Le cose che ho imparato sui valdesi
«Imparare a leggere, a farsi delle domande, a coltivare il dubbio, a mettersi in discussione. Interrogarsi di volta in volta sulle questioni urgenti del proprio tempo, e cercare di essere vicina agli ultimi. È il processo che questa piccola comunità mette in atto da 850 anni»
Vi risparmio i dettagli su come mi sia ritrovato un sabato mattina nell’auto di uno sconosciuto che dalla stazione di Torino mi scarrozzava verso Torre Pellice, un luogo da me non ben identificato in cui avrei incontrato il mio contatto Valentina, con cui mi ero solo scambiato qualche frase in DM su Instagram, come un qualunque figlio della Z generation.
In un posto che non avevo mai sentito nominare prima trovo un centro storico ordinato la cui via principale è costituita da una serie di edifici sobri e aggraziati che, mi spiegheranno, erano il cuore del mondo valdese, per come era stato pensato: scuole, alloggi, tempio, e case per professori e abitanti. C’è anche un museo ma è chiuso, per cui la storia dei valdesi me la faccio spiegare da Samuele, mentre ci inerpichiamo su per le loro valli.
Gole verdissime e abbastanza strette da essere ritenute di poca importanza dai “grandi della storia” e dunque un ottimo rifugio per questo gruppo di cristiani mal tollerati quando non odiati e perseguitati da chiesa Cattolica e Savoia. Ma, forse grazie anche a queste valli, sopravvissuti fino ad oggi. I villaggi valdesi sono un acquerello di vita montana. Fattorie, orti, stradine ben curate, e templi per il culto della domenica. Qui, unico caso italiano, in convivenza pacifica e stretta con le chiesine cattoliche. C’è un museo dei costumi tipici – che ricordano vagamente, per chi ha culture cinematografiche e internazionali, quelli Amish – che rimanda a quell’ideale di vita agricola regolata dalle stagioni e da una cittadinanza attiva e pacifica. Un po’ come essere in una sorta di kibbutz diffuso, o se preferite come trovarsi a Walnut Grove, il villaggio in cui è ambientato La casa nella prateria.
Ci sono le piccole scuole, una per villaggio, sopravvissute al tempo e all’urbanistica moderna che arriva anche qui con le sue zampate di case vacanza e villette a schiera. E allora qualcosa ti si accende. Perché al di là della leggenda per cui, sotto la neve, ogni bambino giungeva in classe con il suo ciocco di legno da mettere nella stufa che scaldava la stanza, che fa tanto De Amicis, ti rendi conto di un dettaglio non trascurabile. In queste valli si alfabetizzavano i bambini in grammatica (in due lingue, italiano e francese, ma si parlava per lo più l’occitano) e nel far di conto. Ed era il milleottocento. Quando in Italia cioè le istituzioni non alfabetizzavano quasi nessuno, e così sarebbe stato per ancora molti anni. E questa è stata la chiave per me per cominciare a comprendere i valdesi, e cosa abbia reso una esigua comunità montanara un perno prezioso, per quanto ancora gravemente e colpevolmente sconosciuto, della cultura italiana.
Valdo di Lione era un ricco signore, figlio di un mercante di stoffe, che dopo aver ascoltato la vita di alcuni santi, decise di lasciare tutti gli immobili a moglie e figlie, e il denaro ai poveri. E diventando lui stesso mendicante nella città in cui era signore, si aggirò predicando la radicalità del Vangelo.
Ultima commissione pagata con i suoi soldi: la traduzione in francese di alcuni libri della Bibbia.
Per sé e per i suoi seguaci.
L’ondata pauperistica era diffusa in quel tempo in tutta Europa, e sarà solo successivamente che arriverà a lambire la coscienza di colui che poi, da solo, si prese onori e oneri di questa rivoluzione nel cattolicesimo, Francesco di Assisi. Che fu decisamente omologo di Valdo – forse che si sia un po’ ispirato a lui? – se non fosse per quell’unico dettaglio, che cambierà le loro sorti fin qui sovrapponibili. Trent’anni prima del poverello di Assisi, anche Valdo venne convocato dal papa di allora. Anzi, fu in qualche modo coinvolto in un Concilio, il Lateranense: ma a differenza del nostro fraticello innamorato di Dio e della natura, la quadra per smussare la sua visione del Vangelo e trovare i favori e la protezione di santa madre Chiesa non la troverà. E da brava matrigna dunque, la Ecclesia lo condannerà per anatema, assieme ai Catari e ai Patarini, come eretico. Ordinando la morte sua e dei suoi seguaci. È qui che entra in gioco l’oro-idrografia che separa i torinesi dalle loro baite al Sestriere.
Perché è qui che trovò rifugio la comunità ormai chiamata valdese. Celebrando messa nelle grotte per sfuggire le spade della dottrina, e aspettando tempi migliori. Che arrivarono, anche se trecento anni dopo, quando su uno dei loro prati ancor oggi visitabili i valdesi incontrarono una delegazione di un movimento esploso in nord Europa in modo deflagrante: i protestanti.
La storia si limita a dirci che i valdesi decisero di aderirvi, sentendosi ben rappresentati dalle istanze di Lutero.
Mi piace però pensare che una volta ascoltatili, i valdesi abbiano risposto: “era ora che anche qualcun altro se ne accorgesse!”.
Si accorgesse di cosa?
Ebbene, che un percorso spirituale maturo, per definirsi tale, necessita un cammino di consapevolezza. Di se stessi e di cosa contenga il testo di riferimento della religione a cui si aderisce. Perché da qui partì anche la rivoluzione luterana: tradurre la bibbia in tedesco.
Imparare a leggere, a farsi delle domande, a coltivare il dubbio, a mettersi in discussione.
È il processo che questa piccola comunità mette in atto da 850 anni.
Interrogarsi di volta in volta sulle questioni urgenti del proprio tempo, e cercare di essere vicina agli ultimi.
Ecco perché hanno lavorato per l’alfabetizzazione. E lavorano a oggi per uno stato in cui il diritto alla vita sia anche e soprattutto libera scelta. Del singolo su se stesso. Delle donne sul proprio corpo. E ancora, sul diritto a poter scegliere di morire quando non si ha davanti un’alternativa sopportabile.
Cercare nel testo sacro il significato che possa essere tradotto, dunque adattato, alle donne e agli uomini del presente, poiché è l’interpretazione che si adatta al bene dell’essere umano e non il contrario.
La piccola libreria Claudiana a Milano, accanto al tempio valdese di via Sforza, accoglie esegeti cristiani ed ebrei; organizza tavole rotonde con esponenti del mondo intellettuale e religiosi di ogni dove. Il liceo classico valdese parificato è l’unico istituto in Italia in cui ci sia l’ora di religioni e non di religione, tanto per fare qualche esempio. Ma su tutti, basti sapere che da quando ha accesso all’otto per mille, la Chiesa valdese ha scelto di non usare questo denaro né per sostenere il suo clero, né per pagare le bollette o i restauri delle sue chiese, ma solo per attività sociali e culturali.
E, scusate se è poco, da allora, pubblica il proprio bilancio in totale trasparenza.
Inutile dilungarmi sulla presenza nelle chiese valdesi di pastori uomini tanto quanto di pastori donne, e l’apertura agli amori non eterosessuali, alle famiglie arcobaleno, alle unioni di coppie lgbtq.
Ma allora un cristianesimo impegnato, laico e accogliente esiste già. Basta guardare un centimetro più in là del nostro ombelico cattolico.