La bomba alle Olimpiadi di Atlanta, 25 anni fa
Fu messa al Centennial Olympic Park da un ultra-cristiano che voleva far cancellare i Giochi, e che fu arrestato anni dopo
La sera di venerdì 26 luglio 1996 c’era una piacevole brezza ad Atlanta, in Georgia (Stati Uniti), che dava tregua alle migliaia di persone arrivate in città da tutto il mondo per assistere alle Olimpiadi, dopo il gran caldo che aveva fatto i giorni precedenti. Molti ne approfittarono per andare al grande Centennial Olympic Park, costruito apposta per i Giochi, dove c’era un concerto gratuito del gruppo R&B Jack Mack and the Heart Attack.
Al concerto c’era anche un uomo di 29 anni originario della North Carolina, Eric Robert Rudolph, che portava un grosso zaino sulle spalle. A un certo punto della sera, intorno a mezzanotte, Rudolph posizionò lo zaino sotto una panchina, vicino all’impianto di amplificazione, e se ne andò. All’1:20 lo zaino, che conteneva una bomba artigianale fatta con polvere da sparo e 3,5 chili di chiodi d’acciaio chiusi in contenitori Tupperware, esplose con un forte boato. Una donna di 44 anni, Alice Hawthorne, morì sul colpo. Altre 111 persone furono ferite mentre Melih Uzunyol, un cameraman turco, morì per un infarto poco dopo l’esplosione.
L’episodio causò grande sgomento in un periodo in cui l’attenzione mediatica verso Atlanta era altissima. Le Olimpiadi comunque non si fermarono. Il CIO, il Comitato olimpico internazionale, decise che i Giochi potevano continuare: si sarebbe osservato un minuto di silenzio prima delle gare e si sarebbero issate le bandiere a mezz’asta.
Le Olimpiadi, che finirono come da programma il 4 agosto successivo, sono ricordate per la bomba, ma non solo: tra i momenti più iconici di quei Giochi ci fu l’accensione del braciere olimpico da parte di Muhammad Ali e il nuovo record stabilito da Michael Johnson sui 200 metri (battendo quello di Pietro Mennea).
Come ha raccontato l’Atlanta Magazine in una dettagliata storia orale di quel 27 luglio di venticinque anni fa, i morti e i feriti del Centennial Olympic Park non furono evitati per pochissimo. Richard Jewell, un addetto alla sicurezza del parco, dopo la mezzanotte si trovava nella zona dove c’era lo zaino sotto la panchina. A quell’ora lì intorno c’era anche un gruppo di ragazzi ubriachi che stavano gettando lattine di birra in giro, e Jewell si allarmò. Contattò Tom Davis, un agente di polizia, per farsi dare una mano.
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Dopo un po’ i ragazzi si allontanarono, raccogliendo la loro roba, ma Jewell e Davis si accorsero dello zaino contenente la bomba, pensando che fosse di uno di quei ragazzi che se l’era dimenticato. «È stata proprio una cosa così, casuale» ha raccontato Jewell. «Tom si girò verso i ragazzi gridando “Avete lasciato uno zaino qua?”. E loro: “No, non è nostro”».
A quel punto si allarmarono sul serio. Chiesero a tutte le persone in prossimità della panchina se quello zaino fosse loro. Davis chiamò la squadra artificieri. Fu sgomberato lo spazio intorno alla panchina per permettere agli artificieri di intervenire, e alle 00:57 arrivò la chiamata di Rudolph al numero di emergenza, da una cabina telefonica a cinque isolati di distanza. Con una voce atona avvertì: «C’è una bomba al Centennial Park, avete trenta minuti di tempo».
Per prima cosa Jewell andò dove erano installati gli impianti di amplificazione, lì vicino, in una torre di ponteggi alta cinque piani: «Andai in ogni piano della torre il più velocemente possibile e dissi alle persone: “Abbiamo un problema qui di fronte. Ci sono le forze dell’ordine e stanno facendo le loro verifiche. Non so di che si tratta, ma è un pacco sospetto. Se torno qui e vi dico di andarvene, non dovete esitare né fare questioni. Mollate quel che state facendo e andatevene, cazzo”».
