La vittoria dei talebani è inevitabile?
Il gruppo radicale islamista è sempre più vicino a prendere il controllo dell'Afghanistan, sfruttando circostanze favorevoli e l'incapacità di reagire del governo di Kabul
Venerdì i talebani hanno conquistato la prima capitale provinciale dell’Afghanistan dal 2016, ottenendo una vittoria più che altro simbolica ma che dimostra l’inesorabile avanzata militare del più potente gruppo estremista radicale del paese. La città, caduta senza particolari resistenze da parte dell’esercito afghano, è Zaranj, e si trova nella provincia di Nimruz, vicino al confine afghano-iraniano. Sabato, i talebani hanno preso il controllo di una prigione a Sheberghan, nel nord del paese vicino al confine col Turkmenistan, liberando centinaia di detenuti. Secondo i media internazionali la città, a sua volta una capitale provinciale, è ora controllata dai talebani.
La prossima a cadere potrebbe essere Lashkar Gah, che si trova nel sud, nella provincia di Helmand, una zona dove la presenza degli insorti era già molto forte prima dell’ultima grande offensiva militare, iniziata ormai un anno fa. Le testimonianze da Lashkar Gah raccontano di persone che hanno lasciato le proprie case, dell’ospedale cittadino bombardato e di truppe governative male equipaggiate e con pochi rinforzi. I talebani hanno conquistato diverse parti della città: hanno preso il controllo di un’emittente televisiva e hanno iniziato a trasmettere da una propria radio.
«Stiamo solo aspettando che i talebani arrivino: non ci aspettiamo più che il governo sia in grado di difendere la nostra città», ha detto al New York Times Mohammadullah Barak, un abitante di Lashkar Gah.
Quello che è successo a Zaranj mostra la forza dell’avanzata dei talebani in tutto l’Afghanistan, paese nel quale gli Stati Uniti hanno combattuto la guerra più lunga della loro storia (20 anni), iniziata proprio con il rovesciamento del regime talebano, nell’ottobre del 2001. Nell’ultimo anno, dopo che il governo statunitense aveva annunciato il ritiro delle proprie truppe dal paese, i talebani sono riusciti a prendere il controllo di circa la metà dei 400 distretti in cui è diviso l’Afghanistan, consolidando la propria presenza soprattutto nelle zone rurali.
Ora hanno iniziato a puntare anche alle città, e non solo nelle aree dove sono tradizionalmente più forti.
Hanno aumentato la pressione su Herat, nell’ovest, su Kandahar, nel sud, e su Mazar-i-Sharif, nel nord, dove fino a non molto tempo fa era impensabile una presenza così forte da parte dei talebani. Hanno preso il controllo di alcuni valichi di frontiera con l’obiettivo di tagliare una fonte significativa di entrate doganali per il governo afghano, rendendolo ancora più dipendente dagli aiuti esterni. E hanno iniziato diverse offensive attorno alla provincia di Kabul, la capitale, che si teme possa trovarsi presto assediata dagli insorti con l’obiettivo di costringere il governo afghano alla resa.
La situazione in Afghanistan è così grave che diversi politici afghani e stranieri, oltre che diversi esperti, hanno iniziato a chiedersi se la vittoria dei talebani non sia ormai inevitabile. Ci sono infatti diverse circostanze che sembrano essere favorevoli al gruppo estremista che governò il paese tra il 1996 e il 2001, fino all’invasione americana decisa a seguito degli attacchi terroristici a New York e Washington compiuti l’11 settembre 2001 da al Qaida, gruppo a cui i talebani offrivano protezione.
Il ritiro delle truppe statunitensi, arrivato in alcune circostanze in fretta e furia come nel caso della base aerea di Bagram, è probabilmente il fattore più importante e decisivo dell’avanzata talebana. L’accordo sul ritiro era stato raggiunto nel febbraio dello scorso anno, dopo estenuanti e difficili trattative tra talebani e governo statunitense, e per decisione del presidente Joe Biden sarà completato entro l’11 settembre 2021 (il governo afghano non era stato coinvolto in quelle trattative).
