Franco Serantini, anarchico morto in carcere
Oggi avrebbe settant'anni, ma quando ne aveva ventuno fu picchiato dai poliziotti a una manifestazione, e lasciato agonizzare senza cure
Franco Serantini, attivista anarchico, avrebbe oggi 70 anni: ma quasi cinquant’anni fa, il 7 maggio 1972, morì su una barella dell’infermeria nel carcere Don Bosco di Pisa, dopo essere stato picchiato dai poliziotti che lo avevano fermato durante una manifestazione, e dopo aver trascorso due giorni in carcere senza ricevere le cure mediche necessarie.
Era nato a Cagliari il 16 luglio 1951, figlio di NN, come si scriveva sui documenti fino al 1975: nomen nescio, cioè padre ignoto. Fu un ufficiale di stato civile a dargli quel nome, Franco Serantini, che apparteneva a uno scrittore romagnolo di romanzi e racconti. Dopo due anni di orfanotrofio venne dato in affidamento a una coppia di coniugi siciliani. Nel 1955 la mamma affidataria morì, e l’amministrazione provinciale di Cagliari ordinò che il bambino venisse affidato all’Istituto del Buon Pastore, nel quartiere Giorgino.
Nel 1968, le suore dell’istituto scrissero al Tribunale dei minori: quel ragazzo era ingestibile, non studiava, si ribellava alla loro autorità, non obbediva. Il Tribunale sentenziò: «Siccome la personalità del giovane appare gravemente disturbata per assoluta carenza affettiva e lunga istituzionalizzazione, la personalità del soggetto deve essere bene aiutata con un trattamento affettuosamente comprensivo e sostenitore». Quindi decisero di mandarlo in riformatorio. Per rimediare al lungo periodo passato in istituto, secondo il tribunale Serantini doveva essere rinchiuso.
Lo mandarono a Pisa, all’istituto di rieducazione Pietro Thouar, in regime di semilibertà: doveva dormire e mangiare in istituto. Pasti alle 13.30 e alle 19.30 e rientro entro le 21.30. A Pisa Franco Serantini finì la scuola media e poi iniziò a frequentare l’Istituto professionale di stato per il commercio che dava diplomi di contabili, segretari d’azienda, addetti agli uffici turistici, impiegati esecutivi e di concetto. Divenne molto amico di un compagno di classe, Sauro Ceccanti, che era il fratello di Soriano, un ragazzo rimasto paraplegico dopo essere stato ferito da un colpo di pistola il 31 dicembre 1968 mentre, con migliaia di altri studenti, stava protestando alla Bussola di Marina di Pietrasanta, uno dei locali più famosi della Versilia negli anni Sessanta.
Serantini si avvicinò ai movimenti di sinistra. Era la fine degli anni Sessanta, piena epoca di contestazione. Si interessò ai gruppi anarchici, fece amicizia con l’intellettuale Luciano della Mea e, attraverso di lui, con molti altri del suo ambiente politico. Iniziò a leggere, a studiare i pensatori anarchici, con entusiasmo. Una sera un amico, Paolo Podio Guidugli gli disse di stare attento, in quanto «vittima predestinata: sei un Valpreda», riferendosi all’anarchico coinvolto ingiustamente nel processo sulla strage di piazza Fontana.
Il 7 maggio 1972 in Italia erano programmate le elezioni politiche. Per la chiusura della campagna elettorale del Movimento sociale italiano a Pisa, in largo Ciro Menotti, era previsto il comizio di Beppe Niccolai. I movimenti di sinistra, soprattutto Lotta continua e il movimento anarchico, decisero di contrastare e cercare di impedire il comizio. Niccolai parlò in piazza davanti a circa 200 militanti, circondati e protetti dalle Forze di polizia. I militanti di sinistra, secondo la ricostruzione della Questura, si attestarono sul lungarno Mediceo e sul Ponte di Mezzo iniziando a urlare e a lanciare oggetti contro la polizia che si trovava in piazza Garibaldi. Cominciarono le cariche e gli scontri.
