«Il più grande pallavolista al mondo»
Dopo aver giocato e vinto con la nazionale cubana, Wilfredo León si è trasferito e ha reso la nazionale polacca una tra le più forti alle Olimpiadi di Tokyo
Nel torneo di pallavolo maschile alle Olimpiadi in corso a Tokyo, giunto ai quarti di finale, la Polonia – che non vince una medaglia da 45 anni – era considerata una delle nazionali favorite insieme al Brasile e alla Russia. Lo era principalmente per la presenza in squadra dal 2019 del forte schiacciatore ventottenne Wilfredo León, che gioca in Italia per la Sir Safety Umbria Volley, era alla sua prima Olimpiade con la nazionale polacca ed è stato definito il «Cristiano Ronaldo della pallavolo».
Oltre che per il suo talento e le sue abilità tecniche, León ha ricevuto molte attenzioni per la sua particolare carriera professionale e per le scelte che si è trovato a compiere: lui che è nato a Santiago di Cuba, nel 1993, e in passato ha giocato e vinto trofei e medaglie anche con la nazionale cubana.
León lasciò Cuba quando aveva diciannove anni, per emigrare in Polonia, dove ha ottenuto la cittadinanza nel 2015 ed è diventato uno dei personaggi sportivi più conosciuti e celebrati del paese. Alle Olimpiadi a Tokyo la Polonia ha vinto quattro partite su cinque nella fase a gironi, e martedì ha perso un po’ a sorpresa 3 a 2 contro la Francia: a ogni modo, finora León è stato uno dei migliori marcatori del torneo.
Alto 2,03 metri, ha tra i suoi principali punti di forza la potenza del servizio e l’abilità nel salto, caratteristica che gli permette di imprimere alle schiacciate traiettorie difficili da prevedere per i ricevitori avversari. Il suo gioco è fondamentale per la squadra anche perché permette ai suoi compagni di sfruttare le vulnerabilità difensive degli avversari, che spesso sono troppo impegnati e concentrati su León per badare anche agli altri.
León gioca a pallavolo da quando aveva 7 anni e ha esordito nei tornei internazionali più importanti al mondo da giovanissimo, condizione che gli ha permesso anche di crescere precocemente sotto l’aspetto psicologico. La sua forza è nota da tempo, già da quando con la nazionale cubana vinse la medaglia d’argento ai Mondiali del 2010 in Italia, insieme ad altri pallavolisti come Yoandy Leal – che oggi gioca per il Brasile – e Robertlandy Simon, tutti appartenenti alla cosiddetta “generazione del miracolo” della pallavolo cubana.
Di quella nazionale, con cui aveva esordito all’età di 14 anni, León era diventato capitano a 17 anni. Se ne andò dopo aver ricevuto offerte per giocare all’estero e aver accettato di giocare per lo Zenit Kazan in Russia.
«Non fu tanto una questione di preferenze personali… diciamo che non era molto facile continuare con la nazionale [cubana]», raccontò l’anno scorso León in un’intervista, parlando della grande quantità di sacrifici affrontati dagli atleti cubani all’epoca in cui lasciò il suo paese di nascita. «C’è stato un tempo in cui ogni volta che avevo bisogno di un po’ d’acqua per lavarmi dovevo portare un secchio dal quarto piano a uno stagno, e poi riportarlo indietro. Non una cosa facile, dopo un intenso allenamento di tre ore», disse.
León aggiunse che, quando a volte lavoravano anche otto ore in un giorno, capitava che lui e gli altri suoi compagni di nazionale non ricevessero pasti a sufficienza per assumere una quantità adeguata di calorie. Disse anche che quando aveva 16 anni subì un infortunio che avrebbe richiesto cure specifiche, ma che a Cuba non ricevette quelle cure perché tutti gli dicevano che doveva invece continuare a giocare. «Era un insieme di ragioni, incluso il fatto che mia moglie – all’epoca la mia fidanzata – è polacca, e non potevo vederla fuori da Cuba. Non potevo continuare in quelle condizioni. Inoltre, avevo bisogno di giocare all’estero per migliorare il mio livello, quindi se volevo alzare l’asticella dovevo prendere quella decisione», spiegò León definendo le ragioni che lo portarono a lasciare Cuba.
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León trovò la Polonia una «destinazione naturale» perché sono polacchi sia il suo manager, Andrzej Grzyb, che sua moglie, la giornalista Malgorzata León, con la quale è sposato dal 2016 e ha due figli. Ma soprattutto scelse la Polonia perché, disse, fu uno dei pochi paesi che ebbe l’opportunità di visitare in due o tre occasioni quando giocava per la nazionale cubana. «Mi piacciono i tifosi polacchi, sono calorosi e appassionati, e qui la pallavolo è uno sport popolare quanto il calcio. Vidi che avevano una buona squadra e che il paese amava i suoi giocatori. Ho la cittadinanza polacca, ho un passaporto polacco. Sono e mi sento polacco», disse.
