Non sappiamo stare senza caffè
L’assunzione di caffeina è così radicata nelle abitudini degli esseri umani da renderne di fatto invisibili gli effetti, che invece sono parte integrante della nostra normale coscienza
Fin dall’inizio della loro storia sulla Terra, attraverso una presumibilmente lunga e pericolosa serie di prove ed errori, gli esseri umani hanno fatto uso delle piante per diversi motivi, dall’alimentazione alla medicazione. Di tutte le molte ragioni per cui ricorriamo ai vegetali, una delle più curiose e affascinanti riguarda l’uso che ne facciamo per cambiare il nostro stato di coscienza e la qualità delle nostre esperienze. Nel tempo, abbiamo individuato in natura una molecola – tra le tante altre – che sembrava intensificare quella normale coscienza quotidiana: la caffeina presente nei semi del caffè e nelle foglie del tè.
Ci sono state occasioni in cui, sia in Europa che nel mondo arabo, le autorità hanno messo al bando il caffè perché consideravano una minaccia politica le persone che si riunivano per berlo. Oggi, a differenza di altre molecole come la morfina (ricavata dal papavero da oppio) o la mescalina (dal peyote), la caffeina è legale praticamente dappertutto. In pochi la considerano una “droga”, né il consumo quotidiano di caffè è generalmente inquadrato nei termini clinici di una dipendenza. Essere sotto l’effetto della caffeina è un’esperienza talmente generalizzata e condivisa, che è difficile avere una consapevolezza piena dell’alterazione che produce sulla nostra coscienza di base.
Michael Pollan – apprezzato giornalista scientifico statunitense, docente di giornalismo all’Università di Berkeley e scrittore di libri di successo sulla nutrizione, sull’igiene alimentare e sulle sostanze psicoattive – si è recentemente occupato dell’impatto psicosociale delle piante che alterano la mente, tra cui la caffeina, nel libro This Is Your Mind on Plants: Opium-Caffeine-Mescaline, da poco pubblicato dall’editore americano Penguin.
La maggior parte delle molecole prodotte dalle piante che alterano la mente, scrive Pollan, va considerata prima di tutto come uno strumento di difesa della pianta stessa. Alcaloidi come la caffeina sono tossine dal sapore amaro che dovrebbero scoraggiare gli animali dal mangiare le piante che le producono, al punto da provocare un avvelenamento nel caso di un’eccessiva ingestione. Ma alcune di queste molecole psicoattive, che si erano inizialmente sviluppate come veleni, si sono a volte evolute in sostanze che attraevano gli animali anziché respingerli. Studiando il comportamento delle api, per esempio, alcuni ricercatori hanno scoperto che erano più attirate da alcune piante che producono caffeina nel loro nettare, nonostante questo fosse meno nutriente rispetto al nettare di altre piante.
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In sostanza, concludeva quello studio, la caffeina serviva a rendere più acuto e vivido il ricordo che le api avevano di quelle piante, e le rendeva impollinatrici più “fedeli”, più efficienti e più laboriose. «Più o meno quello che la caffeina fa a noi», scrive Pollan. Una volta scoperto l’effetto di quelle molecole, prosegue, gli esseri umani hanno straordinariamente ampliato la distribuzione naturale delle piante che ne producono le maggiori quantità. Da quel momento in poi la storia di quelle piante e quella degli esseri umani si sono intrecciate in modo permanente. «Quella che era iniziata come una guerra si è evoluta in un matrimonio».
Su suggerimento degli esperti da lui consultati per scrivere il libro, Pollan ha sospeso per tre mesi il suo consumo quotidiano di caffè e tè, per poi riprendere, in modo da ottenere impressioni personali e dirette sui sintomi dell’astinenza da caffeina. Tra quegli esperti c’è Roland Griffiths della Johns Hopkins School of Medicine, uno dei ricercatori da tempo impegnati nello studio della dipendenza da caffeina. Diverse sue ricerche sono oggi considerate essenziali per la definizione e la diagnosi psichiatrica dell’“astinenza da caffeina”, inclusa nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5).
Si stima che circa il 90 per cento della popolazione adulta americana assuma regolarmente caffeina, circa 200 mg di media al giorno. E l’Unione Europea ha uno dei consumi medi annui pro capite più alti al mondo (poco più di 5 chilogrammi di caffè per persona all’anno). Questi dati, scrive Pollan, rendono la caffeina «la droga psicoattiva più utilizzata al mondo» e anche l’unica che diamo abitualmente ai bambini, in genere sotto forma di bevande gassate: essere sotto effetto di caffeina, in un modo o in un altro, «è semplicemente diventata la coscienza umana di base».