Una ragazza, Valeria, incrociò Serantini sul Ponte di Mezzo. Gli disse di venire via, lui rispose che sarebbe restato, «non mi beccano», e si incamminò oltre il ponte, in Lungarno Gambacorti. Valeria fu l’ultima persona a vedere Serantini prima che venisse preso dalla polizia. Come riporta il libro del 1975 di Corrado Stajano, Il sovversivo – Vita e morte dell’anarchico Serantini, una persona in quel momento affacciata alla finestra, Moreno Papini, disse di aver visto arrivare sotto casa sua alcune camionette e una quindicina di poliziotti a piedi. Rese testimonianza e raccontò ciò che accadde:
«Allora mi sono sporto dal davanzale della finestra e ho visto che stavano agguantando uno. Proprio vicino al marciapiede, esattamente sotto la mia finestra, una quindicina di celerini gli sono saltati addosso e hanno cominciato a picchiarlo con una furia incredibile. Avevano fatto cerchio sopra di lui tanto che non si vedeva più, ma dai gesti dei celerini si capiva che dovevano colpirlo sia con le mani che con i piedi, sia con i calci dei fucili. Ad un tratto alcuni celerini sono scesi dalle camionette lì davanti, e sono intervenuti sul gruppo di quelli che picchiavano, dicendo frasi di questo tipo: “Basta, lo ammazzate!”. È successo un po’ di tafferuglio fra i due gruppi di poliziotti. Poi uno che sembrava un graduato è entrato nel mezzo e con un altro celerino lo hanno tirato su. Solo in quel momento l’ho potuto vedere in faccia, perché teneva la testa ciondoloni sulla schiena. Aveva i capelli neri, gonfi e ricciuti e aveva la carnagione scura. Lo hanno poi trascinato verso le camionette mentre il graduato gli dava ancora qualche schiaffetto per rianimarlo»
Serantini venne condotto alla caserma Mameli. Qui lo videro altri manifestanti arrestati: «Verso le dieci», disse nella sua testimonianza Giovanni Rondinelli, riportata da Stajano, «è arrivato Franco: si è messo a sedere in un banco da solo e con la testa abbassata sul piano di legno. Verso le 11 ci hanno spostato in uno stanzone e Franco si è subito messo a sedere per terra. Mi sembrava che stesse molto male ed era bianco in faccia». Serantini venne portato al carcere don Bosco. Stava molto male eppure nessuno sembrava accorgersene. Giovanni Mandoli, un altro testimone, disse:
«Mi trovavo in custodia preventiva fin dal 16 aprile. Verso le 8.30-9 di sabato mattina scesi al pianterreno, nel braccio di sinistra per chi entra nel carcere e, dallo spioncino, vidi Franco Serantini che teneva la testa reclinata su un braccio appoggiato su una mensola metallica, infissa nel muro sotto la finestra. La testa era rivolta verso questo muro ed io potevo osservarlo di fianco. Avevo intenzione di dargli delle sigarette, ma vi rinunciai convinto che dormisse. Al termine dell’ora d’aria, mi pare verso le 11, ripassai dalla cella di Franco e dallo spioncino lo rividi nella stessa posizione di prima. Convinto che stesse ancora dormendo, mi allontanai verso la mia cella. Successivamente, sempre nella giornata di sabato, ho rivisto Franco mentre usciva di cella sorretto da due guardie. Trascinava le gambe ed aveva la testa reclinata sul petto».
Il giorno dopo, alle 12.30, Franco Serantini venne interrogato dal magistrato Giovanni Sellaroli. Stava visibilmente male, non riusciva a tenere su la testa, rispondeva tenendo il capo sul tavolo. Sellaroli sostenne di aver ordinato la visita medica per il giovane, che però fu portato in infermeria solo alle 16.30, quattro ore dopo essere stato interrogato e 15 ore dopo essere entrato in carcere. Il medico del carcere riscontrò ecchimosi e contusioni. Non lo fece però ricoverare né ordinò radiografie: consigliò solo “borsa del ghiaccio in permanenza”.
Franco Serantini fu riportato in cella, passò un infermiere a cambiargli la borsa del ghiaccio e disse al compagno di cella di reggergliela lui sulla testa, perché da solo non ci riusciva. Di notte si lamentò molto, alle 8.30 del mattino aveva la bava alla bocca e, come disse il compagno di cella, «aveva la faccia da morto». In sala operatoria gli vennero fatte iniezioni di coramina, lobelina e una intra-cardiaca di adrenalina. Alle 9.45 del 7 maggio fu dichiarato morto. Il certificato parlò genericamente di emorragia cerebrale.
Nell’ottobre del 1972 venne depositata la perizia medico legale sulle cause della morte. Fu stabilito che era sopraggiunta «per insufficienza cardio-circolatoria causata da un gravissimo quadro pluricontusivo interessante la regione cefalica, il tronco, gli arti». E ancora: «le lesioni riscontrate sul cadavere sono tutte dovute all’azione di corpi contundenti».
Il medico del carcere Don Bosco di Pisa, Alberto Mammoli, ricevette un avviso di procedimento per omicidio colposo. Amerigo Albini e Vincenzo Lupo, capitano e maresciallo di polizia, e la guardia Mario Colantoni, furono indagati «per aver affermato il falso e taciuto ciò che era a loro conoscenza per assicurare l’impunità agli agenti responsabili dell’omicidio di Franco Serantini».
Nel maggio del 1975 il giudice dichiarò «di non doversi procedere in ordine al delitto di omicidio preterintenzionale in persona di Serantini Franco per esserne ignoti gli autori». Lupo e Mammoli furono prosciolti, Albini e Colantoni condannati a sei mesi e dieci giorni con la condizionale.
Nel marzo del 1977 Alberto Mammoli fu ferito alle gambe da colpi di pistola; l’attentato venne rivendicato dal gruppo armato Azione Rivoluzionaria.
Nel 1982 a Pisa, davanti all’istituto Thouar in piazza San Silvestro, è stato posato un monumento in ricordo di Franco Serantini.