Come sta andando il “processo sui mandanti” della strage di Bologna
È iniziato da più di tre mesi con un nuovo imputato, Paolo Bellini, ex membro del gruppo neofascista Avanguardia Nazionale
Della strage di Bologna del 2 agosto 1980, di chi la decise, diede gli ordini, di cosa accadde nei giorni precedenti e nei mesi successivi, non sappiamo ancora tutto, dopo quarantun anni di indagini, depistaggi, processi, rivelazioni. Nell’ultimo anno sono emersi nuovi elementi, e personaggi che erano scomparsi dall’indagine sono tornati a essere al centro dell’inchiesta. Il 16 aprile è iniziato un nuovo processo sulla strage: a essere imputato è Paolo Bellini, ex membro di Avanguardia Nazionale, accusato di essere esecutore della strage in concorso con altri.
Soprattutto durante il dibattimento stanno emergendo intrecci, contatti, reti che spingono ancora una volta l’attenzione sui mandanti, tanto che il nuovo processo cominciato ad aprile è ormai noto come il “processo sui mandanti” della strage del 2 agosto, quando alle 10.25 nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione di Bologna esplose una valigia con all’interno 5 kg di T4 e tritolo e 18 kg di gelatinato (nitroglicerina). Morirono 85 persone.
Sulla strage di Bologna il dibattito va avanti da ormai 40 anni, ma benché diverse persone legate soprattutto agli ambienti di destra continuino a fare dichiarazioni e interviste su piste alternative – in particolar modo quella che vorrebbe la bomba piazzata da terroristi palestinesi, negando invece la colpevolezza della destra eversiva – resta comunque la realtà processuale di tre condannati in via definitiva, di un condannato in primo grado e di un indagato attualmente sotto processo.
I primi quattro, Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Gilberto Cavallini e Luigi Ciavardini, erano appartenenti ai Nar, i Nuclei armati rivoluzionari, organizzazione terroristica fascista che è stata riconosciuta colpevole, nei suoi anni di attività, tra il 1977 e il 1981, di 33 omicidi oltre che della strage di Bologna.
Fioravanti e Mambro sono stati condannati all’ergastolo; Luigi Ciavardini, in un secondo processo, è stato condannato per strage a 30 anni di reclusione; Gilberto Cavallini, terrorista fascista già condannato a otto ergastoli, è stato ritenuto colpevole in primo grado di concorso in strage e condannato all’ergastolo. Tutti si sono sempre dichiarati innocenti.
Durante il processo a Cavallini, che si è concluso nel gennaio del 2020, furono presentati dalla pubblica accusa numeri di telefono annotati da Cavallini e che appartenevano, negli anni Ottanta, al Sisde, Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica: i servizi segreti italiani.
Ma è soprattutto ciò che è emerso nell’ultimo anno a far dire al presidente dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, che «gli elementi che stanno emergendo nel nuovo processo possono davvero rappresentare un passo decisivo. Abbiamo nuove speranze di arrivare a fare completa luce sulle responsabilità, su chi volle la strage».
Nel processo appena iniziato, Bellini è stato accusato di essere uno degli esecutori della strage di Bologna, che secondo l’accusa sarebbe stata organizzata e portata a compimento in concorso con i terroristi già condannati e con Licio Gelli, fondatore e capo della loggia massonica segreta P2, Umberto Ortolani, faccendiere, anche lui della loggia segreta P2, Federico Umberto D’Amato, direttore dell’Ufficio affari riservato del ministero dell’Interno, e Mario Tedeschi, politico eletto con l’allora Movimento Sociale Italiano (MSI) e storico direttore del giornale di destra Il Borghese. Gelli, Ortolani, Tedeschi e Federico Umberto D’Amato sono morti.
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Con Bellini sono sotto processo anche l’ex carabiniere Piergiorgio Segatel, per depistaggio, e Domenico Catracchia, amministratore di condominio di immobili in via Gradoli a Roma, per false informazioni al pm al fine di sviare le indagini. Via Gradoli è tra l’altro famosa per essere il luogo dove si trovava uno dei covi delle Brigate Rosse durante il sequestro di Aldo Moro. Secondo quanto emerso durante i processi, gli appartamenti utilizzati come covi erano di società immobiliari che sarebbero in qualche modo riconducibili ai servizi segreti.
Il processo iniziato il 16 aprile sarà probabilmente molto lungo. Il Tribunale di Bologna deve ascoltare 218 persone e vanno analizzate decine di migliaia di pagine di documenti. Ma c’è già stata una prima importante novità.
Paolo Bellini era già stato indagato per la strage nei primi anni Ottanta. La polizia aveva infatti diffuso un identikit di un uomo «visto allontanarsi precipitosamente dalla stazione prima dell’esplosione». La stessa polizia indicava che l’identikit assomigliava molto al «noto estremista di destra Paolo Bellini». L’alibi di Bellini era però forte: la moglie Maurizia Bonini testimoniò che suo marito non poteva essere a Bologna alle 10.25 del 2 agosto perché alle 9.30 era ancora a Rimini, in partenza per il Tonale con la famiglia.
Quella testimonianza aveva fatto escludere Bellini dalle indagini e nessuno lo aveva più collegato alla strage, almeno finché gli avvocati dell’Associazione familiari vittime della strage non erano riusciti a recuperare un video, presentato nel processo a Gilberto Cavallini, che mostrava gli effetti devastanti della bomba, con i morti, i feriti, le macerie. Di questo video la polizia aveva repertato 25 fotogrammi, ne mancavano però sette. Cercando tra i faldoni dell’inchiesta i sette fotogrammi mancanti sono saltati fuori: da dietro una colonna, poco dopo lo scoppio della bomba, spunta un uomo con i baffi, identificato ora in Paolo Bellini.
