L’ossessione cinese per gli ori olimpici
Da ormai diverse edizioni dei Giochi la Cina punta a essere prima nel medagliere, attraverso un sistema meticoloso e controverso
Nella prima metà del Novecento la Cina, non ancora comunista, partecipò senza grandi risultati a un paio di Olimpiadi estive. E anche negli anni tra il 1949 e il 1976 (l’anno in cui fu fondata la Repubblica popolare cinese e quello in cui morì Mao Zedong) la Cina partecipò a una sola Olimpiade e con un solo atleta, il nuotatore Wu Chuanyu. Successe perché, tra le altre cose, la Cina non accettava il fatto che alle Olimpiadi ci fosse Taiwan, cioè quello che restava della vecchia Cina non comunista.
Il paese tornò alle Olimpiadi invernali dal 1980 e a quelle estive del 1984 a Los Angeles, dove vinse le prime medaglie della sua storia. Da allora, per motivi che vanno ben oltre lo sport, ci ha preso gusto e da qualche edizione l’obiettivo del paese è uno e semplice: vincere più medaglie d’oro di ogni altra nazione così da arrivare prima nel medagliere. Per ora ci è riuscita una sola volta, alle Olimpiadi che nel 2008 organizzò in casa, a Pechino. Nel 2012 a Londra e nel 2016 a Rio non si ripeté, e fu una grande delusione. Ma ora, a Tokyo, la Cina è prima con oltre trenta medaglie d’oro.
«La catena di montaggio cinese dello sport ha un solo scopo», ha scritto il New York Times: «sfornare medaglie d’oro per la gloria del paese». E siccome nei medaglieri olimpici la classifica è determinata dal numero di ori vinti, e solo in caso di parità si vanno a contare le altre, «gli argenti e i bronzi quasi non contano».
Nel 1984 a Los Angeles – alle Olimpiadi a cui non presero parte l’Unione Sovietica e altri paesi del blocco comunista – la Cina scelse di partecipare e con 32 medaglie di cui 15 d’oro arrivò quarta nel medagliere: dietro a Stati Uniti, Romania e Germania Ovest e appena davanti all’Italia. La delegazione cinese andò a Los Angeles perché il paese era già molto autonomo dai sovietici e perché era in una fase in cui voleva provare a uscire dal cosiddetto “isolazionismo maoista”. Prima di partecipare, tra l’altro, era riuscita a far cambiare nome a Taiwan, che da allora alle Olimpiadi è chiamato Taipei Cinese.
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Quattro anni più tardi, a Seul, la Cina si fermò a cinque medaglie e nel medagliere vinto dall’Unione Sovietica arrivò undicesima subito dietro all’Italia. Poi iniziò a migliorare: nel 1992 a Barcellona e nel 1996 ad Atlanta finì le Olimpiadi al quarto posto, in entrambe le occasioni con 16 medaglie d’oro. Nel 2000 a Sydney arrivò terza con 28 ori e nel 2004 ad Atene arrivò seconda con 32, solo quattro in meno rispetto agli Stati Uniti.
Nel 2008 a Pechino successe alla Cina quello che in genere succede a ogni paese ospitante, e che quest’anno sta succedendo al Giappone: aumentò gli ori vinti. In parte per l’effetto positivo derivante dal giocare in casa, in parte per conseguenza di una pianificazione che aveva portato molti atleti a raggiungere proprio in quel periodo il loro apice, e un po’ perché – come capita spesso – negli sport con giudici successe in più di un’occasione che voti e verdetti furono tendenzialmente a favore degli atleti cinesi.
Per la prima volta nella sua storia, quindi, a Pechino la Cina vinse il medagliere. Con 100 medaglie, 48 delle quali d’oro: 12 in più rispetto agli Stati Uniti. Come ha fatto notare il New York Times, fu per certi versi la realizzazione sportiva di quanto Mao aveva scritto decenni prima in uno dei suoi primi saggi, con riferimento al fatto che la Cina fosse «il malato d’Asia» che in futuro avrebbe dovuto mostrare i suoi muscoli.
Nel 2012 a Londra gli ori furono 38 e la Cina arrivò seconda, nel 2016 a Rio furono 26 e si classificò terza: un risultato deludente, visti i precedenti e viste le aspettative.
L’ossessione cinese per la vittoria del medagliere non è però mai passata, e se ne riparla ora che a Tokyo la Cina è di nuovo prima, con un buon margine sugli Stati Uniti. «Dobbiamo fermamente assicurarci di vincere più ori di tutti», aveva detto poco prima di queste Olimpiadi Gou Zhongwen, capo del comitato olimpico cinese.
Il fatto che in quarant’anni la Cina sia passata dal non partecipare alle Olimpiadi al parteciparci con il dichiarato obiettivo di arrivare davanti a tutti è un chiaro segno della sua sempre maggiore attenzione all’utilità interna e internazionale dello sport. Un indirizzo che secondo il New York Times viene seguito con un sistema «radicato nel modello sovietico».
