La bolla dei vinili
Il rinnovato interesse delle grandi case discografiche ha avuto effetti su tutto il mercato con conseguenze per stampatori, etichette indipendenti e negozi
di Isaia Invernizzi
Negli ultimi mesi la richiesta di stampare dischi in vinile è aumentata così tanto che Filippo De Fassi, titolare della Phonopress, la più nota azienda italiana stampatrice di vinili, è stato costretto a inserire un avviso sul sito internet della sua azienda che dice: «Dodici settimane circa: questi sono i tempi di attesa che possiamo offrire al momento, in base agli ultimi lavori consegnati». Se la domanda continuerà a crescere, serviranno più di dodici settimane.
Da qualche mese alla Phonopress, che si trova a Settala, in provincia di Milano, si lavora su due turni e De Fassi fa un po’ di tutto: parla con i fornitori, aggiusta le delicate macchine che servono per stampare («da dieci anni ogni giorno si rompe qualcosa», dice) e risponde alle pressanti richieste delle case discografiche.
La domanda dei dischi in vinile, comunque, era in crescita già da tempo, grazie a una nicchia di mercato attiva e rinnovata, ed è ulteriormente aumentata durante il lockdown, quando milioni di persone sono rimaste chiuse in casa per evitare di essere contagiate. La maggiore richiesta è stata soddisfatta da grandi rivenditori come Amazon, che nell’ultimo anno e mezzo hanno incluso molti più titoli nei loro cataloghi. Per esempio secondo i dati diffusi da Billboard, la principale classifica musicale dell’industria discografica statunitense, negli Stati Uniti i ricavi degli album in vinile potrebbero raggiungere il miliardo di dollari entro la fine dell’anno, quasi 400 milioni di dollari in più rispetto al 2020, segnato dagli effetti dell’epidemia.
La crescita non è passata inosservata alle grandi case discografiche, sempre in cerca di nuove strategie per sfruttare la popolarità dei loro artisti. Non è stato inventato nulla di nuovo: così come da anni fanno le piccole etichette e le band del circuito indipendente, le cosiddette major hanno cercato di estendere la popolarità del vinile come oggetto da collezione.
I vinili sono effettivamente oggetti di una certa bellezza: sono grandi, si possono appendere alle pareti o allineare sulle librerie, sono un regalo di solito apprezzato. E si parla di un loro ritorno da tempo, ma mentre se ne parla il vinile è tornato da un pezzo e la domanda che si stanno facendo molti addetti ai lavori è, piuttosto: quanto durerà?
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Negli ultimi mesi sono state pubblicate edizioni speciali o vinili multicolori di popstar come Harry Styles, ex cantante della band One Direction, e Billie Eilish. In Italia i Måneskin, vincitori dell’Eurovision Song Contest, hanno pubblicato l’lp Teatro d’ira – Vol. I in vinile arancione trasparente.
La scelta delle case discografiche ha pagato e anche in Italia le vendite sono state buone: secondo i dati della FIMI, la Federazione Industria Musicale Italiana, il vinile dei Måneskin è stato il più venduto nei primi sei mesi dell’anno. Fine line di Harry Styles e il suo disco d’esordio, omonimo, del 2017, si sono piazzati in seconda e quarta posizione, mentre The Dark Side of the Moon, classico dei Pink Floyd uscito nel 1973 e da sempre il più venduto o uno tra i più venduti, ha perso qualche posizione, scendendo al quinto posto.
Alle nuove attenzioni di artisti popolari nei confronti dell’oggetto vinile, però, non è seguito uno sviluppo dell’industria dei vinili, di fatto ancora artigianale. Per stampare migliaia di dischi servono tempo, esperienza e macchine adatte, difficili da trovare. Le poche sul mercato sono state tutte prenotate e le aziende stampatrici devono arrangiarsi con reperti recuperati dagli anni Ottanta. L’offerta, insomma, non riesce a seguire la crescita della domanda, e i prezzi si alzano.
