Come si dimostra l’empatia
Una riflessione della scrittrice americana Leslie Jamison, che nella vita ha anche finto di essere malata per mettere alla prova studenti di medicina
Leslie Jamison è una scrittrice che, per arrotondare, ha lavorato come attrice medica: sostanzialmente veniva pagata per interpretare il ruolo di una persona malata, affinché gli studenti di medicina potessero esercitarsi a fare visite e diagnosi. Oggi Jamison insegna alla Columbia University di New York e scrive per note testate giornalistiche americane come il New York Times Magazine, l’Atlantic e la New York Times Book Review. La sua esperienza di lavoro come attrice medica è il punto di partenza della raccolta di saggi Esami di empatia, appena pubblicata in Italia da NR Edizioni nella traduzione di Simona Siri. Si parla di empatia, appunto, di che cosa sia veramente e di come possa aiutarci a elaborare il nostro dolore e a comprendere quello degli altri.
Pubblichiamo l’inizio del primo saggio, quello dove si capisce che lavoro fa un’attrice medica e che dà il titolo a tutta la raccolta.
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Il mio titolo di lavoro è attrice medica, il che significa che interpreto una malata. Vengo pagata a ore. Gli studenti di medicina indovinano le mie malattie. Vengo definita una paziente standardizzata, cioè mi comporto secondo le norme stabilite per i miei disturbi. In gergo sono una PS. Parlo fluentemente dei sintomi della preeclampsia, dell’asma e dell’appendicite. Interpreto una mamma il cui bambino ha le labbra blu.
La recitazione medica funziona così: ti danno una sceneggiatura e un grembiule di carta. E 13,50 dollari l’ora. I nostri copioni sono lunghi da dieci a dodici pagine. Descrivono cosa c’è che non va in noi, non solo ciò che fa male, ma anche come esprimerlo. Ci dicono quanto rivelare e quando. Da noi ci si aspetta che srotoliamo le risposte secondo un protocollo specifico. I copioni si addentrano nei dettagli delle nostre vite fittizie: l’età dei nostri figli e le malattie dei nostri genitori, i nomi delle società immobiliari e di graphic design dei nostri mariti, la quantità di peso che abbiamo perso nell’ultimo anno, la quantità di alcol che beviamo ogni settimana.
Il mio caso per specializzandi è Stephanie Phillips, una ventitreenne che soffre di una malattia chiamata disturbo di conversione. È in lutto per la morte del fratello e il dolore si è sublimato in crisi epilettiche. Il suo disturbo è una novità per me. Non sapevo che si potessero avere convulsioni dalla tristezza. Neanche lei deve saperlo. Non deve pensare che le crisi epilettiche abbiano qualcosa a che fare con il suo lutto.
STEPHANIE PHILLIPS
Psichiatria
PS Materiale per il training
RIEPILOGO DEL CASO: Sei una paziente di ventitré anni che soffre di convulsioni senza origine neurologica identificabile. Non puoi ricordare le tue convulsioni, ma ti viene detto che hai la schiuma alla bocca e urli oscenità. Di solito puoi sentire una crisi prima che arrivi. Le crisi sono iniziate due anni fa, poco dopo che tuo fratello maggiore è annegato nel fiume appena a sud del ponte di Bennington Avenue. Nuotava ubriaco dopo una festa nel parcheggio dello stadio prima di una partita di football. Tu e lui lavoravate nello stesso campo da minigolf. Ultimamente non lavori affatto. Ultimamente non fai molto. Hai paura di avere una crisi in pubblico. Nessun medico è stato in grado di aiutarti. Il nome di tuo fratello era Will.
TERAPIA FARMACOLOGICA: Non stai assumendo farmaci. Non hai mai preso antidepressivi. Non hai mai pensato di averne bisogno.
STORIA CLINICA: La tua salute non ti ha mai causato problemi. Non hai mai avuto niente di peggio di un braccio rotto. Will era presente quando l’hai rotto. È stato lui a chiamare i paramedici e a tenerti calma fino al loro arrivo.
I nostri esami simulati si svolgono in tre stanze appositamente costruite. Ogni stanza è dotata di un lettino da visita e di una telecamera di sorveglianza. Testiamo studenti di medicina del secondo e terzo anno divisi per specializzazione: pediatria, chirurgia, psichiatria. Nelle giornate d’esame, ogni studente deve affrontare degli “incontri” – il loro titolo tecnico – con tre o quattro attori che interpretano casi diversi.
Uno studente potrebbe dover palpare una donna che riferisce un dolore addominale dieci su scala dieci, poi sedersi di fronte a un giovane avvocato delirante e dirgli che quando sente una massa contorta di vermi nel suo intestino tenue, la sensazione ha probabilmente origine da qualche altra parte. E dopo ancora, lo stesso studente di medicina potrebbe arrivare nella mia stanza, restare con la faccia seria e dirmi che sto per iniziare un travaglio prematuro per partorire il cuscino legato alla mia pancia, o annuire solennemente mentre esprimo preoccupazione per il mio bambino di plastica malato: “È così silenzioso”.
