Naomi Osaka sta cambiando le cose
Prima ha spinto il Giappone a misurarsi con un’identità atipica per la cultura locale, ora arriva a Tokyo dopo aver messo in discussione il rapporto tra atleti e stampa
di Mariarosaria Vitiello
Naomi Osaka è una delle atlete più attese delle Olimpiadi di Tokyo 2020, e non solo perché è una delle tenniste più forti al mondo: al contrario di molte delle sue avversarie Osaka non gioca in una gara ufficiale dal 30 maggio scorso, quando si era ritirata dal Roland Garros in seguito alla decisione degli organizzatori del torneo di multarla per non essersi presentata a una conferenza stampa. Osaka aveva spiegato la sua decisione dicendo che in queste occasioni «non si ha riguardo per la salute mentale degli atleti».
Il problema a Tokyo non dovrebbe porsi: alle Olimpiadi sono previste conferenze stampa per chi vince una medaglia ma il Comitato Olimpico Internazionale (CIO) non ha mai obbligato gli atleti a parlare con i giornalisti. Anche il Comitato Olimpico Giapponese (COG), che tra le altre cose regola i rapporti tra i media e la delegazione giapponese, ha confermato che non ci saranno sanzioni per chi dovesse decidere di non partecipare alle conferenze stampa. Dovesse ottenere una medaglia, Osaka ha detto che intende parteciparvi a patto che venga tutelata la sua salute mentale.
Negli ultimi mesi Osaka si è trovata al centro di una discussione più culturale che sportiva. Oltre a sensibilizzare sul tema della salute mentale nello sport, la sua vicenda mostra quanto sia cambiato il ruolo del giornalista come mediatore tra l’atleta e il suo pubblico, soprattutto in seguito all’avvento dei social media.
Nata in Giappone da madre giapponese e padre haitiano ma cresciuta fin da quando era molto piccola negli Stati Uniti, tra Long Island e la Florida, Osaka ha vissuto in un ambiente multietnico in cui la cultura americana si è mescolata a un’educazione in parte giapponese e in parte haitiana. Ha iniziato a giocare a tennis a tre anni allenata dal padre, Leonard François: Naomi e la sorella Mari portano però il cognome della madre, perché in Giappone una legge permette alle donne di dare il proprio cognome ai figli in caso di matrimonio con persone di diversa nazionalità, per facilitare l’integrazione in una società non sempre accogliente nei confronti degli stranieri. Leonard François non aveva grandi esperienze nel tennis: solo l’esempio di Richard Williams, il padre di Serena Williams, che pur non essendo un esperto fu il primo allenatore della figlia, diventata poi una delle tenniste migliori di tutti i tempi.
Pur non parlando il giapponese e avendo vissuto per la grandissima parte della sua vita negli Stati Uniti, quando è diventata professionista nel 2013 Osaka ha scelto di rappresentare il Giappone. Era stato il padre a convincerla, ritenendo che così avrebbe avuto maggiori possibilità di visibilità e di successo. Farsi accettare in Giappone come atleta nazionale pur essendo più americana che giapponese, oltre che donna e mezza nera, non è stato semplice: il Giappone è un paese tradizionalista, molto omogeneo dal punto di vista etnico e con la più alta percentuale al mondo di persone anziane. Osaka ricorda spesso «lo shock sui volti delle persone» durante i suoi primi tornei o quando, durante una conferenza stampa agli Australian Open del 2019, non riuscì a rispondere ad alcune domande che le erano state poste in giapponese. Negli anni successivi si è impegnata a impararlo e lo sforzo è stato molto apprezzato dalla stampa locale, che per venirle incontro ha invece iniziato a parlarle in inglese.
I successi sportivi hanno col tempo consolidato il legame tra il Giappone e Osaka, che è stata la prima tennista giapponese a vincere uno Slam, cioè uno dei quattro tornei più importanti al mondo – Australian Open, Roland Garros, Wimbledon e US Open – che insieme compongono il Grande Slam. A 23 anni Osaka è la donna che guadagna di più nel mondo dello sport – 60 milioni di dollari nell’ultimo anno, secondo Forbes – ed è seconda nel ranking WTA, la classifica della Women’s Tennis Association che comprende tutte le tenniste professioniste del mondo. Quelle di Tokyo saranno le sue prime Olimpiadi.