Ritiro sta significando diverse cose per l’esercito afghano, già estremamente debole, male armato e poco addestrato. Da un giorno all’altro gli afghani si sono trovati senza supporto aereo americano, fondamentale in molte delle operazioni militari compiute contro i talebani, e senza migliaia di contractor operanti nel settore della logistica che si occupavano di far funzionare i complessi sistemi d’arma che gli Stati Uniti avevano fornito all’Afghanistan. Biden ha promesso di continuare ad appoggiare le forze afghane, fornendo loro 1 miliardo di dollari per l’aviazione e garantendo la consegna di elicotteri Black Hawk. Potrebbe comunque non essere sufficiente, senza la presenza di militari stranieri e altro personale addestrato nel paese.
A evidenti mancanze militari si è aggiunta una grave incapacità del governo afghano di sviluppare una strategia efficace (ma anche una strategia e basta, dicono alcuni) per frenare l’avanzata talebana. Oltre ai problemi cronici di corruzione e alle difficoltà del governo di controllare l’intero territorio nazionale – problemi non certo nuovi – il governo afghano ha mostrato di avere fatto scelte che si stanno rivelando profondamente problematiche.
La più rilevante è stata quella compiuta dal presidente Ashraf Ghani di provare a smantellare i gruppi della vecchia “Alleanza del Nord”, cioè quelli che contribuirono al rovesciamento del regime talebano, nel 2001. Nell’ultimo anno molti si sono rafforzati, e ne sono nati di nuovi, in vista di una possibile ripresa della battaglia contro i talebani. Di recente il governo di Ghani ha provato a riavvicinarsi ad alcuni di loro, per ottenere una collaborazione che desse sollievo alle sfinite truppe afghane, senza troppo successo: gli sforzi sono stati troppo pochi, e sono arrivati troppo tardi, ha scritto il Financial Times.
Un altro sviluppo piuttosto recente che sembra poter favorire i talebani è l’appoggio più o meno esplicito ottenuto dal gruppo islamista da parte di governi stranieri, anche quelli che fino ad oggi si erano mostrati più freddi.
Uno degli eventi di cui si è parlato di più è stato un incontro diplomatico di alto livello tra talebani e funzionari cinesi avvenuto nella città di Tianjin, nel nord-est della Cina, la scorsa settimana. L’incontro ha alzato significativamente lo status internazionale dei talebani, un successo importante soprattutto per continuare a garantire in futuro all’Afghanistan un flusso rilevante di aiuti stranieri anche nel caso di rovesciamento dell’attuale governo di Kabul. Esponenti del governo cinese si erano già riuniti con i talebani in passato, ma mai in incontri di così alto livello e così pubblicizzati. Questo non significa che la Cina abbia iniziato una politica di appoggio ai talebani e opposizione al governo afghano: significa però che il regime cinese non si farebbe troppi problemi a fare accordi e affari con i talebani al potere, in caso di necessità o di opportunità.
Un altro paese che sembra avere mostrato qualche apertura recente verso i talebani è l’India, che finora aveva assunto posizioni molto ostili. Il governo indiano ha sempre visto infatti i talebani come una forza appoggiata e molto vicina al Pakistan, suo storico nemico. Forse di fronte all’inesorabile avanzata talebana, a luglio l’India ha confermato di avere avviato per la prima volta dei colloqui con il gruppo islamista.
I talebani possono contare in effetti sull’appoggio di altri paesi: del Pakistan, che insieme ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti aveva riconosciuto per primo il regime talebano quando aveva preso il controllo di Kabul, nel 1996, ma anche dell’Iran e della Russia.
L’insieme di tutte queste situazioni sembra poter favorire una eventuale vittoria dei talebani, che potrebbero rinunciare ai colloqui di pace con il governo afghano se i successi militari diventassero ancora più netti. L’obiettivo dei talebani è infatti quello di riprendere il controllo del governo e di costringere alle dimissioni il presidente Ghani. Mohammad Zahid Himmat, comandante talebano nella provincia di Wardak, nell’est del paese, ha parlato di istituire un «regime islamico puro» attraverso il controllo dei «confini economici» e dei flussi commerciali. Non è detto che il gruppo ci riesca, ma per come si stanno mettendo le cose è uno scenario possibile, e molto concreto.