Nel 2019 Maurizia Bonini era stata riconvocata in Procura dopo 36 anni e aveva ammesso di avere mentito: «Pensavo volessero incastrare mio marito, solo dopo ho scoperto che aveva una vita parallela da criminale. La verità è che Paolo la mattina del 2 agosto arrivò a Rimini molto tardi. L’uomo nel video è lui, sicuramente. Lo riconosco dalla fossetta sulla guancia».
Quella di Paolo Bellini è una figura già nota in quegli anni. Lo descrive al Post Giovanni Vignali, giornalista, autore del libro L’uomo nero e le stragi.
«Bellini negli anni Settanta era un giovane di destra, legato agli ambienti di Avanguardia Nazionale, figlio di un fascista piuttosto noto in città, a Reggio Emilia. Si fece conoscere però per furti, soprattutto di opere d’arte, da delinquente comune. Nel 1976 scappò dall’Italia dopo aver tentato di uccidere l’ex fidanzato della sorella. Andò prima in Brasile e poi in Paraguay, aiutato dagli uomini di Stefano Delle Chiaie, fondatore di Avanguardia Nazionale».
Quando tornò in Italia, dopo un paio d’anni, lo fece con una identità falsa, brasiliana, quella di Roberto Da Silva. Andò a vivere a Foligno, non a Reggio Emilia, sempre aiutato dagli uomini di Delle Chiaie. Continua Vignali:
«Qui ottenne porto d’armi e brevetto di volo, cosa piuttosto strana per un ragazzo che arrivava dal Brasile e che non aveva nessun motivo per dovere o potere girare armato. In aereo, preso il brevetto, volava con un amico di suo padre, Ugo Sisti, procuratore di Bologna. Il procuratore di Bologna si accompagnava a un latitante. E accadde anche che dopo la strage di Bologna il Procuratore Sisti invece di restare a Bologna decise di andare a rilassarsi in montagna. E andò nell’albergo La Mucciatella, di proprietà della famiglia Bellini, sopra Reggio Emilia. Lì lo trovarono i poliziotti che erano arrivati per una perquisizione».
A Sisti, ora morto, anni dopo verrà contestato il reato di favoreggiamento ma lui dichiarerà di non aver mai saputo la vera identità del ragazzo che conosceva come Roberto Da Silva.
Dopo la strage di Bologna la carriera criminale di Paolo Bellini era proseguita. Nel 1993 Bellini si pentì e confessò ai carabinieri di aver commesso 13 omicidi in Emilia-Romagna, in gran parte per conto della ‘ndrangheta. Non solo: confessò anche di aver ucciso nel 1975 Alceste Campanile, militante di Lotta Continua assassinato a Reggio Emilia.
Il rapporto di Bellini con i carabinieri era però precedente alla decisione di diventare collaboratore di giustizia. Nel 1992 era stato inviato in Sicilia dal maresciallo Roberto Tempesta, che dichiarò poi di aver informato il generale Mario Mori, con il compito di infiltrarsi nella mafia per recuperare opere d’arte rubate nella Galleria Estense di Modena. Lì Bellini strinse amicizia con i mafiosi Antonino Gioè e Giovanni Brusca, l’uomo che azionò il telecomando dell’attentato al magistrato Giovanni Falcone. Secondo Brusca fu proprio Bellini nel 1993 a suggerire ai Corleonesi di compiere attentati contro il patrimonio artistico, come quelli che effettivamente avvennero a Firenze, Milano e Roma. Brusca disse ai magistrati: «Bellini disse a Gioè che se ammazzi un magistrato ne arriva un altro. Se butti giù la Torre di Pisa distruggi l’economia di una città e lo Stato deve intervenire».
Nonostante questo, l’avvocato di Paolo Bellini durante il processo ha detto che da allora le cose sono cambiate: «È vero, ha fatto cose orribili, ma non delinque dal 1999. È un collaboratore di giustizia considerato attendibile. Non trattiamolo come il Bellini di 22 anni fa».
Il processo a Bellini sta fornendo nuove indicazioni anche sui mandanti della strage del 2 agosto.
In particolare, è stato chiamato in causa come mandante e finanziatore Licio Gelli, che in precedenza era già stato condannato a dieci anni di carcere per calunnia aggravata dalla finalità di terrorismo per aver tentato di depistare le indagini sulla strage alla stazione. Nel processo in corso sono state presentate carte sequestrate tra la villa di Gelli a Castiglion Fibocchi e la Svizzera, dove il Gran Maestro Venerabile (questa la sua carica nella loggia massonica) scappò dopo che la loggia segreta P2 fu scoperta.
Nelle carte viene annotato un versamento di un milione di dollari «come anticipo», versato alla vigilia della strage su conti esteri mai dichiarati al capo dell’Ufficio affari riservati Federico Umberto D’Amato. Altre note testimoniano bonifici a vari faccendieri legati alla destra eversiva. Tra i documenti c’è anche un verbale riservato in cui gli avvocati di Gelli, in visita al ministero dell’Interno, intimavano nel 1987 di andarci piano con le indagini sulla strage della stazione, altrimenti «lui avrebbe tirato fuori gli artigli».
La strage di Bologna e i successivi depistaggi sarebbero serviti, secondo i magistrati bolognesi, a quella “strategia della tensione” che faceva parte del Piano di Rinascita democratica ideato da Gelli con la sua P2 (di cui facevano parte giudici, militari, politici, uomini d’affari, industriali, uomini delle forze dell’ordine e dei servizi), che doveva servire a sostituire ogni apparato dello stato con uomini di fiducia.