Perché il Kosovo è così forte nel judo
Alle Olimpiadi di Tokyo il piccolo paese balcanico ha vinto due medaglie d’oro, e il merito è di una piccola palestra e del suo grande allenatore
Alle Olimpiadi di Tokyo il Kosovo, piccolo stato del Balcani con 1,8 milioni di abitanti, è attualmente undicesimo nel medagliere, davanti tra gli altri a Italia e Brasile. Ha vinto solo due medaglie, ma entrambe d’oro, e in uno sport nato a quasi diecimila chilometri di distanza, nel Giappone che ospita queste Olimpiadi: il judo.
Lunedì la judoka kosovara Nora Gjakova ha battuto la francese Sarah Cysique nella finale del torneo femminile della categoria dei 57 chilogrammi; in semifinale aveva battuto la giapponese Tsukasa Yoshida, tre volte campionessa mondiale e una delle favorite. Tre giorni prima, Distria Krasniqi aveva vinto nella categoria dei 48 chilogrammi, battendo in finale la giapponese Funa Tonaki.
Il Kosovo partecipa a questa edizione dei Giochi soltanto con undici atleti, di cui quattro donne e un uomo nel judo: è finora stato uno dei tre paesi in grado di vincere medaglie d’oro nel judo, oltre alla Francia (1) e al Giappone (5), che ha una tradizione di vittorie molto più solida e antica in questa disciplina. Gjakova e Krasniqi hanno vinto la seconda e la terza medaglia olimpica nella storia del loro paese, dopo quella vinta dalla judoka Majlinda Kelmendi a Rio de Janeiro, nel 2016.
Della forza del Kosovo nel judo si parla da tempo, già da prima dell’inizio delle Olimpiadi, e tra gli addetti ai lavori i risultati finora ottenuti da questo paese non sono del tutto sorprendenti. Gran parte del merito è riconosciuto al quarantanovenne allenatore Driton Toni Kuka e alla scuola di judo da lui fondata insieme ai suoi fratelli alla fine della Guerra del Kosovo, nel 1999, in un quartiere povero di Peja chiamato Asllan Ceshme e in gran parte distrutto dai bombardamenti. Peja è una città di circa 50 mila abitanti, vicina al confine con il Montenegro, la cui amministrazione ha deciso soltanto in anni recenti di finanziare la ristrutturazione della sala di allenamento della scuola di Kuka (i tappeti erano consumati e il tetto perdeva).
«Sono sicura che se non ci fosse Toni, il Kosovo non avrebbe le medaglie che ha oggi», disse nel 2019 Kelmendi, vincitrice dell’oro a Rio e poi campionessa mondiale nel 2013 e nel 2014. Oltre a lei, a Gjakova e a Krasniqi, ce ne sono altre e altri forti in differenti categorie di peso e fasce di età: molti di loro provengono dallo stesso quartiere, Asllan Ceshme. In Kosovo, dove il calcio è lo sport principale, gli atleti di judo difficilmente possono aspettarsi di ricevere sostegni economici significativi. Nel 2019 Kuka affermava che, dell’intero budget annuale di 17 milioni di euro previsto dallo Stato per tutti gli sport, al judo erano stati destinati 250 mila euro. Oggi ci sono in tutto il Kosovo oltre 20 club di judo, rispetto ai sei presenti prima che Kelmendi vincesse la medaglia d’oro nel 2016.
La guerra del 1998-1999 in Kosovo, all’epoca provincia serba, si concluse dopo un intervento militare della NATO che portò la Serbia a ritirare le sue forze militari. Le Nazioni Unite gestirono quindi il territorio per nove anni prima che il Kosovo, nel 2008, proclamasse l’indipendenza, non riconosciuta dalla Serbia (e nemmeno da altri paesi tra cui Russia, Cina e Spagna) ma da allora riconosciuta da 113 Stati membri delle Nazioni Unite.
– Leggi anche: Com’è il Kosovo a dieci anni dall’indipendenza
Nel 1992, poco prima delle Olimpiadi di Barcellona, Kuka era il miglior judoka jugoslavo nella categoria maschile dei 71 chilogrammi e uno dei favoriti alla vittoria di una medaglia. Ma la sempre più grave instabilità politica presente già dal 1989 portò il Kosovo, all’interno di un più ampio movimento di resistenza civica guidato dal politico e intellettuale Ibrahim Rugova, a ritirare i propri atleti di etnia albanese dalle squadre jugoslave. «Il mio sogno olimpico si infranse», ricordò Kuka, segnalando che i vincitori delle medaglie di quella edizione a Barcellona erano tutti atleti che lui aveva battuto.
Dopo la guerra, Kuka cominciò ad allenare i suoi figli e i bambini e le bambine del quartiere, tra le quali Kelmendi, che abitava a 100 metri dalla palestra. «Il Kosovo era in rovina e i bambini erano traumatizzati. Non sapevo niente di questo sport ma ero felice. Noi bambini non avevamo altro da fare», disse Kelmendi. «Abbiamo trasformato i bambini che hanno sofferto per la guerra in campioni del mondo, misurandoci con paesi come Francia, Giappone o Brasile, che hanno migliaia di judoka a disposizione per costruire le loro squadre», disse Kuka.
Dopo il rinvio delle Olimpiadi dello scorso anno, Kuka spiegò che il limite che impone di schierare una sola concorrente per ogni categoria aveva obbligato le atlete a compiere grandi sforzi per cercare di non indebolire la squadra. Per non rischiare di rimanere esclusa per via della presenza di Kelmendi nella categoria dei 52 chilogrammi, Krasniqi – vincitrice della medaglia d’oro sabato scorso – aveva dovuto ridurre il suo peso e mantenerlo. «Le persone non sanno cosa serve per dimagrire fino a pesare 48 chilogrammi e poi uscire a combattere il giorno dopo. La struttura corporea, gli ormoni, la massa muscolare, tutto… e dovremo durare così ancora un anno», disse Kuka.
Ad aiutare la squadra di Kuka con ulteriori sostegni economici intervenne il Comitato Olimpico del Kosovo (KOK), che dispone tuttavia di un limitato budget annuale (un milione di euro) e contava a sua volta su accordi di sponsorizzazione più redditizi nell’anno delle Olimpiadi.
A Kelmendi – che domenica a Tokyo è stata eliminata a sorpresa nei sedicesimi dall’ungherese Réka Pupp – è stata dedicata dal comune di Peja una statua eretta lo scorso anno in una delle piazze centrali della città. «Ha fatto rivolgere gli occhi del mondo intero verso il Kosovo», ha detto recentemente di lei Kuka. Prima che il Kosovo fosse ammesso a partecipare alle Olimpiadi nel 2016, dopo essere stato riconosciuto dal CIO nel 2014, Kelmendi ricevette molte offerte per competere per diversi paesi. «Sapevamo che quei milioni che ci sono stati offerti non li avremmo mai ricevuti, in Kosovo, ma le emozioni che ho provato tra le persone in Kosovo sono qualcosa che il denaro non può comprare», ha detto Kelmendi.