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Tra i sintomi più comuni associati all’astinenza da caffeina, alcuni dei quali confermati dallo stesso Pollan durante il suo periodo senza tè né caffè, ci sono mal di testa, affaticamento, letargia, difficoltà di concentrazione, diminuzione della motivazione e irritabilità. La prima tazzina di caffè o tazza di tè che beviamo durante il giorno, spiega Pollan, è un’esperienza con effetti particolarmente evidenti non tanto per le proprietà stimolanti della bevanda quanto per il fatto che quella bevanda arriva a sopprimere i sintomi emergenti dell’astinenza. Il meccanismo d’azione della caffeina è talmente sincronizzato con i ritmi del corpo umano che la prima tazzina di caffè arriva in tempo per neutralizzare il disagio mentale messo in moto dall’ultima tazzina del giorno precedente. «La caffeina si propone quotidianamente come la soluzione ottimale al problema che la caffeina crea», scrive Pollan.
«Mi sento come una matita non temperata», ha detto Pollan di aver appuntato una mattina sul suo taccuino, durante una delle prime giornate senza caffeina. Non aveva proprio un mal di testa ma era come avvolto da un torpore, ha spiegato: «come se nello spazio tra me e la realtà fosse calato un velo». Pollan ha detto di aver cominciato a sentirsi meglio con il passare dei giorni ma di non aver mai del tutto perso quell’impressione di un «filtro che assorbiva certe lunghezze d’onda della luce e del suono». Ha avuto una percezione molto chiara, inoltre, di quanto la caffeina sia parte integrante del nostro lavoro quotidiano di ripristino dello stato di coscienza dopo il sonno, un’operazione che gli ha richiesto molto più tempo del solito.
Secondo Pollan, caffè e tè hanno determinato un cambiamento significativo nel «tempo mentale» dell’umanità. Hanno affinato le menti annebbiate dagli effetti dell’alcol e – insieme alla luce artificiale – hanno liberato le persone dai ritmi naturali del corpo legati alla luce diurna, «rendendo così possibili nuovi tipi di lavoro e, probabilmente, anche nuovi tipi di pensiero».
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Già all’epoca della sua prima diffusione nell’Africa orientale e nella penisola arabica, intorno al XV secolo, il caffè fu utilizzato da alcune popolazioni e dai sufi nello Yemen come una bevanda utile a favorire la concentrazione e impedire ad alcuni di appisolarsi durante l’osservazione delle pratiche religiose. Nel giro di un secolo, migliaia di caffetterie furono aperte in tutto il mondo arabo: nella sola Costantinopoli, nel 1570, ce n’erano oltre 600.
Pollan osserva quanto il mondo islamico fosse all’epoca più avanzato dell’Europa sotto molti aspetti, dalla scienza alla tecnologia. «Se questa fioritura mentale avesse qualcosa a che fare con la prevalenza del caffè è difficile da dimostrare», scrive Pollan, che tuttavia aggiunge, citando lo storico tedesco Wolfgang Schivelbusch: il caffè «sembrava fatto su misura per una cultura che proibiva il consumo di alcol e che ha dato vita alla matematica moderna». Nel Settecento, il consumo di caffè diventò una pratica largamente diffusa in Inghilterra e in Europa attraverso le coffee house, sale in cui gli aristocratici si riunivano non soltanto per bere caffè ma anche per la consultazione gratuita di giornali, libri e riviste.
Le conversazioni nelle sale da caffè londinesi si concentravano spesso sulla politica, e quegli appassionati e vigorosi «esercizi di libertà di parola», scrive Pollan, suscitarono l’insofferenza del governo, specialmente dopo che la monarchia fu restaurata, nel 1660. Carlo II d’Inghilterra, temendo che le coffee house fossero luoghi particolarmente adatti a ospitare fomentatori di rivolte, le fece chiudere nel 1675 per «disturbo della quiete e della pace del Regno». Ritirò tuttavia quella proclamazione dopo appena undici giorni, «per compassione reale», una volta preso atto dell’inosservanza diffusa di quel divieto e del rischio che indebolisse la sua autorità.
«Come tante altre sostanze che modificano le qualità della coscienza negli individui, la caffeina era considerata una minaccia al potere istituzionale, che si mosse per sopprimerla, in un presagio delle future guerre contro la droga», osserva Pollan.
Colto dal sospetto che una parte delle sensazioni da lui provate durante l’astinenza da caffeina potesse essere frutto di suggestioni, Pollan ha consultato poi diversi studi trovando conferma a quelle sue impressioni. Nella vasta letteratura scientifica su questo argomento, la caffeina è più o meno uniformemente descritta come una sostanza in grado di migliorare le prestazioni psicomotorie e cognitive. In un esperimento degli anni Trenta, citato da Pollan nel libro, i giocatori di scacchi che assumevano caffeina avevano prestazioni significativamente migliori rispetto agli altri giocatori. In un altro esperimento, del 2014, i soggetti a cui era stata somministrata della caffeina apprendevano nuove informazioni meglio dei soggetti a cui era stato somministrato un placebo.