Rispondendo ad alcune domande riguardo a cosa rappresentino per lui i paesi in cui ha trascorso parti importanti della sua carriera, León disse:
«Cuba è il luogo in cui sono cresciuto, ho molti amici lì, la mia famiglia. È lì che mi sono sviluppato come uomo e come giocatore, e avrà sempre un posto nel mio cuore. L’Italia – il paese con il campionato attualmente migliore al mondo – è il luogo in cui lavoro e in cui cerco di dare il massimo per rendere felici i miei tifosi. La Polonia è il mio presente e il mio futuro. Tutto quello che faccio in questo momento è per questo paese».
Giocare per la nazionale di un paese diverso da quello di nascita è un fenomeno piuttosto diffuso in diversi sport, anche olimpici. Quasi la metà degli atleti che rappresentarono l’Azerbaigian alle Olimpiadi di Londra del 2012 erano cittadini naturalizzati. È però piuttosto raro che a cambiare nazionale sia uno dei migliori giocatori al mondo in un determinato sport, e in questo caso – come lo ha definito il New York Times – «il miglior pallavolista al mondo», e anche «una delle più grandi esportazioni sportive cubane, un altro atleta di punta perso dalla sua nazione a causa delle ricchezze dello sport moderno».
«A Cuba, quando cresci, ti dicono che tutti i grandi campioni del passato hanno sofferto per queste condizioni, che la sofferenza ti aiuterà a diventare il migliore. Non è vero. Per dare il massimo servono buone strutture, un bel posto in cui riposare, cibo buono, medici. È soltanto così che puoi avere una lunga carriera sportiva», ha detto León al New York Times.
Oltre a lui e Yoandy Leal, altri pallavolisti cubani di nascita avrebbero potuto formare una nazionale fortissima, incluso lo schiacciatore della nazionale italiana Osmany Juantorena. León ha detto che quando iniziò a giocare con la nazionale giovanile cubana c’erano dieci giocatori della sua età bravi quasi quanto lui, e che otto di loro si ritirarono due anni dopo.
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Per lui, il punto di rottura con la nazionale cubana arrivò al termine della World League a Sofia, nel 2012, conclusa da Cuba al terzo posto, nonostante León giocasse con una caviglia slogata.
Di ritorno al suo paese, i giocatori furono costretti a un addestramento militare di 45 giorni, nella foresta e con poco cibo. Nel 2013, León comunicò ai funzionari cubani la sua decisione di non giocare più per la nazionale e chiese il permesso di trasferirsi all’estero, ottenendo il passaporto soltanto un anno dopo. Non giocava a pallavolo da 18 mesi, al momento in cui cominciò la sua esperienza in Russia con lo Zenit Kazan.
In base ai più recenti regolamenti previsti dalla FIVB (Fédération Internationale de Volleyball, la federazione internazionale che governa la pallavolo), per la determinazione della nazionalità dei giocatori viene considerata «federazione d’origine» quella in cui un giocatore viene tesserato nella stagione in cui compie 14 anni. La federazione d’origine può essere cambiata dal giocatore una sola volta, nel corso della carriera, purché vengano rispettati alcuni requisiti, tra cui quello di avere stabilito la residenza nel paese della nuova federazione per almeno due anni consecutivi prima di avanzare al comitato esecutivo della FIVB la richiesta di cambio della federazione. Ogni nazionale può inoltre schierare, in un determinato evento sportivo, soltanto un giocatore che abbia precedentemente giocato con altre nazionali.
L’argentino Julio Velasco, uno dei più vincenti e apprezzati allenatori di pallavolo al mondo, ha recentemente criticato le regole riguardo alle naturalizzazioni e la possibilità che un atleta possa rappresentare una nazionale dopo averne già rappresentata un’altra nella sua carriera sportiva. «Credo che tutto questo sia profondamente sbagliato. Credo che sia moralmente ingiusto che accada una cosa simile. Credo che bisognerebbe mettere un freno, come ha fatto il mondo del calcio», ha detto Velasco, citando il caso della nazionale di pallamano del Qatar, che «ha vinto trofei con una pioggia di giocatori “importati”».
«Non ho mai visto un caso di cambio di nazionalità da un paese ricco a uno povero. Accade sempre il contrario. E su questo credo che bisognerebbe fare profonde riflessioni», ha detto Velasco.