Il giorno che cambiò la Turchia
Cinque anni fa fallì il colpo di stato contro Erdoğan, che con la successiva repressione inaugurò una nuova fase della sua presidenza
La sera del 15 luglio del 2016 in Turchia una parte dell’esercito tentò di mettere in atto un colpo di stato contro il presidente Recep Tayyip Erdoğan. Bloccò le due principali città del paese, Istanbul e la capitale Ankara, bombardò il parlamento, prese in ostaggio il capo delle forze armate e cercò di catturare anche Erdoğan, che sfuggì di poco.
L’operazione si rivelò peggio organizzata del previsto. I golpisti erano una minoranza nell’esercito e poco coordinati, e nel giro di qualche ora le forze fedeli a Erdoğan riuscirono a recuperare il controllo della situazione: il tentativo di rovesciare il governo cominciò la sera del 15 luglio e finì il giorno dopo alle primissime ore del mattino. Nonostante questo, più di 250 persone furono uccise – in gran parte cittadini che durante la notte erano scesi in piazza a sostegno di Erdoğan – e oltre 2.000 rimasero ferite.
Soprattutto, dopo il colpo di stato la Turchia è cambiata in maniera profonda.
Erdoğan, che pure del colpo di stato fu la vittima, ne approfittò per liberarsi dei suoi nemici interni: accusò Fethullah Gülen, un suo ex alleato diventato avversario politico, e la sua organizzazione di aver messo in piedi l’operazione, e cominciò una campagna di eliminazione delle minacce interne che ha portato all’arresto di centinaia di migliaia di persone e al licenziamento di altre centinaia di migliaia da incarichi pubblici nell’esercito, nell’istruzione e nel sistema giudiziario: molti di questi avevano poco o niente a che fare con il colpo di stato. Gli arresti e le condanne non si sono mai interrotti davvero, e ancora ad aprile di quest’anno decine di persone sono state condannate all’ergastolo.
La politica turca è cambiata: Erdoğan si è rafforzato e ha cominciato ad adottare misure sempre più autoritarie, che hanno portato tra le altre cose all’arresto di noti membri dell’opposizione. Sono cambiate anche l’economia del paese e la sua politica estera, che si è spostata sempre più lontana dalla NATO, di cui la Turchia è membro, e vicina a paesi come la Russia e la Cina.
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Golpe
Il colpo di stato cominciò la sera del 15 luglio con un’operazione di un gruppo di militari coordinati da alte cariche dell’esercito, della marina e dell’aviazione. I golpisti quasi in contemporanea bloccarono alcune vie di comunicazione strategiche ad Ankara e a Istanbul (dove furono chiusi due ponti sul Bosforo, cioè lo stretto che divide la città), presero il controllo di alcune basi militari e degli aeroporti e arrestarono gli alti comandi delle forze armate fedeli al governo. La gran parte dei golpisti faceva parte dell’aviazione, e i jet e gli elicotteri da guerra furono i mezzi principali delle operazioni militari.
I golpisti presero il controllo anche delle sedi di alcune emittenti televisive, e trasmisero un messaggio in cui annunciavano che il “Concilio per la pace nella patria” aveva preso il potere e imposto la legge marziale. Il Concilio, diceva il comunicato, avrebbe ristabilito l’ordine nel paese e approvato il prima possibile una nuova Costituzione.
Nei primi momenti del colpo di stato, le condizioni di Erdoğan erano ignote. Il presidente si trovava in vacanza a Marmaris, una località balneare nel sud-ovest della Turchia, e la sera del 15 in molti temettero che fosse stato arrestato dai golpisti, o addirittura ucciso.
Nelle primissime ore sembrò che il colpo di stato stesse avendo successo, ma le cose si ribaltarono nel giro di poco. I golpisti avevano sì tentato di arrestare Erdoğan nella sua villa a Marmaris, ma lui era riuscito a fuggire prima del loro arrivo e si era imbarcato sull’aereo presidenziale per tornare a Istanbul. Poco dopo le 21 si collegò in diretta con una giornalista di CNN Turchia tramite una videochiamata su FaceTime: quelle immagini sono rimaste come uno dei momenti più incredibili del tentato golpe.