Gli artificieri ci misero qualche minuto a controllare lo zaino. Dopo averlo osservato da ogni angolo, uno di loro strisciò sotto la panchina con una piccola torcia, aprendolo molto delicatamente. Secondo il ricordo di Jewell, l’artificiere si raggelò guardando il contenuto dello zaino. Sul posto era arrivato anche il supervisore di Jewell, Bob Ahring. Ahring chiese a uno degli artificieri con cosa avevano a che fare. «È grossa» rispose lui. «Quanto grossa?». «Davvero grossa». Ahring chiese se c’era bisogno di evacuare il parco e l’artificiere rispose annuendo vigorosamente, senza parlare.
Jewell si precipitò nella torre dicendo a tutte le persone all’interno – in totale erano undici – di andare via immediatamente. Controllò tutti i piani finché non rimase da solo. Subito dopo avvertì uno degli agenti che la torre era stata completamente evacuata, ma ormai erano passati quasi venti minuti. «Se avessimo avuto tre minuti in più, avremmo evacuato tutta la zona», ha raccontato Jewell. «Ma le persone erano troppe, intorno alle panchine c’era un sacco di gente, non si muovevano».
Quando esplose la bomba erano passati ventidue minuti dalla telefonata, e non trenta come aveva previsto Rudolph. «Io ero a una decina di metri dalla bomba» ha raccontato Ahring all’Atlanta Magazine. «L’urto mi sbalzò di un paio di metri e mi ritrovai steso a terra. C’era fumo ovunque, puzza di polvere da sparo, e un’improvvisa quiete mortale nel parco, potevo sentire il fischio delle schegge sfrecciare nell’aria. Fu la cosa più angosciante che abbia mai sentito in vita mia».
Alice Hawthorne fu uccisa proprio dalle schegge, colpita sei volte, di cui una alla testa. «Era il caos totale» ha raccontato Davis, l’agente che aveva scoperto la bomba insieme a Jewell. «C’era gente che gridava, strilli ovunque, e mi ricordo di aver soccorso Hawthorne, ma era già morta. Vicino a lei un uomo ferito all’addome stava sanguinando».
Già il sabato mattina il parco venne invaso dalle televisioni e dai giornali. La CNN riuscì per prima a ottenere un’intervista da Jewell, che diventò una specie di eroe nazionale. Ma quattro giorni dopo l’FBI lo dichiarò “persona di interesse” e non essendoci altre piste i media si concentrarono in modo molto aggressivo su di lui, facendo illazioni sul suo conto, indagando sulla sua vita, indicandolo come presunto colpevole e pubblicando anche il suo indirizzo di casa che per giorni venne assediata da decine di giornalisti e fotografi.
Tre mesi dopo Jewell venne escluso definitivamente dalle indagini e citò per diffamazione alcuni giornali e network televisivi, tra cui la stessa CNN che inizialmente lo aveva intervistato, la NBC, il New York Post e il Time. Jewell è morto nel 2007 per complicazioni legate al diabete, e la sua storia è stata anche raccontata da un film del 2019 diretto da Clint Eastwood, intitolato proprio Richard Jewell.
L’FBI, che era stata incaricata di svolgere le indagini, non trovò piste significative per un bel pezzo, fino all’inizio del 1997, quando ci furono due attentati simili sempre ad Atlanta e un altro a Birmingham (Alabama). I luoghi colpiti erano due cliniche per aborti e un locale per lesbiche. Rudolph, che era adepto di un movimento ultra-cristiano e anti-LGBT+ chiamato Christian Identity, venne identificato e inserito nella lista dei ricercati, ma per più di cinque anni non si fece trovare vivendo da latitante sui Monti Appalachi.
Rudolph venne arrestato solamente il 31 maggio del 2003 a Murphy, North Carolina, da un poliziotto della zona vicino a un supermercato dove si sospettava fosse in corso un furto. Non oppose resistenza. L’8 aprile del 2005, il dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti annunciò che Rudolph aveva confessato il suo ruolo in tutti e quattro gli attentati. Rudolph poi ripeté la confessione in tribunale. Parlò della volontà di colpire «gli ideali del socialismo globale» rappresentati dalle Olimpiadi, promossi dal «regime di Washington» e «perfettamente espressi nella canzone Imagine di John Lennon, inno dei Giochi del 1996».
L’obiettivo di Rudolph era, semplicemente, far cancellare le Olimpiadi, «o almeno creare uno stato di insicurezza per svuotare le strade intorno all’evento, per colpire i grandi capitali investiti». Il 18 luglio venne condannato a due ergastoli senza possibilità di condizionale e successivamente ad altri tre ergastoli per gli altri attentati.
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