Non sono in credito
«L’università italiana è in difficoltà da decenni soprattutto a causa di problemi oggettivi di difficilissima e forse impossibile soluzione: di fatto, l’università italiana è quasi in ogni suo aspetto l’esatto contrario di un ambiente liberista o, se questo aggettivo ha un qualsiasi senso specifico, neoliberista. Bisognerebbe evitare di ricorrere alla scorciatoia delle grandi teorie macroeconomiche e riflettere sugli ordinamenti, i regolamenti, i concorsi, i finanziamenti. E anche sugli errori, sulle leggerezze commesse anche da parte di coloro che oggi tuonano contro l’ordine neoliberista»
Come altre persone che lavorano nell’università, e soprattutto come altri ex allievi della Scuola Normale di Pisa, ho ascoltato il discorso pronunciato da tre normaliste in occasione della consegna dei diplomi di licenza, discorso molto severo circa il sistema universitario italiano (iniquo, precarizzato, asservito a logiche neoliberiste) e critico con il modo in cui si vive e si studia alla Normale (enorme pressione sugli studenti, carrierismo, scarsa collegialità, maschilismo):
L’ho ascoltato, devo dire, con scarsa simpatia, persino con un certo fastidio. Dal momento però che conoscenti e amici di cui ho stima sono rimasti – al contrario – favorevolmente impressionati, vorrei provare a spiegare, anzitutto a me stesso, le ragioni di questa mia insofferenza.
Credo innanzitutto che una ragione generale, non legata a questa circostanza, stia nella poca considerazione che ho per le opinioni dei più giovani quando queste opinioni riguardano aspetti della vita associata della quale per forza di cose essi non hanno ancora un’esperienza sufficientemente ampia e varia. Quattro o cinque anni di frequenza universitaria come studentesse e studenti non bastano, di per sé, a mettere queste studentesse e studenti nella condizione di dire cose particolarmente profonde o interessanti sull’università. Allo stesso modo, non è detto che chi fa regolarmente benzina alla stazione di servizio abbia delle cose profonde o interessanti da dire sull’industria petrolifera: di solito, anzi, non è così. C’è una deliziosa risposta del mio poeta preferito, Philip Larkin, a un intervistatore che gli chiedeva come mai non gli piacessero i bambini. Larkin era più o meno convinto che la civiltà fosse il bene e la natura fosse il male, perciò rispose: «The nearer you are to being born, the worse you are» (“Più sei vicino alla nascita, peggiore sei”). Ecco, io non sottovaluto affatto le opinioni di un ventenne sulla sua esperienza universitaria: chi se non lui dovrebbe parlarne? Ma sull’università in generale (scopi, organizzazione, funzionamento) non credo che il ventenne dica, in quanto ventenne, una verità che non merita neppure di essere sottoposta a verifica e discussione: invece mi pare che i miei amici e colleghi che hanno reagito con commozione a quel video lo pensino («Ministre subito», ho letto in un tweet di un giornalista peraltro intelligente: che è una reazione puerile). Non è affatto detto che chi protesta o s’indigna, magari trovandosi in una posizione di debolezza, abbia ragione; men che meno che abbia ragione in toto: bisogna vedere.
Al di là di questo, vincendo cioè il difetto dell’età e dell’inesperienza, potrebbe darsi che le tre ragazze abbiano detto cose particolarmente acute e vere sulla Normale e sull’università. A me però questo non pare.