Se invece la caffeina sia utile a migliorare la creatività, è una questione diversa e dibattuta, e secondo Pollan ci sono validi motivi per dubitarlo. Questo perché la creatività funziona in modo diverso, spiega, e può anzi dipendere proprio dalla perdita di un certo tipo di concentrazione e dalla capacità di «liberare la mente dal guinzaglio del pensiero lineare». In psicologia cognitiva, gli scienziati distinguono due tipi di coscienza: la “coscienza-faro” (spotlight consciousness), cioè quella che si concentra su un singolo punto focale alla volta, e la “coscienza-lanterna” (lantern consciousness), molto presente nei bambini e spesso associata agli psichedelici, in cui l’attenzione è meno focalizzata ma si estende su un campo più ampio.
Proprio questa capacità della caffeina di migliorare il primo tipo di attenzione, sostiene Pollan, la rese rapidamente una «droga perfetta non soltanto per l’età della ragione e dell’Illuminismo» ma anche per l’ascesa del capitalismo e per la Rivoluzione industriale, un processo storico «difficile da immaginare» senza considerare gli effetti procurati dalla caffeina del tè e del caffè sui lavoratori. Il tè e il caffè permettevano alla classe operaia britannica di sopportare lunghi turni di lavoro, pessime condizioni di lavoro e una fame più o meno costante. La caffeina aiutava ad allontanare i morsi della fame e lo zucchero contenuto nelle bevande diventava una fonte cruciale di calorie.
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Pollan si è infine chiesto se per questo miglioramento delle prestazioni e per questa energia fisica e mentale resa disponibile dalla caffeina non ci sia un prezzo da pagare, e conclude: «ahimè, niente pasto gratis». La caffeina agisce bloccando l’azione dell’adenosina, una molecola prodotta e accumulata gradualmente nel cervello, i cui livelli sono monitorati attraverso i recettori del sistema nervoso. Superata una certa soglia, i livelli di adenosina ci inducono a riposare, ed è qui che la caffeina interferisce con il processo. Ci fa sentire vigili, spiega Pollan, ma intanto i livelli di adenosina continuano ad aumentare e alla fine, quando la caffeina viene metabolizzata, l’adenosina inonda i recettori. E la stanchezza ritorna.
Nella comunità scientifica, osserva Pollan, c’è un generale e rassicurante consenso riguardo agli effetti non dannosi di un consumo moderato di caffeina. Se non assunti in eccesso, tè e caffè possono anzi apportare benefici per la salute: il consumo regolare di caffè è associato a un ridotto rischio di diversi tipi di cancro, malattie cardiovascolari, diabete di tipo 2, morbo di Parkinson, demenza e altre patologie. Pollan cita tuttavia gli studi di Matthew Walker, un neuroscienziato inglese dell’Università di Berkeley, autore di una serie di studi che mettono in relazione gli effetti della caffeina e la scarsa quantità e qualità del sonno.
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Una quantità insufficiente di sonno, secondo Walker, rappresenta un fattore di rischio per lo sviluppo di malattie come Alzheimer, arteriosclerosi, ictus, insufficienza cardiaca, depressione e obesità. Gli studi di Walker indicano che, per la maggior parte delle persone, gli effetti della caffeina sono generalmente ancora presenti anche 12 ore dopo l’assunzione di tè e caffè. Il 25 per cento della caffeina contenuta in una tazza di caffè presa a mezzogiorno, calcola Walker, è ancora in circolo a mezzanotte. E questo può compromettere la qualità e la quantità del sonno.
Molti altri fattori contribuiscono a farci dormire meno e peggio di quanto sarebbe opportuno dormire, fa notare Pollan, citando l’alcol, le medicine, gli orari di lavoro, l’inquinamento acustico e luminoso, e l’uso di schermi e display fino a tardi. Ma tra tutti questi fattori, aggiunge, la caffeina è l’unico a essere sia una concausa della privazione del sonno sia la sostanza a cui ricorriamo per cercare di rimediare al problema del sonno “perso” nella notte precedente: in un certo senso, «la caffeina aiuta a nascondere alla nostra consapevolezza il problema stesso che la caffeina crea».
Al momento di terminare il suo esperimento, Pollan è tornato nella caffetteria vicino casa e ha bevuto un doppio espresso macchiato, «incredibilmente buono», dopo mesi di decaffeinati e tisane. «Tutto nel mio campo visivo sembrava piacevolmente in corsivo, filmico, e mi chiedevo se tutte queste persone con le loro tazze di cartone avessero idea di quale potente droga stessero sorseggiando».