Senza medici
Moltissimi andranno in pensione nei prossimi anni e le soluzioni per risolvere il problema, peggiorato con la pandemia, non sembrano essere efficaci
di Isaia Invernizzi
Dall’inizio di agosto, quando andrà in pensione l’ultimo medico di famiglia rimasto in paese, i mille abitanti di Monte Santa Maria Tiberina, un comune in provincia di Perugia, dovranno fare una ventina di chilometri per raggiungere un ambulatorio a Città di Castello. Lì potranno farsi visitare da altri medici che si divideranno i pazienti rimasti senza assistenza. Molti sono anziani, malati cronici che riescono a uscire da casa solo con grande difficoltà. I due medici che erano rimasti in paese avrebbero potuto lavorare per altri due anni, ma hanno deciso di lasciare la professione appena hanno raggiunto i requisiti per la pensione.
Monte Santa Maria Tiberina è uno delle centinaia di paesi che nei prossimi anni rimarranno senza un medico, una situazione che entro il 2030 rischia di coinvolgere 15 milioni di persone, secondo le stime della FIMMG, il principale sindacato dei medici di medicina generale.
Nelle ultime settimane la sindaca Letizia Michelini si è ritrovata a rispondere a decine di chiamate al giorno degli abitanti che non sanno a chi rivolgersi per una ricetta o chiedere i giorni di malattia. Michelini ha organizzato manifestazioni, incontri con l’azienda sanitaria, ha scritto all’associazione dei comuni italiani, ma non ha avuto molte risposte. È difficile trovare medici di famiglia disposti a trasferirsi nei piccoli comuni. «Servirebbero incentivi e più programmazione da parte delle Regioni», dice la sindaca. «Si tende a centralizzare e accentrare i servizi, eppure l’ultimo anno e mezzo di epidemia è la dimostrazione evidente di quanto sia importante la medicina territoriale, il contatto con le persone. Solo così si può fare prevenzione».
La situazione non è meno grave nelle grandi città, dove rischiano di rimanere scoperte decine di migliaia di persone che abitano in quartieri periferici. A Ronchetto sul Naviglio, un quartiere nella zona sudovest di Milano, il presidente del Municipio 6, Santo Minniti, a metà giugno ha organizzato un presidio per chiedere all’azienda sanitaria di inviare un nuovo medico. Negli ultimi anni è stato chiuso l’ambulatorio di un medico di famiglia e ha smesso di lavorare anche un pediatra: entrambi non sono mai stati sostituiti. Entro la fine dell’anno andrà in pensione un altro medico.
Come la sindaca Michelini a Monte Santa Maria Tiberina, anche Minniti ha chiesto incentivi, come la messa a disposizione di locali e negozi sfitti a titolo gratuito, per invogliare i medici a trasferirsi in periferia. In totale, l’azienda sanitaria di Milano ha previsto un massimo di 335 pensionamenti nel 2023, e 158 nuovi ingressi, con un saldo negativo di 177 medici.
Secondo l’ultimo annuario statistico del ministero della Salute relativo ai dati del 2019, in Italia i medici di famiglia sono 42.428 e i pediatri 7.408. La maggior parte – il 78 per cento – ha un’anzianità di laurea di oltre 27 anni: significa che molti di questi medici andranno in pensione in pochi anni, se non nei prossimi mesi.
Non è un problema nuovo. Ne parla da almeno un decennio la FIMMG, la federazione italiana dei medici di medicina generale, che ogni anno rivede le sue stime: secondo gli ultimi dati, entro il 2030 lasceranno sicuramente la professione 35.047 medici che raggiungeranno i 70 anni. Solo nel 2020 ne sono andati in pensione 3.266.
Le regioni più in difficoltà saranno la Lombardia, dove solo nel 2022 andranno in pensione 448 medici, la Campania con 425 medici, il Lazio con 334. In rapporto alla popolazione, non sono meno preoccupanti le possibili mancanze previste dalla FIMMG in altre regioni più piccole come le Marche, con 137 medici verso la pensione, 87 in Liguria, 116 in Abruzzo e 81 in Friuli Venezia Giulia.
L’epidemia ha reso queste stime molto incerte. Le previsioni dicono che il 2024 sarà l’anno in cui andranno in pensione più medici, ma già negli ultimi mesi molti professionisti hanno deciso di andare in pensione prima dei 70 anni peggiorando una situazione già complicata.
