decodificare le informazioni che contenevano, poi, bastavano normali sensori, non strumenti di scansione come quelli ancora in uso nei supermercati.
I QR code sono un’evoluzione dei codici a barre perché in uno spazio simile possono contenere molte più informazioni. Le linee verticali di un codice a barre bidimensionale possono sostituire giusto qualche decina di cifre o caratteri. I QR code, invece, possono contenerne alcune migliaia, e per ottenerle basta una fotocamera digitale, che grazie a una serie di segni presenti nel codice può trasformare l’immagine in un link. Nella maggior parte dei QR code ci sono infatti tre quadrati sugli angoli, il cui scopo è aiutare la fotocamera ad allinearsi con l’immagine. Un quarto quadrato, un po’ più accentrato sull’ultimo angolo, aiuta poi la fotocamera a capire la grandezza dell’immagine e l’angolazione da cui la si sta inquadrando.
Tutti gli altri quadratini più piccoli fanno invece qualcosa di simile a quello che le barre verticali fanno nei codici a barre: contengono cioè le informazioni necessarie a aprire un determinato link. I QR code possono arrivare a contenere fino a un massimo di circa 3 KB di dati. A volercisi mettere, è anche possibile imparare a decodificare “a mano” un QR code.
Tramite link, quindi, i QR code (che esistono in formati tra loro diversi, statici o dinamici) possono portare verso ogni tipo di contenuto, e possono essere usati in svariati contesti. E c’è anche la possibilità di fare QR code esteticamente un po’ più creativi di quelli a cui molti sono abituati: ne esistono infatti anche alcuni a loro modo artistici.
Nella seconda metà degli anni Novanta, e ancor più nei primi anni Duemila, i QR code uscirono dalle catene di montaggio e si diffusero in altri settori e contesti con relativa facilità, di certo aiutati dal fatto che la Denso Wave, che di fatto ancora controlla il relativo brevetto, rese libera la licenza per il loro uso, che per alcuni anni restò comunque perlopiù industriale.
Grazie alle loro indubbie potenzialità e in conseguenza dell’arrivo dei primi smartphone con fotocamera integrata, per i QR code si aprirono però nuove e interessanti opportunità. A loro modo, quei quadratini erano infatti dei possibili punti di passaggio dal mondo reale a quello virtuale, una sorta di semplice anticipazione della realtà aumentata. Molti QR finirono sulle riviste, spesso all’interno di pubblicità che invitavano i lettori dotati di smartphone a inquadrarli per andare oltre e leggere altro, online. Alcuni altri finirono sugli edifici, sui vestiti e su oggetti e in luoghi tra loro parecchio diversi, con scopi di volta in volta differenti: «ogni superficie può ora diventare un portale verso un contenuto digitale», come scrisse il sito di marketing ClickZ.
A fine 2011 il New York Times scrisse: «così come i grossi stivali neri, durante l’ultima settimana della moda i “Quick Response (QR) code” erano ovunque». L’articolo parlava di biscotti con QR code, pullman con QR code, manichini con QR code e persino braccialetti su cui chi lo desiderava poteva far mettere un suo personale QR code. I QR code finirono anche su alcune tombe e, come documentato dal sito “WTF QR code” (definito «un compendio definitivo di una triste e orribile tecnologia»), in tutta una serie di posti e oggetti dove apparentemente non avevano molto senso.
Nonostante un generale entusiasmo nei loro confronti, i QR code non riuscirono però a sfondare. Un po’ perché molti loro usi sembravano forzati, effimeri e nell’interesse delle aziende più che degli utenti; ma forse soprattutto perché il contesto generale non era ancora pronto. I QR code erano infatti comodi e rapidi nella teoria, non molto nella pratica: una decina di anni fa le connessioni internet erano peggiori di quelle di oggi, e così anche le fotocamere. E soprattutto, per scansionare quei codici c’era da scaricare un’app dedicata, scegliendo tra le tantissime esistenti (non tutte ugualmente sicure ed efficaci).