Sull’università italiana hanno ripetuto cose che si sentono in continuazione, nel dibattito corrente, semplificandole fino alla caricatura. Hanno richiamato giustamente l’attenzione sul sotto-finanziamento dell’università nel paragone con gli altri paesi OCSE; sull’aumento delle posizioni a tempo determinato; sull’ingresso in carriera sempre più tardo che rende impossibile ai giovani studiosi (soprattutto di discipline umanistiche, va precisato) un qualsiasi progetto di vita minimamente fondato; sul discutibilissimo uso dei fondi premiali per i dipartimenti d’eccellenza. Ma mettere questi problemi reali sotto l’etichetta passe-partout dell’ordine ‘neoliberista’ significa non voler vedere il problema nella sua complessità, e accontentarsi di spiegazioni semplici e rassicuranti: la rassicurazione che viene dall’idea di poter separare con nettezza i buoni dai cattivi, e dal sentirsi buoni. L’università italiana è in difficoltà da decenni soprattutto a causa di problemi oggettivi di difficilissima e forse impossibile soluzione (su tutto, la necessità di formare una massa di studenti e non più soltanto un’élite, e di farlo in tempi di finanze non particolarmente floride; e la necessità di preparare a occupazioni che non sono quelle a cui vorrebbero dedicarsi molti studenti, normalisti compresi, cioè di ridisegnare un curriculum adeguato ai tempi), e poi a causa della cattiva gestione e delle non sempre adeguate riforme varate nel corso delle ultime generazioni. Il neoliberismo non c’entra niente. Di fatto, con la gabbia assurda dei suoi settori scientifico-disciplinari, la rigidità delle norme relative all’articolazione dei corsi di laurea, i suoi Fondi di Finanziamento Ordinario calibrati sul numero delle immatricolazioni e sulla velocità delle carriere, e spesi soprattutto per assunzioni e promozioni interne (e non invece, per esempio, per studentati e biblioteche), i suoi pletorici, asfissianti metodi di controllo, l’inamovibilità (vulgo illicenziabilità) dei suoi membri anche quando indegni, la sostanziale impossibilità di fare bancarotta, per quanto dissennata sia la sua amministrazione, e ultimo ma non ultimo il valore legale del titolo di studio – di fatto, l’università italiana è quasi in ogni suo aspetto l’esatto contrario di un ambiente liberista o, se questo aggettivo ha un qualsiasi senso specifico, neoliberista (e non è detto che questo non sia, anche, un bene). Bisognerebbe evitare di ricorrere alla scorciatoia delle grandi teorie macroeconomiche e riflettere sugli ordinamenti, i regolamenti, i concorsi, i finanziamenti. E anche sugli errori, sulle leggerezze commesse anche da parte di coloro che oggi tuonano contro l’ordine neoliberista. È ben chiaro che nello spazio di dieci minuti, in una cerimonia pubblica, questi problemi non si possono neanche cominciare ad affrontare, ma allora forse sarebbe stato meglio non affrontarli affatto, per non dare l’impressione – che io ho avuto – di una grande superficialità, di una lezione ripetuta a pappagallo.
Questo per la parte relativa all’università in generale. Quanto a ciò che le studentesse hanno detto della loro vita alla Normale, si tratta certamente della parte più interessante del loro discorso. Il mio giudizio non può essere del tutto obiettivo perché un quarto di secolo fa mi trovavo al loro posto, in una Scuola Normale che era diversa da quella nella quale hanno vissuto loro. Ma che la vita, soprattutto per le matricole più fragili, fosse già allora (e sarà rimasta) molto dura e penosa, inutilmente e a volte stupidamente dura e penosa – questo corrisponde anche al mio ricordo; così come ricordo che, in un ambiente chiaramente dominato dai maschi, le difficoltà per le ragazze, specie quelle della Classe di Lettere, raddoppiavano. Come càpita, alcuni docenti erano più bravi a comprendere queste difficoltà, e a dare una mano, altri meno. Alcuni si limitavano – come dicono le studentesse – a ‘buttare nell’acqua’ per vedere se lo studente nuotava, altri (molti altri, nel mio ricordo) lo provvedevano almeno di un salvagente.