Benché dopo le partite degli Slam sia obbligatorio per i tennisti partecipare alle conferenze stampa, non è un fatto nuovo che un o una tennista si rifiuti occasionalmente di parlare con i giornalisti: nessuno prima di Osaka però aveva dichiarato in anticipo l’intenzione di sottrarsi a quest’obbligo. In un primo momento, Osaka non aveva reso noti i motivi della sua decisione. Lo ha fatto dopo che gli organizzatori del Roland Garros, in una nota l’avevano redarguita: «Nello sport niente è più importante che assicurarsi che nessun giocatore abbia un vantaggio sleale su un altro, cosa che purtroppo accadrebbe in questa situazione se un giocatore si rifiutasse di dedicare tempo agli impegni mediatici che vengono onorati da tutti gli altri». Osaka aveva allora pubblicato sui social un post – poi cancellato – in cui aveva raccontato di soffrire di «lunghi attacchi di depressione fin dagli US Open del 2018», e che le domande dei giornalisti rischiavano di aggravare questa condizione portandola a concentrarsi sui suoi limiti e sulle ragioni di un’eventuale sconfitta.
La notizia della multa e del conseguente ritiro di Osaka dal torneo hanno generato un grande dibattito intorno al tema della salute mentale degli atleti, sul quale sono stati chiamati in causa anche gli stessi organizzatori del Roland Garros, che si sono difesi dicendo di aver sempre trattato Osaka con «cura» e «rispetto». Osaka è tornata sulla vicenda lo scorso giugno, in un numero del settimanale statunitense Time che le aveva dedicato la copertina, rispondendo a chi, tra i giornalisti, l’aveva accusata di voler creare un «pericoloso precedente» nei rapporti tra la stampa e gli sportivi. Osaka ha ribadito che la sua intenzione non era ispirare una ribellione contro la stampa ma invitarla a guardare in maniera critica al proprio lavoro e a chiedersi come migliorare. Ha inoltre suggerito delle possibili soluzioni, per esempio dare ai tennisti un «piccolo numero di giorni di malattia» da utilizzare per sottrarsi occasionalmente agli obblighi della stampa senza dover rivelare le proprie ragioni. Nella sostanza, Osaka dice di chiedere un maggior rispetto della propria privacy, spiegando di non aver immediatamente rivelato i motivi del suo gesto proprio perché si sentiva «sotto pressione».
La decisione di Osaka ha aperto un dibattito anche su un altro tema delicato: il ruolo contemporaneo del giornalismo nello sport. Come ha scritto Ben Smith, esperto di media ed editorialista del New York Times, prima dell’arrivo di Internet i media tradizionali erano l’unico mezzo che gli atleti avevano per instaurare un legame con il loro pubblico. I giornalisti sono rimasti attaccati a questo loro ruolo nonostante nei fatti non esista più. Questo cambiamento, però, non dovrebbe necessariamente svalutare il potere di cui gode ancora oggi la stampa. Le conferenze stampa, infatti, assolvono a un compito che non è quello dei social media: aiutano i tifosi a capire cosa è successo durante una gara e, più di tutto, costringono gli atleti a rispondere a domande alle quali non sarebbero sottoposti se non fossero obbligati, e che possono dare al pubblico una migliore conoscenza dello sport e dei suoi personaggi. Questo è tra l’altro particolarmente vero nel caso del tennis americano perché, come ha scritto la rivista statunitense The Atlantic, al contrario che in altri sport più popolari i giocatori non sono sempre disponibili per la stampa al di fuori dei tornei.
Un altro pezzo recente di questo processo di disintermediazione è stato la nascita di media sportivi indipendenti che hanno allargato la distanza tra gli atleti e il giornalismo tradizionale. L’esempio più famoso è The Shop, talk show americano prodotto da HBO in cui LeBron James, la star del basket dei Los Angeles Lakers, e Maverick Carter, un noto uomo d’affari americano, conversano con altri personaggi famosi nel negozio di un barbiere. Ma c’è anche The Players’ Tribune, un sito fondato dall’ex giocatore di baseball Derek Jeter i cui articoli sono scritti direttamente dagli atleti. Bisogna fare i conti con il giornalismo dei nuovi media, dice Smith: è un giornalismo in grande ascesa, indipendente dalle logiche delle grandi testate ma subordinato al potere dei personaggi pubblici, e quindi privo dell’approccio critico che invece caratterizza il giornalismo tradizionale.
Questo e gli altri articoli della sezione Intorno alle Olimpiadi sono un progetto del workshop di giornalismo 2021 del Post con la Fondazione Peccioliper, pensato e completato dagli studenti del workshop.