Se per certe aziende poteva essere interessante provare a mettere un QR code in una metropolitana, per molti pendolari aveva pochissimo senso prendere il telefono, aprire l’app, inquadrare il codice e sperare in una mano sufficientemente ferma e in una connessione sufficientemente stabile da aprire poi chissà quale link.
Poco dopo essere sembrati il futuro, i QR code sembravano essere già il passato. «Sono una tecnologia che vuole disperatamente la nostra attenzione», scrisse Gizmodo, che li definì «occasionalmente utili ma molto spesso macchinosi e inefficaci». Come ha ricordato di recente Quartz, «divennero una barzelletta, qualcosa di cui si parlava per fare riferimento a strategie di marketing pigre e ingannevoli». E Scott Stratten, autore del libro QR Codes Kill Kittens (“I QR code uccidono i gattini”) ha detto che divennero «i Jurassic Park del marketing», ovvero qualcosa che le aziende usavano perché potevano farlo, senza pensare se fosse effettivamente il caso di farlo.
Le cose sembrarono poter cambiare di nuovo nel 2017, quando gli iPhone prima e i telefoni con Android poi resero possibile scansionare i QR code direttamente dalle fotocamere, senza più bisogno di dover scaricare altre app dedicate, con tutte le piccole ma determinanti perdite di tempo e scomodità che la cosa comportava. «I QR code non sono un fallimento del passato, sono il futuro» scrisse Wired nel 2017, «questa volta per davvero».
In realtà, tuttavia, anche quell’importante novità non contribuì granché a rendere davvero diffuso, comune e più o meno quotidiano l’uso dei QR code.
Almeno non in Occidente. Perché in Cina, invece, già da qualche anno sia AliPay che WeChat avevano reso possibile il loro uso all’interno delle rispettive app – entrambe molto diffuse nel paese – e dove già nel 2017 si stima che più della metà della popolazione li avesse usati per almeno un pagamento digitale. A quanto pare, i QR code arrivarono in Cina proprio quando ce n’era bisogno: cioè quando era aumentata la capacità di spesa di una rilevante parte di popolazione, che però era poco incline a usare i contanti. In un paese, tra l’altro, in cui la banconota di taglio maggiore, quella da 100 yuan, vale poco più di dieci euro.
Già nel 2017 Chen Yiwen, studiosa di comportamenti dei consumatori, parlò al South China Morning Post della possibile «alba di una codeconomy». Un anno più tardi lo stesso giornale constatò che i QR code avevano ormai «conquistato la Cina» e parlò del fenomeno come di una vera e propria «rivoluzione finanziaria».
– Leggi anche: Un QR code nel cielo formato da 1.500 droni, a Shanghai
Pian piano gli utilizzi rilevanti aumentarono anche nel resto del mondo, in particolare per i servizi online che richiedono una doppia autenticazione dell’utente, per esempio sia sullo smartphone sia sul computer, come molti siti di home banking. Ma è soprattutto con la pandemia che i QR code hanno trovato nuovi e urgenti impieghi: per fornire link al posto di menu dei ristoranti, ma anche per questioni più importanti legate ai pagamenti (ormai da un anno, per esempio, PayPal consente pagamenti con QR code). In alcuni paesi i QR code sono stati usati per il tracciamento dei contatti e in molti altri ancora, Italia compresa, per le certificazioni che consentono di viaggiare e fare diverse altre cose, i cosiddetti “Green Pass”.
Di nuovo, quindi, sembra essere arrivato il momento dei QR code. Se dovessero continuare a diffondersi, è tra l’altro probabile che se ne tornerà a parlare per questioni legate alla sicurezza e alla privacy: perché è relativamente facile, per fare l’esempio più semplice, usarli per far arrivare qualcuno a un link diverso da quello atteso, e contenente un virus; e perché – come successo in quest’ultimo anno in Cina – permettono di mettere in atto quello che il New York Times ha definito «un preoccupante precedente per il controllo sociale automatizzato».