La Bielorussia, un anno dopo
Tra il 9 e il 10 agosto 2020 il presidente Alexander Lukashenko disse di avere vinto le elezioni, nonostante le accuse di brogli: poi iniziò la repressione
Lunedì, a un anno esatto dalle ultime contestate elezioni presidenziali in Bielorussia, Stati Uniti, Regno Unito e Canada hanno approvato nuove sanzioni contro il regime del presidente Alexander Lukashenko, che governa il paese in maniera autoritaria dal 1994. Le sanzioni non sono state le prime imposte contro la Bielorussia: nel corso dell’ultimo anno diversi stati e organizzazioni, tra cui l’Unione Europea, avevano già adottato misure contro il regime di Lukashenko, accusato di avere avviato una feroce repressione contro i suoi oppositori, quelli che avevano messo in discussione la legittimità della sua vittoria elettorale.
Rispetto a quell’agosto 2020, la struttura di potere in Bielorussia non è cambiata – Lukashenko è sempre il presidente, appoggiato dalla Russia – ma sono cambiate diverse cose nell’opposizione, profondamente indebolita da arresti ed esili forzati.
Svetlana Tikhanovskaya, la principale rivale di Lukashenko alle elezioni del 9 agosto, si trova oggi in esilio forzato, così come Veronika Tsepkalo, sua alleata; Maria Kolesnikova, la terza politica donna che insieme a Tikhanovskaya e Tsepkalo aveva sfidato il presidente, è sotto processo in Bielorussia e rischia fino a 12 anni di carcere.
Nel frattempo le forze di sicurezza bielorusse hanno arrestato migliaia di manifestanti e ne hanno picchiati centinaia, hanno chiuso uno dei più importanti siti di news indipendenti del paese, hanno deviato un aereo Ryanair per arrestare un dissidente e hanno tentato di riportare forzatamente in patria un’atleta che aveva contestato pubblicamente i suoi allenatori durante le Olimpiadi di Tokyo. Le autorità ucraine stanno inoltre indagando sulla morte dell’oppositore bielorusso Vitaly Shishov, trovato impiccato vicino alla sua casa a Kiev a inizio agosto, e per cui si sospetta un omicidio mascherato da suicidio.
Al di fuori dei confini nazionali, il regime di Lukashenko ha adottato politiche altrettanto aggressive. I paesi che hanno subito più direttamente le conseguenze degli eventi dell’ultimo anno sono stati Lituania, Lettonia e Polonia, che confinano con la Bielorussia.
La prima è stata la Lituania, come è diventato sempre più evidente nelle ultime settimane. Il regime bielorusso ha infatti “creato” una nuova rotta di migranti verso l’Europa con l’obiettivo di mettere in difficoltà il governo lituano – cioè uno dei paesi europei più piccoli e meno attrezzati per accogliere migranti e richiedenti asilo – e per estensione l’intera Unione Europea. La Lituania ospita da tempo alcune importanti figure dell’opposizione bielorussa e proprio in Lituania era diretto il volo Ryanair che a fine maggio la Bielorussia aveva dirottato per arrestare l’oppositore Roman Protesevich. Per ritorsione, il regime di Lukashenko aveva fatto arrivare centinaia di persone in aereo dalla Turchia e dall’Iraq, promettendo loro che non sarebbero state fermate alla frontiera tra i due paesi.
Secondo alcune stime citate tra gli altri dal Financial Times, negli ultimi mesi i migranti ad avere superato il confine sarebbero stati più di 4mila.
Di recente la questione ha iniziato a riguardare anche Lettonia e Polonia. Sotto pressione dell’Unione Europea, infatti, l’Iraq ha deciso di sospendere i voli verso Minsk, la capitale bielorussa, e la Lituania ha rafforzato i controlli alla frontiera, riducendo notevolmente gli ingressi. In risposta, il regime di Lukashenko ha iniziato a indirizzare i richiedenti asilo provenienti da Iraq, Siria e dai paesi africani verso la Lettonia e la Polonia. La ministra dell’Interno lettone, Marija Golubeva, ha detto che il suo governo è pronto a dichiarare lo stato di emergenza, mentre il ministro degli Esteri, Edgars Rinkevics, ha detto di essere preoccupato per eventuali incidenti tra truppe della NATO e soldati di Russia e Bielorussia, che il prossimo mese prenderanno parte a esercitazioni militari congiunte.
Nonostante le grosse manifestazioni degli ultimi mesi, che comunque hanno perso d’intensità con la repressione governativa, e nonostante le pressioni esterne, il regime di Lukashenko sembra più solido ora di quanto non lo fosse appena dopo le elezioni, quando l’appoggio della Russia aveva vacillato.
Tutti i leader d’opposizione sono stati arrestati o sono stati costretti all’esilio, e la maggior parte dei media e delle ong, tra cui istituzioni educative e organizzazioni per la difesa dei diritti umani, è stata chiusa e accusata di agire per conto di paesi stranieri. Tikhanovskaya, l’oppositrice che si trova in esilio forzato, ha detto a Politico di nutrire ancora una speranza di cambiamento, citando in particolare la creazione nell’ultimo anno di diversi gruppi di professionisti nati con lo scopo di sostenere le vittime della repressione governativa. Per il momento non sembrano comunque esserci le condizioni per un cambio di regime, nemmeno sotto la pressione delle sanzioni internazionali.