In molti piccoli paesi gli abitanti sono rimasti senza medico e non si può garantire nemmeno la continuità assistenziale, l’ex guardia medica. «Alla fine non rimarrà che chiedere all’esercito di darci una mano per sopperire alle carenze sul territorio», dice Filippo Anelli, presidente della FNOMCeO, la Federazione nazionale degli Ordini dei Medici chirurghi e Odontoiatri. «È stato un anno difficile: tra i medici ci sono stati casi di burn-out (la sindrome da stress lavorativo, ndr) ed è stato proibitivo svolgere il proprio lavoro durante l’epidemia. Ci sono oggi ampie aree senza medici di famiglia, non solo in zone impervie o rurali, ma anche nel centro delle città: il 118 è senza personale, i medici di continuità assistenziale sono sempre meno, l’assistenza turistica è ormai compromessa».
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Migliaia di medici di famiglia sono vicini alla pensione perché entrarono in servizio all’inizio degli anni Ottanta, quando divenne operativa la riforma approvata nel 1978 che istituì il Servizio Sanitario Nazionale su base regionale.
Con la riforma sanitaria venne introdotta una soglia di 1.500 assistiti per ogni medico di famiglia, che di fatto consentì di raddoppiare i medici sul territorio. Inoltre molti di loro riuscirono a riscattare la laurea quando il costo era ancora sostenibile. Dal 2018 i medici devono raggiungere i 68 anni di età per andare in pensione. È stata introdotta anche la possibilità di lavorare fino a 70 anni, con una maggiorazione sull’importo della pensione: come già detto dal presidente Anelli, in molti stanno rinunciando a questo incentivo.
Se i medici prossimi alla pensione sono sempre di più, dipende inevitabilmente anche dall’accesso limitato alla professione. Prima del 1995 chiunque riusciva a laurearsi in Medicina e Chirurgia poteva diventare medico di base. I laureati dopo il 1995 invece hanno dovuto iniziare a seguire corsi di formazione specifica in Medicina generale per poter fare i medici di famiglia.
Questi corsi sono organizzati dalle Regioni e durano tre anni con una parte di lezioni e un’altra, più consistente, di servizio nei reparti ospedalieri, in poliambulatori delle aziende sanitarie o nello studio di un medico di famiglia. Per frequentare il corso, i laureati abilitati alla professione ricevono una borsa di studio di 800 euro al mese e per poter accedere è necessario superare un esame che si tiene una volta l’anno. Il concorso, a numero chiuso, è bandito dal ministero della Salute e organizzato dalle Regioni.
Tra il 2014 e il 2017 la media annuale di borse finanziate per la medicina generale è stata di poco superiore a mille. Tra il 2020 e il 2023 si è saliti a una media di 1.332 borse a cui vanno aggiunti circa 150 “soprannumerari”, laureati che possono accedere ai corsi senza borsa purché nell’ultimo decennio abbiano lavorato almeno per due anni nell’ambito della medicina generale. Le Regioni avrebbero dovuto rendere noti i fabbisogni delle borse di studio già lo scorso febbraio, ma a fine luglio non si sa ancora nulla.
L’unica novità sono state le parole del ministro della Salute Roberto Speranza che a metà luglio, durante un “question time” alla Camera, ha annunciato di voler raddoppiare le borse per i prossimi tre anni, arrivando fino a quasi tremila all’anno. Utilizzando i fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) – il documento con cui il governo spiega come intende spendere i finanziamenti che arriveranno dall’Unione Europea tramite il Recovery Fund – verranno garantite 900 nuove borse all’anno che verranno aggiunte ai finanziamenti ordinari.
In attesa di capire quali saranno gli effetti di questo aumento delle borse, le Regioni hanno scelto altre soluzioni per risolvere almeno in parte la carenza di medici.
La strategia più semplice consiste nel distribuire i pazienti rimasti senza medico agli altri professionisti. Si può fare solo sforando la soglia di 1500 pazienti a medico prevista dal contratto nazionale. Per esempio pochi giorni fa è emerso che nell’azienda sanitaria Serenissima, in provincia di Venezia, le zone definite “carenti”, cioè senza medico e dove non è possibile trovare un sostituto provvisorio, sono cinquanta. L’azienda sanitaria ha chiesto ai medici di assistere fino a trecento pazienti in più.
