Il maratoneta che si uccise credendo di aver deluso il Giappone
La storia di Kokichi Tsuburaya, che non riuscì mai ad accettare la medaglia di bronzo vinta alle prime Olimpiadi di Tokyo
Le Olimpiadi di Tokyo del 1964 furono le prime organizzate dalla capitale giapponese. Ancora oggi sono considerate un evento molto significativo nel processo di modernizzazione che portò il Giappone dalle macerie della Seconda guerra mondiale a diventare uno dei paesi più industrializzati al mondo.
Prima del 1964 per il resto del mondo, e soprattutto per l’Occidente, il Giappone era un posto lontano e sconosciuto, legato unicamente al ruolo di aggressore avuto nella Seconda guerra mondiale. L’organizzazione delle Olimpiadi iniziò a dare un altro aspetto al paese e ne favorì lo sviluppo negli anni successivi.
A Tokyo 1964 il Giappone stabilì il suo record di medaglie con 16 ori vinti. Il record venne poi eguagliato ad Atene 2004 ed è stato abbondantemente superato nell’edizione in corso. Tra le medaglie vinte nel 1964, una in particolare rimase legata alla tragica storia personale di uno degli atleti più attesi di quei Giochi.
Kokichi Tsuburaya era nato nel 1940 in una zona rurale a nord di Tokyo. Era cresciuto in un periodo di grande crisi per il Giappone, tra povertà e malnutrizione. Una forma di artrite tubercolare contratta da bambino lo aveva lasciato con una gamba più corta dell’altra. Questo però non gli aveva impedito di appassionarsi alla corsa.
Dopo essersi specializzato nel mezzofondo a scuola, da ragazzo venne ammesso all’accademia del gruppo militare Rikujo Jieitai, nella quale iniziò a dedicarsi anche a distanze maggiori. Nell’anno delle Olimpiadi del 1964 stabilì il primato giapponese sui 10.000 metri e arrivò secondo nella maratona ai Campionati nazionali. Ai Giochi olimpici si iscrisse a queste due gare. Dopo un sesto posto nei 10.000 metri, nel giorno conclusivo della manifestazione si presentò alla partenza della maratona.
Al decimo chilometro il campione olimpico di Roma 1960, l’etiope Abebe Bikila, prese il largo, lasciandosi dietro quattro inseguitori: Tsuburaya e i britannici Basil Heatley, Brian Kilby e Jim Hogan. A metà gara Tsuburaya si era trovato sorprendentemente davanti al campione nazionale giapponese Kenji Kimihara e aveva continuato con il suo passo fino a trovarsi da solo al secondo posto, seguito a una certa distanza da Heatley.
Bikila entrò da solo allo Stadio Olimpico di Tokyo e vinse in 2 ore e 12 minuti: tre minuti in meno del tempo che aveva fatto a Roma, senza scarpe. Dopo circa quattro minuti entrò Tsuburaya, acclamato da 70mila spettatori, quasi tutti suoi connazionali: stava per vincere la prima medaglia giapponese nell’atletica leggera. Ma era visibilmente allo stremo. Heatley lo seguiva da vicino e con una delle più grandi rimonte nella storia delle maratone olimpiche, lo superò a pochi metri dal traguardo, vincendo l’argento.
Dal pubblicò non si percepì molta delusione, perché comunque era stata vinta una medaglia storica. E infatti sul podio continuò ad acclamare Tsuburaya, composto e impassibile come al suo solito. Ma dopo la gara l’atleta disse al suo connazionale Kenji Kimihara: «Ho commesso un errore imperdonabile davanti al popolo giapponese e dovrò rimediare». Kimihara ha ricordato recentemente: «Essere stato raggiunto e superato in quel modo lo fece sentire in debito con il pubblico, come se lo avesse deluso. Aveva una faccia così triste dopo la gara».
Tsuburaya si mise subito al lavoro per preparare le Olimpiadi di Città del Messico del 1968 ma esagerò con i carichi, che uniti ai suoi vecchi problemi di salute gli causarono molti problemi: un’ernia al disco, mal di schiena e delle lesioni ai tendini d’Achille che richiesero operazioni chirurgiche.
All’idea di non poter presentarsi a Città del Messico per riscattarsi, si aggiunse un altro problema. Tsuburaya aveva intenzione di sposarsi con Eiko, la ragazza della sua città natale che frequentava da tempo. Ma com’era usanza all’epoca, doveva prima ricevere il permesso dei suoi superiori al gruppo militare Rikujo Jieitai. Il suo allenatore glielo concesse, ma un alto ufficiale si oppose: prima avrebbe dovuto partecipare alle Olimpiadi del 1968.
Come raccontato da familiari e conoscenti, la famiglia della ragazza decise di annullare il fidanzamento per paura che potesse essere lasciata prima, cosa che le avrebbe reso difficile trovare un marito. Quando nei primi giorni del 1968 Tsuburaya tornò a Sukagawa, il padre gli disse che Eiko non l’avrebbe sposato.
La delusione, unita alle difficoltà ereditate da quel terzo posto alle Olimpiadi, fu tale che l’8 gennaio successivo Tsuburaya tornò nel suo dormitorio a Tokyo, si mise al collo la medaglia di bronzo vinta nel 1964 e si uccise con una lametta. Fece trovare una lettera alla sua famiglia, scritta in terza persona: «Mio caro padre e mia cara madre, il vostro Kokichi è troppo stanco per continuare a correre. Per favore perdonatelo. È dispiaciuto di avervi preoccupato per tutto questo tempo. Mio caro padre e mia cara madre, Kokichi avrebbe voluto vivere ancora al vostro fianco».
La lettera del suicidio è ora esposta insieme ad altri oggetti personali di Tsuburaya nel museo a lui dedicato nella sua città natale di Sukagawa, che ogni anno ospita un meeting di atletica leggera in suo ricordo.
– Leggi anche: Le Olimpiadi di Tokyo mai disputate
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