La trovata di Damien Hirst con gli NFT

Il celebre artista ha messo in vendita 10mila opere simili, lasciando scegliere agli acquirenti se vogliono la copia fisica o il certificato digitale

(Heni)
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È scaduto oggi il termine per registrarsi a “The Currency”, un progetto del celebre artista e imprenditore britannico Damien Hirst composto da 10mila opere simili ma non uguali che tra un anno esisteranno solo come opere d’arte fisiche, oppure solo come NFT, i certificati di autenticità digitale usati per garantire la proprietà di qualcosa.

“The Currency” prevede infatti che 10mila NFT relativi ad altrettante opere fisiche di Hirst vengano venduti per duemila dollari l’uno a una serie di persone scelte tra chi si è registrato sull’apposito sito e sceglierà nei prossimi giorni di completare l’acquisto. Le 10mila opere esistono fisicamente e al momento sono conservate in una camera blindata del Regno Unito. Ma a essere inizialmente venduti saranno i relativi NFT, di fatto dei contratti digitali di proprietà, la cui autenticità è certificata tramite blockchain.

Quando saranno passati due mesi dal ricevimento dell’NFT, ogni proprietario avrà poi tempo fino al 27 luglio 2022 per scegliere se tenere l’NFT o se invece preferirà avere l’opera fisica a cui quell’NFT fa riferimento. Nei casi in cui sarà scelto l’NFT, la relativa opera fisica sarà distrutta. Al contrario, la scelta dell’opera fisica avrà come conseguenza la distruzione dell’NFT. La scelta, libera e personale da parte degli acquirenti, potrà però essere fatta una sola volta e non sarà in alcun modo reversibile.

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Le 10mila opere di “The Currency” (“la valuta”) sono state realizzate a mano da Hirst su fogli di 20×30 centimetri e hanno un unico tema comune: i pois, che l’artista 56enne realizza in varie forme da più di trent’anni. Nel realizzare le opere – tra loro tutte diverse – Hirst ha seguito una serie di semplici regole su forme e colori; l’autenticità di ognuna è certificata da una serie di elementi, per molti versi simili a quelli usati per evitare la contraffazione delle banconote. Su ogni opera ci sono infatti un’immagine olografica di Hirst, una sua firma, un numero di serie e un microdot.


Oltre a essere numerata, ogni immagine è accompagnata da un testo: di fatto un titolo, che secondo il sito del progetto «è stato generato applicando il machine learning ad alcune delle strofe di canzoni preferite dall’artista». Il titolo della prima opera tra le 10mila è “Totally gonna sell you”, “ti venderò di sicuro”.

Tutte le 10mila opere si possono vedere e filtrare qui in base alle caratteristiche dei pois, dei colori o delle parole dei titoli. Ci sono quindi alcuni elementi che rendono certe opere più rare di altre: solo 122 su 10mila, per esempio, contengono una parola volgare nel titolo: l’opera 651, per esempio, è intitolata “My vision is fucked”.

Hirst iniziò a realizzare queste opere nel 2016, quando ancora nemmeno sapeva cosa fossero gli NFT, che esistono da diversi anni ma di cui molti sono giunti a conoscenza solo da qualche mese. Dopo aver approfondito un po’ il concetto di NFT e le loro possibili applicazioni nell’arte Hirst – che è noto come artista, ma anche come abile manovratore del mercato dell’arte – decise di usare le sue migliaia di opere a pois per “The Currency”, di fatto aggiungendo tutta la parte che riguarda gli NFT.

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Sebbene per molti il concetto sia comprensibilmente astruso, c’è tutto un gruppo di persone, alcune delle quali appassionate d’arte o comunque interessate a investirci, secondo cui un NFT può valere anche più di un’opera. Un esempio: a marzo un’opera di Banksy che prendeva in giro le aste d’arte e che era stata comprata nel 2006 per 95mila dollari fu bruciata durante un video mostrato in diretta su Twitter. L’NFT di quel video fu poi venduto per 380mila dollari.

Quello di Hirst è insomma una sorta di esperimento sul rapporto tra la proprietà fisica di un’opera e quella digitale: la prima è quella su cui si è sempre basata l’arte, ma i certificati di proprietà digitale vanno effettivamente molto forte e attraggono enormi investimenti (in parte anche perché esistono attività di speculazione e riciclo di denaro collegate agli NFT).

Come ha scritto The Conversation, il ragionamento alla base di “The Currency” è trasformare le opere stesse in qualcosa di simile a una valuta reale, suscitando una riflessione sul fatto che, sebbene sembrino e siano considerate tutte uguali, anche le banconote sono per evidenti motivi una diversa dall’altra. E che quindi «i soldi sono un concetto che più lo si analizza con attenzione e più diventa difficile da inquadrare». Joe Hage – fondatore di Heni, piattaforma che collabora con Hirst e che ospita le attività online relative a “The Currency” – ha detto: «si dice spesso che il denaro corrompe l’arte, ma questo è un tentativo dell’arte di corrompere il denaro».


Tra i tanti possibili ragionamenti su cosa sia l’arte e su cosa faccia Hirst con e all’arte, e tra le tante possibili elucubrazioni sui significati di “The Currency”, resta il fatto che tra poco più di un anno, quando scadrà il termine per scegliere tra opera fisica o NFT, sarà interessante vedere cosa avranno deciso gli acquirenti. Visto che sia gli NFT che i fogli con i pois fatti a mano da Hirst potranno essere liberamente scambiati, comprati e rivenduti l’attenzione sarà su cosa avrà più valore, e quanto quel valore dipenderà dalle scelte fatte dai proprietari delle altre opere. In ogni possibile rapporto compreso tra i due estremi: 10mila NFT e nessuna opera fisica o 10mila opere e nemmeno un NFT.