De Fassi parla mentre alle sue spalle si sentono sbuffi e cigolii delle sue cinque presse che nel 2018 hanno stampato un milione di dischi, l’attuale record. Sono tutte datate e non sempre affidabili: servono attenzioni e manutenzione costante per mantenere i ritmi di produzione. Per questo gli stampatori sono diventati più selettivi, i tempi di attesa si sono allungati, e molte piccole etichette hanno deciso di rinunciare a stampare vinili. «Per una questione di organizzazione abbiamo alzato i minimi di produzione a 300 pezzi, perché in questo modo riusciamo a smaltire le code e anche per fare una specie di selezione della clientela», dice De Fassi. «Stampare cento copie di un vinile comporta costi e impegno, e per noi non ha più molto senso ragionare su questi quantitativi».
Secondo De Fassi, questo evidente squilibrio nel settore industriale è una delle tante cause che contribuiranno a far crescere una bolla non sostenibile a lungo.
Il mercato delle macchine industriali è ancora limitato e se non ci sarà una risposta rapida mancherà anche il tempo per rispondere alle richieste delle grandi case discografiche, con il rischio che l’interesse nei confronti del vinile scenda, magari a favore di altri “vecchi” formati, come il CD. «Da cinque anni si dice che il vinile presto morirà, ma siamo ancora qui. Quando si arriverà al punto di rottura, cioè quando scoppierà la bolla, si dovrà per forza ricalibrare la domanda, con possibile calo dell’interesse nei confronti del vinile».
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Tra le altre cose, va considerato anche l’aumento dei prezzi delle materie prime, che ha colpito quasi tutti i settori dell’economia, tra cui anche l’industria musicale.
L’esperienza della Phonopress ha consentito all’azienda di mantenere rapporti con fornitori affidabili e canali privilegiati per procurarsi notevoli quantità di granuli da cui ricavare i dischi in vinile anche in diversi colori. Per tutti gli altri, i costi stanno iniziando a diventare proibitivi, così come rispondere alle richieste delle case discografiche.
Gli effetti di questa situazione sono già evidenti in paesi dove la bolla è cresciuta in anticipo rispetto all’Italia, come gli Stati Uniti: diversi artisti che si autoproducono hanno smesso di stampare i vinili a causa dell’allungamento dei tempi di produzione causato dall’interesse delle grandi case discografiche, e hanno puntato su formati alternativi come le musicassette.
Per non rischiare di rimanere escluse dall’industria selettiva dei vinili, le etichette devono anticipare i tempi di produzione inviando gli ordini molti mesi in anticipo rispetto all’uscita del disco.
In fondo, la capacità di adattarsi è sempre stata una specie di salvezza per questo ex mercato di nicchia. «La realtà è che negli anni Novanta e Duemila molte delle stamperie di dischi in vinile sono state tenute in vita dal circuito indipendente, che non ha mai abbandonato questo formato», racconta Franz Barcella, fondatore dell’etichetta indipendente Wild Honey Records, che negli ultimi anni ha stampato 66 titoli di artisti garage, punk e folk rock come Bee Bee Sea, Deniz Tek dei Radio Birdman e Langhorne Slim, tra gli altri. «Per fortuna molte stamperie non hanno dimenticato l’aiuto ricevuto dalle sottoculture. Hanno ancora un’etica: potrebbero stampare solo dischi di Sony e Universal, invece continuano ad accogliere le richieste di etichette indipendenti, pur con molte difficoltà in più rispetto agli anni scorsi».
Barcella sostiene che questa bolla possa avere anche effetti positivi sulla qualità dei dischi. Dice che già ora le band e le etichette sono costrette ad «allungare la vita di un disco»: non si possono più fare le cose all’ultimo, con il rischio di errori, e tutto va programmato con cura e precisione. Inoltre bisogna ingegnarsi per trovare modi nuovi per promuovere le nuove uscite.