Ma anche questa parte del discorso, in alcuni punti condivisibile, l’ho ascoltata con poca simpatia, in sostanza perché penso che se uno accetta di giocare a un gioco poi non deve lamentarsi quando si accorge che quel gioco ha regole difficili da rispettare. Cinque anni fa queste ragazze si sono iscritte a un concorso per la più selettiva delle università italiane. Sapevano che lo era, infatti hanno dovuto sostenere un esame molto difficile per entrarci: la gran parte dei candidati è rimasta fuori. Nel loro discorso ironizzano sulla «retorica dell’eccellenza» che risuona nei corridoi della Normale (ai miei tempi quella parola idiota sarebbe stata evitata, e spero lo sia ancora: ma il concetto era lo stesso); ma non era appunto all’eccellenza che miravano, cinque anni fa? Cioè a far parte di un piccolo gruppo di studenti particolarmente bravi e meritevoli, di una élite culturale che come ogni altra élite deve selezionare i suoi membri, respingendo la gran parte degli aspiranti? O erano troppo giovani per saperlo? Io ricordo benissimo che non lo ero: ricordo di aver fatto l’esame alla Normale perché non volevo essere come gli altri, perché pensavo di essere un po’ meglio degli altri, e volevo migliorare ancora. Non ero affatto innocente, e non vedo come potessero esserlo le diplomate del 2021.
Una volta entrate alla Normale, queste studentesse hanno scoperto quello che anch’io ho scoperto trent’anni fa: che la gara non si ferma, che la selezione continua. Ripensandoci, credo che abbiano in buona parte ragione, e che almeno nei primi anni la formula della collaborazione dovrebbe prevalere sulla formula della competizione, nei modi che si possono studiare (quand’ero studente girò per un po’ la proposta di sostituire il colloquio di passaggio d’anno, fonte di innumerevoli e irrazionali tensioni, e di velleitarismi, con un esame basato sulla lettura di un certo numero di libri, ma non se ne fece niente). Ma se si decide di partecipare al gioco, se si vuole diventare parte di un’élite, tra l’altro allevata con fondi pubblici, se si è disposti a prendere le tantissime cose buone che l’ambiente provvede (l’aura della Normale, il vitto e l’alloggio pagati, la biblioteca sempre disponibile, i professori a un passo, il dialogo con i compagni) forse è giusto accettare anche un po’ dell’inevitabile male. «Ora che abbiamo vinto il concorso, basta selezioni: collaboriamo», non mi pare una posizione che si possa sostenere in buona fede. Anche se ascoltandole potrebbe sembrare il contrario, le diplomate della Scuola Normale non hanno alcun credito da esigere.
Ancora due cose. Queste ragazze così fieramente anti-neoliberiste mi sembra abbiano introiettato proprio l’essenza della cultura commerciale corrente: infatti non mettono nemmeno per un attimo in dubbio l’opportunità di valutare i loro docenti e di dire, cioè di scrivere, segnalando ai presidi, quali sono i docenti bravi e quali quelli cattivi, e di ribadirlo nel momento in cui si congedano dalla Normale: che è appunto il costume della customer satisfaction o dell’americanissimo (e infame) Rate My Professor, con relativa gogna mondiale su internet. E hanno anche introiettato il principio che come consumatrici e, insieme, datrici di lavoro hanno diritto di scelta sui corsi, cioè che tocca anche a loro decidere che cosa il docente insegnerà l’anno successivo. A vent’anni, sanno già quali sono gli argomenti che vale o non vale la pena di affrontare. Quali saranno questi argomenti? Temo che la risposta l’abbiano data loro stesse: quelli che permettono di mobilitare più impegno (una parola che a me personalmente fa un brutto effetto quasi in ogni sua declinazione, e che tra le mura dell’università ho sentito pronunciare per lo più a docenti mediocri e vanesi), e di sentirsi insomma ‘parte della conversazione’. S’intende: dalla parte giusta della conversazione. A mio modo di vedere, il contrario di ciò che dovrebbe fare un’università, e soprattutto di ciò che dovrebbe fare la Scuola Normale.