In videochiamata con CNN, Erdoğan rassicurò i turchi sul fatto che era vivo, disse che stava arrivando a Istanbul e chiese a tutti i cittadini di scendere in strada per contrastare i golpisti e difendere la democrazia. A quel punto il colpo di stato era ormai fallito, anche se i combattimenti proseguirono ancora per alcune ore. Migliaia di persone scesero in strada e affrontarono direttamente le forze dei golpisti, che spararono sulla folla usando perfino i jet da combattimento.
Verso le 23 e 30 i golpisti arrivarono a bombardare il palazzo del parlamento ad Ankara, ma nelle ore successive la parte dell’esercito fedele a Erdoğan riconquistò tutte le postazioni tenute dai golpisti. Nelle città, in alcuni casi contribuirono anche i cittadini: in un ponte sul Bosforo, a Istanbul, i militari golpisti furono malmenati dai turchi arrabbiati.
Poco dopo la mezzanotte Erdoğan atterrò a Istanbul, e verso l’una apparve davanti a un gruppo di persone che si erano radunate per acclamarlo. Incitò i turchi a rimanere in strada a presidiare finché la situazione non si fosse stabilizzata, e disse che dopo questo tentativo di colpo di stato avrebbe «fatto pulizia» tra i ranghi dell’esercito.
Nel frattempo, le ultime postazioni dei golpisti venivano riconquistate dalle forze armate fedeli a Erdoğan. Verso le 5 del mattino del 16 luglio era riconquistato il quartier generale dell’esercito e liberato il capo delle forze armate, Hulusi Akan. Per le 9 ormai era tutto finito.
Fallimento
Per chi conosce un po’ di storia turca dell’ultimo secolo, l’aspetto peculiare non è che il 15 luglio del 2016 ci sia stato un colpo di stato militare in Turchia, ma che il colpo di stato sia fallito.
Fin dall’inizio del Novecento, infatti, l’esercito turco è sempre stato l’istituzione dominante nel paese, il cui compito era quello di preservare l’ordinamento rigidamente secolare imposto dal fondatore della repubblica turca, Kemal Atatürk. Nella seconda metà del Novecento, i colpi di stato dell’esercito contro i governi civili che tentavano di discostarsi anche di poco dall’ortodossia kemalista sono stati numerosi. Tra il 1960 e il 1997 l’esercito provocò la caduta di quattro governi eletti, in alcuni casi senza nemmeno il bisogno di usare le truppe: bastava minacciare un colpo di stato per provocare dimissioni di massa dell’intero esecutivo.
La ragione principale del fallimento del colpo di stato del 2016 è che era eccezionalmente mal organizzato. Benché l’operazione godesse del sostegno di numerosi alti ranghi delle forze armate, i militari golpisti erano relativamente pochi, e il grosso delle truppe che partecipò all’operazione era costituito da reclute che non avevano davvero idea di quello che stava succedendo: come emerse in seguito nei processi, fu detto loro che stavano compiendo attività antiterrorismo. L’operazione fu poi definitivamente destinata all’insuccesso quando i golpisti fallirono nel catturare Erdoğan.
Contribuì al fallimento anche la divisione inedita all’interno delle forze armate tra i sostenitori del colpo di stato e i sostenitori di Erdoğan: era la prima volta che l’esercito non agiva in pubblico in maniera unita, e questo per molti fu un segnale del fatto che, indebolito negli anni precedenti di governo di Erdoğan, l’esercito non era più la forza temibile e formidabile di un tempo.
Repressione
Erdoğan cominciò a dire che il colpo di stato era opera di una “struttura parallela” e a promettere che le organizzazioni dietro all’operazione sarebbero state smantellate fin dalla sua videochiamata con la CNN Turchia nella notte del 15 luglio. Le purghe del governo cominciarono in maniera quasi immediata: nella tarda mattinata del 16 luglio, quando i combattimenti erano appena finiti, il governo annunciò la rimozione dal loro incarico di 2.745 giudici, i primi di centinaia di migliaia di funzionari pubblici che da quel momento avrebbero perso il posto di lavoro perché sospettati di avere legami anche soltanto tenui con i golpisti.
