Alla Procura di Milano è “la fine di un’era”
Il capo della più famosa e potente procura d'Italia, Francesco Greco, sta per andare in pensione tra crisi e lotte interne a tutta la magistratura
Gli uffici della Procura della Repubblica di Milano in questi giorni non sono luoghi tranquilli, perché scontri e tensioni a lungo soltanto interni sono diventati pubblici. Quella che negli ultimi trent’anni è stata la Procura più famosa d’Italia, sempre tra le più produttive, sicuramente la più potente, capace anche di indirizzare le scelte della politica, appare molto divisa, e chi la conosce parla di “fine di un’era”.
Il capo della Procura, Francesco Greco, che andrà in pensione a novembre, è contestato da gran parte dei magistrati (56 su 64), che in una lettera hanno sconfessato le sue iniziative. Lui, dall’altra parte, ha accusato apertamente uno dei pubblici ministeri, Paolo Storari, di slealtà. Tutto è nato dai verbali di un interrogatorio che, secondo Storari, non hanno avuto l’attenzione che meritavano e che poi, però, sono finiti a un membro del Consiglio Superiore della Magistratura (CSM, l’organo di autogoverno della magistratura) e soprattutto a due giornalisti. La vicenda ha dato origine a quello che oggi è conosciuto come “caso Amara” e per il quale si è parlato di una presunta “loggia Ungheria”.
Carlo Nordio, un magistrato veneziano che con la Procura milanese si è spesso scontrato, ha detto: «La Procura più importante d’Italia si rivela un ambiente di lotte intestine e, quello che è peggio, di violazione di legge». Per Frank Cimini, cronista di giudiziaria che per tre decenni è stato inviato prima per il Manifesto poi per il Mattino al Tribunale di Milano, «è la conclusione di un’era».
Per capire cosa sta succedendo alla Procura di Milano bisogna partire da un processo e da due nomi. Il processo è quello ai vertici della compagnia petrolifera Eni; i nomi sono quelli dell’ex manager della società in Nigeria, Vincenzo Armanna, e quello dell’avvocato Piero Amara, per anni consulente legale di Eni.
Il processo Eni, conclusosi con l’assoluzione di tutti gli imputati «perché il fatto non sussiste», ha riguardato l’acquisizione da parte della società della licenza per estrarre petrolio in un tratto di mare al largo della Nigeria. La licenza fu ottenuta da Eni pagando 1,3 miliardi di dollari, cifra ritenuta bassa. L’ipotesi formulata dai pm per l’accusa era che Eni avesse pagato tangenti ai politici nigeriani per una cifra complessivamente superiore agli 800 milioni di euro. Dopo le indagini, nel 2017 la Procura ottenne il rinvio a giudizio.
A sostenere l’accusa sono stati i pubblici ministeri Sergio Spadaro e Fabio De Pasquale. Quest’ultimo, in particolare, è un magistrato storico della Procura di Milano: nel 1993 fu criticato, soprattutto dai politici di centrodestra, per non aver concesso gli arresti domiciliari a Gabriele Cagliari, presidente di Eni in carcere per tangenti nell’ambito delle inchieste di Tangentopoli, che pochi giorni dopo si suicidò. L’inchiesta successiva certificò il comportamento corretto del magistrato.
Il processo sulla presunta tangente di Eni in Nigeria si è concluso a marzo di quest’anno con l’assoluzione di tutti gli imputati, tra cui i vertici di Eni, Paolo Scaroni e Claudio Descalzi, ex e attuale amministratore delegato della società. Secondo i giudici, l’accusa si era avvalsa di un ragionamento indiziario (cioè di una tesi accusatoria) che partendo da fatti accertati si perdeva poi in sole supposizioni. In pratica, per i giudici, i pagamenti erano legittimi, essendo stati effettuati comunque a uno Stato estero, e non solo “cosmetici”, come li aveva definiti l’accusa ipotizzando che fossero invece tangenti, soltanto falsamente regolari.