La Wild Honey Records custodiva in magazzino una serie di vinili in sette pollici che nessuno comprava: è bastato creare un cofanetto a forma di scatola di cereali, con altri titoli più richiesti e con una serie di gadget come calzini brandizzati e spille, per venderli nel giro di due ore.
«I pre order, cioè la possibilità di ordinare un disco prima della sua pubblicazione, sono stati inventati dalle etichette indipendenti. Lo stesso è successo per le edizioni limitate, i vinili colorati, i poster e le ristampe con gadget esclusivi», dice Barcella. «Tutti questi spunti commerciali sono stati assimilati dalle major, che cercano di monetizzare il più possibile sul fanatismo degli appassionati. La limitatezza è diventata un bene di consumo, con la differenza che le etichette indipendenti credono ancora nell’arte, nella musica, mentre le major solo nel prodotto».
Com’era prevedibile, tutto questo ha portato a un significativo aumento dei prezzi dei dischi in vinile. A pagare, letteralmente, sono i negozi di dischi che come le etichette indipendenti sono riusciti a sopravvivere grazie a una nicchia ora a rischio.
Ferruccio Melchiori, titolare insieme alla moglie di Dischivolanti, negozio che dal 2009 si trova sui Navigli a Milano, da dietro il suo bancone scorre a memoria i prezzi di alcuni dei vinili in vendita e ricorda con precisione quanto gli siano costati. Molte delle uscite superano i 40 euro: il margine di guadagno è basso e il rischio di lasciarli negli scaffali per anni è molto alto. «Dal 2009 i prezzi sono raddoppiati», dice. «Io sto comprando sempre meno novità perché alcuni prezzi sono fuori mercato. Poi è ovvio che se esce il nuovo dei Radiohead o dei Pearl Jam devi averlo per forza, a qualsiasi prezzo, perché comunque li vendi».
In negozio ha ventimila CD e cinquemila vinili. Nonostante possa sembrare strano e anacronistico, Melchiori compra ancora molti CD di classica, jazz, industrial. «È come far accoppiare animali in via di estinzione», spiega con una curiosa metafora. «Dopo tre anni arriva la persona che cercava quel CD da una vita e la specie sopravvive. Il problema non è tanto il costo, quanto il fatto che si combatte con la gratuità. Se gli mp3 fossero a pagamento e regalassi CD ci sarebbe un sacco di gente con il lettore CD portatile, come negli anni Novanta».
Anche Melchiori si è adattato e ha trovato nuove strategie per ritagliarsi il suo spazio nel mercato. Servono impegno e un po’ di inventiva. Uno dei suoi maggiori fornitori, per esempio, è Amazon: sfruttando le oscillazioni di prezzo e le offerte decise dall’algoritmo si riescono a comprare dischi nuovi a prezzi molto vantaggiosi. Ci sono titoli messi in vendita a 8 euro che il giorno dopo tornano a 28 euro. L’importante è comprarli al momento giusto.
Allo stesso modo, però, internet ha creato occasioni di speculazione. L’ultimo vinile dei Foo Fighters, “Hail Satin”, un album di cover dei Bee Gees, non certo una tappa indispensabile della loro carriera, è stato stampato in dodicimila copie, una quantità che sembrava sufficiente e invece in poco tempo lo ha reso un titolo ricercato. In negozio è stato venduto a 32 euro, mentre su Discogs, la più nota piattaforma per ottenere informazioni su un disco e venderlo ovunque nel mondo, si trova a oltre 130 dollari: una valutazione che influirà anche su altre uscite, come già è successo in passato, contribuendo alla crescita dei prezzi.
«Alla lunga questo mercato sarà sostenibile solo se le major decideranno di lasciare i prezzi bassi», dice Melchiori. «Incassano quasi tutti i loro proventi da pubblicità e streaming: non vedo perché dovrebbero insistere nell’alzare i prezzi dei vinili. La mia priorità, e credo dovrebbe essere anche quella del mercato, è continuare a curare il bacino dei fruitori, di ragazzi e ragazze appassionati di musica a cui consigliare un buon disco».
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