In breve tempo Erdoğan scaricò tutta la colpa dell’operazione contro di lui sull’organizzazione di Fethullah Gülen, un suo ex alleato che qualche anno prima si era rifugiato negli Stati Uniti, e che effettivamente guidava un’organizzazione di carattere politico-religioso molto ben radicata all’interno dell’amministrazione pubblica, del sistema giudiziario e dell’esercito. Gülen e la sua organizzazione avevano contribuito all’ascesa al potere di Erdoğan, ma dopo qualche anno i due erano diventati avversari politici, e da qualche anno in Turchia era in corso una guerra sotterranea tra fedeli a Erdoğan e gulenisti per il controllo degli apparati dello stato.
Gli esperti oggi ritengono che l’organizzazione di Gülen abbia avuto un ruolo nel colpo di stato, anche se non è possibile definire il livello di coinvolgimento. Ad ogni modo, il governo ribattezzò l’organizzazione come FETÖ (Organizzazione terroristica di Fethullah) e cominciò a perseguitarla a tutti i livelli.
Tra il 2016 e oggi, secondo dati del ministero dell’Interno turco, sono state arrestate 312 mila persone sospettate di avere collegamenti con il colpo di stato o con l’organizzazione di Gülen. Di queste, 99 mila sono state rinviate a giudizio, ma ancora pochi processi sono arrivati alla conclusione: finora sono state condannate all’ergastolo circa 3.000 persone, e 4.890 sono state condannate con pene meno severe.
Sono stati rimossi dal loro incarico 23.364 membri delle forze armate, oltre che quasi 4.000 giudici e procuratori. Più di 100 mila funzionari della pubblica amministrazione sono stati licenziati o sospesi perché sospettati di essere gulenisti.
Conseguenze
Il 15 luglio in Turchia è ormai una giornata di commemorazione nazionale: tutti gli anni nel paese si tengono grossi eventi, concerti e manifestazioni sportive per ricordare le numerose vittime civili del colpo di stato e celebrare l’eroismo della nazione. Tra le altre cose, quest’anno è uscito anche un film – “15/7: Le Prime Luci dell’Alba” – che ricostruisce la notte del colpo di stato con toni molto carichi e drammatici.
Secondo molti esperti come per esempio Gareth Jenkins, un analista che è stato intervistato da France 24, Erdoğan non soltanto ha approfittato del colpo di stato per avviare una grande opera di repressione, ma ne ha fatto anche il mito fondativo della “Nuova Turchia”, un concetto propagandistico spesso citato dal presidente e dalle persone a lui vicine per indicare in Erdoğan un nuovo padre della patria, dopo Atatürk.
Il colpo di stato ha fornito a Erdoğan la giustificazione per rendere i suoi metodi di governo sempre più autoritari e per perseguitare anche quella parte dell’opposizione che non aveva niente a che vedere con il colpo di stato, come per esempio i partiti e le formazioni curde. L’influenza di Erdoğan cominciò a estendersi anche all’economia, con risultati piuttosto scadenti.
Cambiò anche la politica estera della Turchia. Erdoğan accusò gli alleati occidentali di non averlo sostenuto nella notte del colpo di stato: in realtà non era vero e i messaggi di sostegno al governo democraticamente eletto arrivarono quasi subito sia da parte degli Stati Uniti sia da parte dell’Unione Europea, anche se, effettivamente, nelle settimane successive gli alleati si rifiutarono di accettare pienamente la retorica bellicosa di Erdoğan e di sostenere la sua enorme operazione di repressione.
In ogni caso, Erdoğan approfittò del momento per riallineare la posizione internazionale della Turchia: un po’ più lontana dalla NATO (di cui comunque rimane membro) e un po’ più vicina a Cina e Russia. Soprattutto con quest’ultima, negli ultimi anni la Turchia ha avviato una relazione di intensa competizione e collaborazione in diversi campi, con l’obiettivo di spartirsi le zone di influenza nella regione.
Internamente, benché la repressione contro i presunti membri dell’organizzazione di Gülen vada avanti ormai da cinque anni, Erdoğan sostiene che ci sia ancora lavoro da fare: «Continueremo a inseguire [l’organizzazione di Gülen] finché il suo ultimo membro non sarà stato neutralizzato», ha detto questa settimana.