Secondo Maurizio Scassola, segretario generale della FIMMG del Veneto, seguire un così alto numero di pazienti può avere ricadute negative sull’assistenza. Scassola sostiene che è una soluzione semplicistica, non promettente, che mostra una mancanza di idee e che non risolverà il problema nei prossimi anni. «Cosa pensiamo di fare dando trecento pazienti in più a un medico? Lo soffochiamo e basta. Servirebbe invece più programmazione da parte delle Regioni, e sostegni per cercare di far evolvere questa professione attraverso l’aggregazione di più medici, eliminando la burocrazia che spesso ci trasforma in impiegati».
In Veneto, come in tante altre Regioni, ci sono anche problemi più immediati. Così come era successo lo scorso anno, dopo la prima ondata dell’epidemia, anche quest’estate molti medici non potranno andare in ferie perché non sono riusciti a trovare un sostituto. La mancanza di professionisti si nota anche dagli esiti dei bandi presentati dalle aziende sanitarie per trovare guardie mediche turistiche: molti sono andati deserti.
In molte zone, soprattutto in montagna, saranno impiegati infermieri, con possibilità di assistenza limitate rispetto a un medico. La situazione non è migliore in regioni dove il turismo è un settore essenziale, come la Sicilia, dove quest’estate gli ambulatori delle guardie mediche turistiche sono rimasti chiusi in molte note località (come Cefalù, Mondello e San Vito Lo Capo).
In Veneto così come in Sicilia e in tutte le altre regioni italiane, questa mancanza immediata è stata causata principalmente dall’arruolamento di molti medici nella campagna vaccinale e nelle USCA, le Unità speciali di continuità assistenziale. Lo squilibrio economico tra i due servizi è evidente: ai medici di continuità assistenziale vengono garantiti circa 23 euro all’ora, mentre a chi fa parte delle USCA vanno 40 euro all’ora. «E questo problema non riguarda solo i paesi di montagna, ma anche le grandi città», continua Scassola. «In generale, la medicina generale non è più appetibile come un tempo. La nostra professione è considerata faticosa perché non si contano le ore di lavoro, quasi sempre a contatto con le persone».
Per dare un nuovo assetto alla medicina territoriale e risolvere in parte la mancanza dei medici di famiglia, nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è stato inserito l’obiettivo di realizzare 1.288 “case della comunità” entro il 2026. Secondo il piano, le case della comunità sarebbero il luogo ideale per coordinare tutti i servizi sanitari sul territorio, in particolare quelli dedicati ai malati cronici. Dovrebbero lavorare insieme medici di famiglia, pediatri, medici specialisti, infermieri e assistenti sociali per definire la migliore assistenza con una maggiore integrazione tra l’ambito sanitario e quello sociale.
Il modello non è nuovo: era stato introdotto nel 2007 con il nome di “case della salute”, ma finora le Regioni l’hanno applicato senza convinzione. Nel PNRR il costo complessivo dell’investimento è stimato in 2 miliardi di euro, con molte incertezze sulle risorse necessarie per assumere medici, infermieri e personale amministrativo.
Al momento, la proposta delle case della comunità ha ricevuto solo critiche dai sindacati dei medici di medicina generale e dalla federazione nazionale degli ordini dei medici.
Il presidente della FNOMCeO, Filippo Anelli, dice che è il progetto delle case della comunità è la riproposizione dell’idea, già fallimentare, del distretto sociosanitario. Nei distretti che sono stati istituiti da alcune regioni spesso la burocrazia ha preso il sopravvento sulle cure. «Per inviare un infermiere a curare una piaga, il medico deve andare per valutare il paziente, decidere che c’è bisogno delle medicazioni, attivare il servizio distrettuale, avviare poi la pratica. A sua volta il servizio distrettuale deve verificare se la piaga merita o no le cure, valutare tutte le prestazioni e solo a quel punto, magari quindici giorni dopo, si attivano le cure», spiega Anelli, con un esempio piuttosto concreto.
«A quel punto il paziente fa prima a pagarsi una medicazione privata. Noi siamo per consentire ai medici di fare i medici. Farli stare più vicini al letto del malato. Vanno a casa del paziente, valutano come intervenire, e l’infermiere può iniziare subito a medicare, senza le procedure burocratiche che caratterizzano i distretti sociosanitari».
Le richieste dei medici per garantire un’assistenza migliore sono sempre le stesse da anni: meno burocrazia, più possibilità di collaborare con altri professionisti, un lavoro più a contatto con i pazienti, soprattutto i malati cronici. «Non dimentichiamo che il 40 per cento della popolazione italiana è affetto da queste malattie», dice Anelli. «Senza medici che seguono costantemente questi malati aumentano i rischi per la loro salute e le possibilità che non sopravvivano».