Cioè un sistema statale che – sfruttando l’enorme bacino di persone a disposizione – punta a trovare, selezionare e formare a tempo pieno decine di migliaia di bambini e bambine da far allenare in oltre duemila accademie sportive gestite dal governo, spesso con approcci discutibili. Tra le altre cose, per il modo in cui bambini e ragazzi sono selezionati e incanalati, spesso a prescindere dalla loro volontà, verso un certo sport. E per il fatto che le accademie sportive – in cui i giovani atleti sono spesso sottoposti a duri regimi di allenamento che rasentano la coercizione, con poche possibilità di vedere le loro famiglie – puntano tutto sullo sport e tralasciano l’educazione non sportiva.
Visto che l’obiettivo della Cina sta nel numero complessivo di ori, c’è poi un’attenta analisi di quali possano essere gli sport in cui sia possibile ottenere i migliori risultati. In generale, sport non troppo praticati in Occidente e che al contempo possano portare tante medaglie grazie alla presenza, alle Olimpiadi, di tanti eventi diversi: magari perché praticati su distanze diverse o per classi di peso differenti.
«Non è un caso», ha scritto il New York Times «che quasi il 75 per cento degli ori olimpici vinti dalla Cina sia arrivato in soli sei sport: il tennistavolo [in cui la Cina è notoriamente forte da tempo], il tiro a segno, i tuffi, il badminton, la ginnastica e il sollevamento pesi». Inoltre, più di due terzi degli ori cinesi sono arrivati in competizioni femminili, e a queste Olimpiadi circa il 70 per cento della delegazione cinese è composta da atlete. Questo perché in molti casi gli sport femminili sono olimpici da meno tempo, e spesso altri paesi dedicano più fondi allo sport maschile che a quello femminile.
A questo proposito, il New York Times fa l’esempio del sollevamento pesi femminile, che è sport olimpico solo dal 2000, e che quindi fu fin da subito «un obiettivo ideale della strategia cinese per le medaglie d’oro», una strategia in cui «ci si impegna per il paese, non per se stessi».
Allo stesso modo non sembra essere un caso il fatto che, fatta eccezione per la pallavolo femminile, la Cina non abbia mai vinto un oro olimpico in uno dei grandi sport di squadra. Cioè degli sport in cui è in genere più difficile essere i più forti di tutti, nei quali sono ancora più importanti tradizioni, esperienze e competenze accumulate nel corso dei decenni, e nei quali è ancora meno automatico che a vincere siano i più forti sulla carta, perché più che l’esecuzione di un solo gesto o esercizio «implicano una imprevedibile interazione tra tanti atleti diversi».
Per gli atleti cinesi che hanno successo negli sport più popolari ci sono alcune possibilità, durante e dopo la loro carriera sportiva, di avere sponsorizzazioni e altre forme di guadagno. Dopo aver vinto l’oro in sport poco seguiti e popolari molti atleti si trovano invece ad avere difficoltà economiche e, vista la loro formazione quasi solo sportiva, poche possibilità di fare altro: «i pubblicitari in genere non sono interessati alle atlete del sollevamento pesi», ha scritto il New York Times. Che cita anche il caso di un’ex atleta alla quale, dopo il ritiro, «è cresciuta la barba, secondo quanto dice lei per le conseguenze di un regime di doping a cui era stata costretta da giovane».
In una situazione simile, per di più senza nemmeno una medaglia olimpica, si trovano poi «decine di migliaia di altri bambini che non ce la fanno» e che rischiano di essere «atleti scartati per i quali la vita è spesso difficile: con scarsa educazione, corpi deteriorati e poche prospettive professionali fuori dal contesto sportivo».
Una delle conseguenze dell’esasperazione cinese verso gli ori olimpici è che in molti casi medaglie d’argento e di bronzo sono vissute dagli atleti come una delusione, anche perché a volte – specie nel caso di sport più seguiti, magari con accese rivalità con paesi come il Giappone o, peggio ancora, Taiwan – gli atleti che arrivano sul podio ma non vincono l’oro sono criticati e insultati, e il loro risultato definito «non patriottico».
Al contempo, però, come ha fatto notare di recente BBC, c’è anche una rilevante parte di popolazione cinese contraria all’esasperazione verso l’oro. E dopo alcune forti critiche ad atleti cinesi non vincenti anche certi media di stato hanno invitato il pubblico a essere più «razionale» nei suoi giudizi e atteggiamenti.
Tra l’altro, nel 2022 la Cina ospiterà le Olimpiadi invernali, con Pechino che diventerà la prima città della storia a ospitare entrambe le Olimpiadi. Tra i tanti problemi relativi al fare delle Olimpiadi invernali a Pechino, per la Cina ci sarà anche quello relativo a dover fare i conti con sport in cui – almeno fin qui – ha raramente primeggiato. Nel 2018, alle Olimpiadi invernali di Pyeongchang, vinse nove medaglie e solo una d’oro.