– Leggi anche: Sono stati tutti assolti nel processo sulla presunta tangente pagata da ENI alla Nigeria
Tra le persone assolte nel processo c’era anche Vincenzo Armanna, coimputato per corruzione internazionale (era dirigente dell’Eni in Nigeria, poi licenziato) ma anche al centro di un’inchiesta su un presunto complotto messo in atto dai vertici Eni per inquinare il processo di Milano. Da accusato Armanna si è tramutato in accusatore di Descalzi. Quindi ha ritrattato, poi ha ritrattato la ritrattazione dicendo di averla fatta incalzato dai vertici Eni. È risultato quasi impossibile farsi un’idea di quando abbia detto la verità, eppure la Procura di Milano è sempre andata avanti considerandolo un testimone valido.
L’altra figura chiave della storia è Piero Amara. Siciliano di Augusta, 52 anni, ex consulente legale di Eni, ha messo in piedi quello che i giudici hanno definito “il sistema Siracusa”, una vasta rete di relazioni, soprattutto all’interno del tribunale, che lo avrebbe aiutato, nel tempo, a indirizzare indagini e sentenze e a fare pressione sui politici siciliani. Lo faceva con due soci, Salvatore Calafiore, anche lui avvocato, e l’imprenditore Alessandro Ferraro. Nelle chat si chiamavano tra loro Peter Pan (Amara), Pablo Escobar (Calafiore) e Zorro (Ferraro). I tre fecero affari fino a che nel 2016 il sistema venne scoperto.
Amara ha patteggiato diverse condanne, ha collaborato con i magistrati, trascorso qualche settimana in carcere per poi spostare le sue attenzioni e attività fuori dalla Sicilia.
Piero Amara ha testimoniato nel 2019 davanti al pubblico ministero Paolo Storari, che indagava sul presunto complotto per depistare le indagini sulle tangenti Eni. In quell’occasione Amara consegnò ai pm un video registrato all’insaputa di Armanna, in cui quest’ultimo pianificava di ricattare i vertici di Eni, preannunciando l’intenzione di far arrivare una «valanga di merda» e «avvisi di garanzia» ai vertici dell’azienda.
Non solo, in quell’occasione Amara raccontò a Storari di far parte di una loggia massonica segreta, una specie di nuova P2, denominata Loggia Ungheria, a cui sarebbero stati iscritti moltissimi magistrati (si chiamerebbe Ungheria dalla piazza romana dove abita, appunto, uno dei giudici che secondo Amara aderirebbero alla loggia).
Amara parlò di una rete intricatissima in tutta Italia. Tirò in ballo persone che non potevano più difendersi come l’ex procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra, morto nel 2017. Spiegò anche che l’elenco completo degli aderenti alla loggia segreta esiste, ed è da qualche parte all’estero. Ce n’era abbastanza perché il pm Storari decidesse che bisognava fare chiarezza, se non altro per verificare una volta per tutte l’attendibilità delle testimonianze di Armanna, che dal video sembrava interessato a una specie di vendetta personale verso i suoi superiori. È per questo che Storari trasmise al suo capo, Francesco Greco, e all’aggiunta Laura Pedio, l’interrogatorio di Amara.
Anche quello di Greco è un nome storico nella Procura di Milano. Era parte del pool di Mani Pulite, il cosiddetto “magistrato economico”, quello più esperto di reati finanziari, che sapeva “seguire il denaro”. Fu lui a indagare, nell’ambito di Tangentopoli, su quella che venne definita la “madre di tutte le tangenti”, la tangente Enimont.
Secondo Storari fu a quel punto, una volta che il fascicolo arrivò nella mani di Greco, che iniziò il periodo di inerzia, di immobilismo. In sostanza ciò che era scritto nell’interrogatorio di Amara si fermò in qualche cassetto. Il sospetto, mai espresso esplicitamente da Storari ma che oggi, secondo le ricostruzioni dei maggiori quotidiani, circola negli uffici del Palazzo di Giustizia di Milano, era che non si volesse dar molto seguito a quell’interrogatorio per timore che le sue rivelazioni stravolgessero il processo Eni-Nigeria mettendo in difficoltà l’accusa.