Terminato il colloquio di quindici minuti, lo studente di medicina lascia la stanza e io compilo una valutazione delle sue prestazioni. La prima parte è una checklist: quali informazioni cruciali è riuscito a ottenere? Quali ha lasciato scoperte? La seconda parte della valutazione riguarda le emozioni. Il punto numero 31 della lista è generalmente riconosciuto come la categoria più importante: “Empatia espressa per la mia situazione/problema”. Siamo istruiti sull’importanza della seconda parola, espressa. Non è sufficiente che qualcuno abbia modi empatici o usi un tono premuroso. Gli studenti devono pronunciare le parole giuste per ottenere crediti per la loro compassione.
A noi pazienti standardizzati viene fornita una sala per la preparazione e la decompressione. Ci raduniamo in gruppi: uomini anziani con vestaglie blu spiegazzate, laureati in lettere con stivali troppo belli per i nostri camici di carta, adolescenti del posto con poncho e pantaloni della tuta da ospedale. Ci aiutiamo a vicenda a legare i cuscini intorno alla vita. Distribuiamo bambolotti neonati. Il piccolo Baby Doug con la polmonite, avvolto in una coperta di cotone da quattro soldi, viene passato di ragazza in ragazza come un testimone. I nostri gruppi sono pieni di attori di teatro e studenti universitari di recitazione in cerca di un palcoscenico, ragazzi delle scuole superiori che guadagnano soldi per poi spenderli in alcolici, pensionati con del tempo libero. Sono una scrittrice, il che significa che sto cercando di non restare al verde.
Interpretiamo uno zoo demografico: giovani atleti con lesioni ai legamenti crociati e dirigenti d’azienda che coltivano abitudini legate alla cocaina. La nonna con una malattia venerea, sposata da quarant’anni, che ha appena tradito suo marito e per questo ha un caso di gonorrea da mostrare. Si nasconde dietro la sua vergogna come dietro a un velo, e dal suo studente di medicina ci si aspetta che lo sollevi. Se farà le domande giuste, lei avrà una crisi di pianto simulato a metà dell’incontro.
Blackout Buddy si trucca: uno squarcio sul mento, un occhio nero e lividi macchiati di ombretto verde lungo lo zigomo. È rimasto coinvolto in un incidente che non ricorda nemmeno. Prima dell’incontro, l’attore si spruzza alcol sul corpo come se fosse acqua di colonia. Deve lasciar trasparire i dettagli del suo alcolismo, in modo molto “spontaneo”, pezzi di un segreto che ha fatto del suo meglio per tenere nascosto.
Le nostre sceneggiature sono costellate di dettagli coloriti: il marito di Lila-quella-incinta è un capitano di yacht che naviga oltremare al largo della Croazia. Angela-quella-con-l’appendicite ha uno zio chitarrista morto il cui bus tour è stato colpito da un tornado. Molti dei membri della nostra famiglia allargata sono morti di morte violenta, una cosa piuttosto comune nel Midwest: fatti a pezzi in incidenti con un trattore o nei silos per cereali, investiti da guidatori ubriachi mentre tornavano a casa dai supermercati Hy-Vee, abbattuti dal maltempo o durante le bevute prima delle partite delle squadre del college (incidenti con armi da fuoco) o, come mio fratello Will, dalle più tranquille conseguenze della dissolutezza.
Tra un incontro e l’altro, ci vengono date acqua, frutta, barrette di cereali e una scorta infinita di mentine. Non dobbiamo sfinire gli studenti con il nostro alito cattivo e gli stomaci che brontolano, gli effetti collaterali dei nostri corpi reali.
Alcuni studenti di medicina si innervosiscono durante i nostri incontri. È come un appuntamento imbarazzante, tranne per il fatto che la metà di loro indossa vere fedi nuziali di platino. Vorrei dire loro che sono più di una semplice donna non sposata che finge convulsioni per pochi soldi. Faccio cose! vorrei dirgli. Probabilmente un giorno scriverò un libro su tutto questo! Facciamo due chiacchiere sulla città rurale dell’Iowa di cui dovrei essere originaria. Ognuno di noi capisce che l’altro sta inventando queste chiacchiere e concordiamo nel rispondere alle invenzioni l’uno dell’altro come se fossero autentiche esposizioni di personalità. Reggiamo la finzione tra noi come una corda per saltare.
Una volta uno studente si è dimenticato che stavamo fingendo e ha iniziato a fare domande dettagliate sulla mia finta città natale – che, guarda caso, era la sua vera città natale – e le sue domande sono andate oltre la portata del mio copione, al di là di ciò a cui potevo rispondere. Perché in realtà non so molto della persona che dovrei essere o del posto da cui dovrei venire. Lui aveva dimenticato il nostro contratto. Dicevo ancora più stronzate, ancor più di cuore. “Quel parco a Muscatine!”, dicevo schiaffeggiandomi il ginocchio come una nonnetta. “Ci andavo in slitta da bambina”.