A un certo punto Storari decise di consegnare una copia del fascicolo, non firmato e su un documento digitale, a uno che ormai con il Tribunale di Milano non c’entrava più niente: Piercamillo Davigo, anche lui ex uomo di punta dell’inchiesta Mani Pulite e nel periodo in cui venne a conoscenza del caso Amara ancora membro del Consiglio superiore della magistratura. La situazione era però destinata a peggiorare: tre buste, contenenti copie del fascicolo Amara, partirono dall’ufficio di Davigo all’indirizzo del giudice Nino Di Matteo e di due giornalisti del Fatto Quotidiano e di Repubblica.
Secondo la Procura di Roma, che indaga sulla fuga di notizie, a far partire i documenti fu Marcella Contrafatto, funzionaria storica del CSM, fino a qualche giorno prima nella segreteria del consigliere Davigo. Prima al Fatto, poi qualche settimana dopo a Di Matteo, e all’inizio del 2021 anche a Repubblica.
È a questo punto che il caso diventò pubblico. Davigo e Storari furono indagati dalla Procura di Brescia (competente per i magistrati di Milano colpevoli o vittime di reati) per rivelazioni del segreto d’ufficio sui verbali di Piero Amara. L’11 maggio Davigo disse alla trasmissione DiMartedì: «Ho segnalato una situazione critica e dato il materiale necessario per farmi un’opinione, dopo essermi accertato che fosse lecito. Io spiegai che il segreto investigativo, per espressa circolare del CSM, non è opponibile al CSM».
A Brescia è indagato anche Greco, per aver ritardato l’indagine sulla cosiddetta Loggia Ungheria, così come De Pasquale e Spadaro per rifiuto d’atti d’ufficio. Il motivo sta nell’omesso deposito al tribunale del video registrato clandestinamente da Amara in cui Armanna preannunciava la propria intenzione di colpire i vertici dell’Eni.
Sulla vicenda sta indagando anche la Procura di Perugia, competente per i magistrati romani vittime o colpevoli di reati. E la sede della presunta loggia Ungheria è Roma, quindi il caso riguarda quella Procura.
Insomma, il caso Amara si è ramificato in tutta Italia, ma è a Milano che ha avuto gli effetti più rilevanti. Greco, nel frattempo, si è rivolto a Giovanni Salvi, Procuratore generale della Corte di Cassazione, titolare dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati togati. Salvi ha chiesto al CSM l’allontanamento immediato di Storari dalla Procura di Milano. Gli contesta «l’informale e irrituale» consegna a Davigo di copie non firmate di verbali su una presunta associazione segreta di cui avrebbero fatto parte anche due consiglieri CSM. Essendo stata fatta «a un singolo consigliere del CSM e a insaputa del procuratore di Milano», avrebbe violato le procedure formali.
Il CSM ha però respinto la richiesta, difendendo praticamente Storari dalle accuse del procuratore generale di Cassazione e mettendosi di fatto contro Greco.
Negli stessi giorni era arrivato alla discussione dell’assemblea plenaria del CSM un documento firmato dalla settima commissione, quella competente sull’organizzazione degli uffici giudiziari, che, raccogliendo alcuni appunti arrivati sia da sostituti procuratori sia dalla Procura generale, sollevava non poche questioni sull’organizzazione data da Greco alla Procura:
«Nell’atto del procuratore non si rinviene un’analisi dettagliata ed esplicita della realtà criminale nel territorio di competenza, non risulta un’indicazione ed un’analisi attuale e dettagliata dei dati relativi alle pendenze e ai flussi di lavoro, non sono stati individuati gli obiettivi organizzativi, di produttività e di repressione criminale che l’ufficio intende perseguire, dando conto degli obiettivi che sono o non sono stati conseguiti nel precedente periodo».