Altri studenti fanno sul serio. Scorrono la lista dei sintomi per la depressione come la lista di cose di cui hanno bisogno quando vanno a fare la spesa: disturbi del sonno, alterazioni dell’appetito, diminuzione della concentrazione. Alcuni di loro si irritano quando sono fedele al copione e mi rifiuto di stabilire un contatto visivo. Devo restare abbozzolata e insensibile. Questi studenti irritati considerano i miei occhi sfuggenti come una sfida. Non smettono mai di cercare il mio sguardo. Lottare per il mio contatto visivo è il modo in cui mantengono il potere, costringendomi ad accettare la loro imperativa manifestazione di attenzione.
Mi sono abituata a commenti che sento aggressivi nella loro insistenza formale: deve essere davvero difficile [avere un bambino che sta morendo], deve essere davvero difficile [aver paura di avere un’altra crisi epilettica nel bel mezzo del supermercato], deve essere davvero difficile [portare nel tuo utero l’evidenza batterica di aver tradito tuo marito]. Perché non dire: non posso nemmeno immaginare?
Altri studenti sembrano capire che l’empatia è sempre precariamente arroccata tra il dono e l’invasione. Non premono nemmeno lo stetoscopio sulla mia pelle senza chiedermi se va bene. Hanno bisogno del permesso. Non vogliono presumere. La loro balbuzie onora inconsapevolmente la mia privacy: posso… potrei… ti dispiacerebbe se… ascoltassi il tuo cuore? No, dico loro. Non mi dispiace. Non dispiacermi è il mio lavoro. La loro umiltà è una sorta di compassione a sé stante. Umiltà significa che fanno domande, e fare domande significa ottenere risposte, e ottenere risposte significa che ottengono punti sulla checklist: un punto per aver scoperto che mia madre prende il Wellbutrin, un punto per avermi fatto ammettere che ho passato gli ultimi due anni a tagliarmi, un punto per aver scoperto che mio padre è morto in un silo per il grano quando avevo due anni – per aver realizzato che un sistema radicato di perdite si estende radiale e rizomatico sotto l’intero territorio della mia vita.
In questo senso, l’empatia non viene misurata solo dal punto numero 31 della lista – empatia espressa per la mia situazione/problema – ma da ogni elemento che misura quanto a fondo la mia esperienza sia stata immaginata. L’empatia non è solo ricordarsi di dire deve essere davvero difficile, è capire come portare alla luce le difficoltà in modo che possano essere comprese. L’empatia non è solo ascoltare, è porre le domande le cui risposte devono essere ascoltate. L’empatia esige ricerca tanto quanto l’immaginazione. L’empatia richiede di sapere di non sapere. Empatia significa riconoscere un orizzonte di contesto che si estende all’infinito oltre ciò che è possibile vedere: la gonorrea di una donna anziana è legata alla sua colpa che è legata al suo matrimonio che è legato ai suoi figli che sono legati ai giorni in cui era una bambina. Tutto questo, a sua volta, è legato a una madre casalinga repressa, e al matrimonio integro dei suoi genitori; forse tutto ha le sue radici nelle primissime mestruazioni e nel modo in cui le hanno provocato vergogna ed eccitazione.
Empatia significa rendersi conto che nessun trauma ha margini divisi. Il trauma sanguina. Fuori dalle ferite e oltre i limiti. La tristezza diventa una crisi epilettica. L’empatia conseguente richiede un altro tipo di permeabilità. Il mio copione nel ruolo di Stephanie è lungo dodici pagine. Penso perlopiù a ciò che non c’è scritto.
Empatia deriva dal greco empatheia – em (dentro) e pathos (sentimento) – una capacità di comprensione, una specie di viaggio. Suggerisce che si entra nel dolore di un’altra persona come si entra in un altro stato, attraverso l’immigrazione e la dogana, attraversando il confine interrogandosi: che cosa cresce nel posto in cui ti trovi? Quali sono le leggi? Quali animali pascolano lì?
Ho pensato alle crisi di Stephanie Phillips in termini di possesso e privacy. Deviare la sua tristezza su qualcosa di diverso dall’articolazione diretta è un modo per mantenerla sua. Il suo rifiuto di stabilire un contatto visivo, la sua riluttanza a spiegare la sua vita interiore, il modo in cui diventa inconsapevole durante le sue espressioni di dolore e poi non le ricorda: tutto questo potrebbe essere un modo per mantenere la sua perdita protetta e incontaminata, non violata dalla comprensione degli altri.
“Cosa urli durante le crisi?”, chiede uno studente.
“Non lo so”, dico, e voglio aggiungere: ma voglio davvero dirlo.
So che dire questo sarebbe contro le regole. Sto interpretando una ragazza che conserva la propria tristezza in un luogo così sotterraneo che non riesce a vederla nemmeno lei stessa. Non posso darla via così facilmente.
© 2014 by Leslie Jamison
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