Tra gli aspetti contestati dal CSM c’è anche il criterio di assegnazione dei fascicoli, fondamentale nell’organizzazione di una Procura. L’assegnazione dovrebbe essere determinata da una sorta di automatismo ma, secondo i documenti raccolti dalla settima commissione, a Milano non è così. È scritto nella relazione: «I criteri di assegnazione nelle materie specializzate non sono contenuti nel progetto organizzativo e sono rimessi a provvedimenti organizzativi adottati da singoli Procuratori Aggiunti», non essendo «tendenzialmente improntati all’automatismo».
Nel frattempo 56 pubblici ministeri su 64 della Procura di Milano hanno scritto una lettera aperta in cui si dice: «Esclusa ogni valutazione di merito, la nostra serenità non è turbata dalla permanenza del collega nell’esercizio delle sue funzioni presso la Procura», smentendo così il procuratore generale Salvi che aveva scritto al CSM che la permanenza di Storari in Procura avrebbe turbato i colleghi. E contestando in questo modo la versione di Greco. «Sentiamo solo il bisogno impellente di chiarezza, di decisioni rapide che poggino sull’accertamento completo dei fatti e prendano posizione netta e celere su ipotetiche responsabilità».
Il 29 luglio Greco ha scritto una lettera ai suoi pubblici ministeri in cui ha accusato Storari di aver violato «i più elementari diritti di lealtà». Ha detto che contro di lui sono state dette «menzogne, calunnie e diffamazioni». Ha assicurato che «al rispetto della presunzione di innocenza e delle strategie di difesa ho ispirato tutta la mia vita professionale e non vi verrò meno in questa circostanza». Greco conclude poi: «Sono orgoglioso di aver fatto parte della grande storia della Procura di Milano che abbiamo costruito tutti insieme, i magistrati che negli anni si sono succeduti in questo ufficio e voi che continuerete a contribuire alla riaffermazione della legalità guardando sempre alle sfide del futuro. Buon lavoro a tutti noi».
In questa atmosfera di scontro ci si avvicina alla nomina del successore di Greco. I candidati sono nove, solo uno interno alla Procura, Maurizio Romanelli, mentre i favoriti sembrano essere Giuseppe Amato, procuratore di Bologna, e Marcello Viola, di Firenze, dopo che Nicola Gratteri, celebre magistrato anti ‘ndrangheta, ha rinunciato alla corsa.
Secondo Cimini, «questa volta non ci sarà una soluzione interna, come a Milano è sempre avvenuto. È la fine di una consuetudine, di un metodo, di una successione quasi automatica che in passato veniva data quasi per scontata». Dopo Francesco Saverio Borrelli, il più famoso di tutti, quello dello slogan «Resistere resistere resistere», venne il procuratore Edmondo Bruti Liberati (anche lui al centro di una dura polemica con il pm Alfredo Robledo per le indagini su Expo) e poi il suo delfino, Francesco Greco, il cui incarico scadrà a novembre ma che forse potrebbe essere indotto a lasciare prima se polemiche e contestazioni, come sembra, non cesseranno.
È lo stesso metodo organizzativo della Procura di Milano, in passato spesso indicato come esempio da seguire, a essere messo apertamente in discussione in un momento in cui, oltre ad apparire come la fine di un ciclo, rimangono aperte molte domande a partire da quelle sull’esistenza o meno della presunta loggia segreta Ungheria.
«Tutto finisce e i nodi vengono al pettine» ha detto Cimini al Post. «Per anni, dopo Tangentopoli, la magistratura ha accumulato potere sottraendolo al potere politico. Ha indirizzato leggi, fatto scelte che dovevano appartenere alla politica. E ha finito con il tirare troppo la corda. Sta succedendo alla magistratura quello che accadde alla politica nel 1992. La corda si sta spezzando. Quando la politica entrò in crisi, nel 1992, la magistratura le saltò al collo. Ora non sta avvenendo la stessa cosa a parti inverse: la politica resta a guardare».