La storia del «genocidio culturale» dei popoli indigeni del Canada
Le recenti scoperte di grandi fosse comuni di bambini hanno riaperto il dibattito sulla storia coloniale del paese e sulla sua eredità
Nelle ultime settimane in Canada sono state scoperte centinaia di tombe anonime in diverse fosse comuni ritrovate nei pressi di tre ex collegi per indigeni, quelli che in inglese vengono chiamati Indian Residential School, molto diffusi tra l’Ottocento e il Novecento e gestiti prima dalla Chiesa cattolica e poi dallo stato. I ritrovamenti hanno riportato l’attenzione internazionale sulla storia di oppressione vissuta dai popoli indigeni in Canada, e hanno riaperto il dibattito sul trattamento che subirono da parte dei discendenti dei coloni, che misero in atto un’assimilazione forzata e violenta della cultura autoctona di cui proprio i collegi cattolici furono uno dei principali strumenti.
In realtà in Canada il dibattito è in corso da anni ed è portato avanti anche a livello ufficiale. Le iniziative con le quali il governo canadese ha riconosciuto il «genocidio culturale» subìto dai popoli indigeni sono state molte, e le prime scuse pubbliche rivolte ai sopravvissuti dei collegi arrivarono nel 2008, quando era primo ministro il conservatore Stephen Harper.
Negli anni successivi venne costituita la Truth and Reconciliation Commission (“Commissione per la verità e la riconciliazione”), che pubblicò un rapporto esteso e dettagliato sulla questione dei collegi. Tuttavia i rappresentanti dei gruppi indigeni ritengono che il percorso per una vera riconciliazione sia ancora lungo, anche viste le ultime scoperte.
I popoli indigeni abitano il territorio canadese da migliaia di anni prima che venisse esplorato e colonizzato dagli europei. Generalmente, vengono distinti in tre grandi gruppi: le Prime Nazioni, gli Inuit e i Métis (“meticci”). Anche se all’interno di questi gruppi esiste una grandissima varietà di popolazioni distinte, con usi, costumi, lingue e tradizioni diverse, si può dire che le tribù delle Prime Nazioni sono storicamente stabilite nella parte più meridionale del territorio canadese, a sud della cosiddetta linea degli alberi (quella al di sopra della quale non ci sono le condizioni climatiche perché gli alberi crescano); gli Inuit – termine che letteralmente significa “popolo” – abitano invece la regione artica; i Métis si distinguono perché abitano la parte più occidentale del Canada e hanno, come suggerisce il nome, una discendenza mista tra europei e indigeni.
I primi contatti con i popoli europei avvennero nell’XI secolo, quando i norreni si spinsero fino all’America del Nord partendo dalla Scandinavia. Ma gli insediamenti coloniali più estesi e strutturati cominciarono a partire dal Cinquecento, quando sempre più pescatori europei vennero attirati dai pescosi mari al largo della costa canadese, stabilendo contatti e traffici commerciali con gli indigeni. Il bene più cercato e prezioso per gli europei erano le pellicce. Nel Seicento la competizione tra le monarchie europee nel nuovo continente aumentò, e contestualmente si ingrandirono le colonie in Nord-America. Il Canada ben presto divenne presidio dei francesi, che cominciarono a stabilirsi in quelle che oggi sono le Province marittime, sulla costa orientale.
Nel corso del secolo si creò una rete di traffici commerciali costituita da avamposti territoriali inglesi e francesi, attorno a cui ruotavano gli indigeni che cominciarono ad adattarsi ai nuovi arrivati e a trovare utili le merci che ricevevano in cambio delle pellicce: principalmente armi da fuoco e lavorati in acciaio. Tuttavia, gli interessi economici in ballo portarono spesso anche a scontri armati con gli europei e a rivalità tra inglesi e francesi, che si contendevano il vasto territorio canadese.
Dopo lunghe battaglie – in cui gli indigeni e le Prime Nazioni furono coinvolte per sostenere militarmente gli schieramenti in campo – gli inglesi ebbero la meglio e la Francia dovette rinunciare alle sue pretese territoriali. Nel 1763 la monarchia britannica fece un proclama reale con cui stabiliva le regole e i confini dei rapporti tra le colonie inglesi e le Prime Nazioni. In sostanza, i territori in prossimità della costa orientale erano da considerarsi di competenza inglese, quelli più a occidente degli indigeni. In questo periodo la convivenza non fu troppo problematica, con le Prime Nazioni che spesso partecipavano alle campagne britanniche in virtù di un’alleanza militare.
Le cose cominciarono a cambiare nel secolo successivo, per via dei nuovi coloni che arrivavano dagli Stati Uniti ormai indipendenti e che pretendevano nuove terre dal Regno Unito. Progressivamente ampie porzioni delle terre appartenute agli indigeni furono cedute ai coloni per soddisfare questa domanda, attraverso negoziati che avrebbero dovuto garantire agli indigeni terre sufficienti per sostentarsi ma che invece, di fatto, li costrinsero a stabilirsi dentro a piccole riserve inadatte al loro stile di vita. Le acquisizioni andarono avanti fino a metà Ottocento.
Oltre a cambiare la situazione territoriale degli indigeni, cambiò anche l’approccio che i britannici adottarono nei loro confronti. Se prima erano considerati un valido alleato militare per preservare l’unità delle colonie contro le minacce esterne, con il passare degli anni l’atteggiamento cambiò, anche a causa della situazione più tranquilla a sud grazie alla pace con gli Stati Uniti dopo la guerra del 1812. Gli indigeni ormai non erano più utili alla causa delle colonie, e al contrario erano considerati un ostacolo alla loro espansione. Nel corso dell’Ottocento, quindi, venne a formarsi una mentalità che vedeva lo stile di vita europeo, e in particolare britannico, come superiore rispetto a quello indigeno. Si affermò l’idea che gli indigeni fossero bisognosi di essere “civilizzati”, e che fossero gli inglesi a dover mostrare loro la via per emanciparsi dal semi-nomadismo, dalla caccia e dalla pesca come principali mezzi di sostentamento.
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L’assimilazione culturale divenne il centro delle iniziative dei coloni e cominciò a essere esercitata attraverso una serie di leggi come il Gradual Civilization Act del 1857, che offriva denaro e terreni per gli indigeni a patto che abbandonassero il loro stile di vita e accettassero di alfabetizzarsi secondo i canoni europei.
Ma la legge più rilevante fu quella del 1876, voluta dal dominio federale del Canada formatosi nove anni prima (l’antenato dell’attuale stato del Canada). L’Indian Act, questo il suo nome, fu una delle leggi più emendate e modificate della storia canadese, in senso sempre più restrittivo fino al 1927: allargò il campo in cui l’autorità canadese poteva intervenire, promuoveva l’integrazione e l’assimilazione delle Prime Nazioni, le forzava ad abbandonare i loro usi e costumi e metteva al bando i loro rituali.
Introdusse inoltre il concetto di enfranchisement, attraverso il quale ogni maschio indigeno che avesse superato i 21 anni e che parlasse e scrivesse inglese poteva (e doveva) smettere di essere considerato un indigeno ed entrare a far parte pienamente della comunità britannica, ottenendo cittadinanza e diritto di voto a patto che abbandonasse la propria identità e negasse le proprie origini. Per un certo periodo a questo processo – che comportava anche l’abbandono del proprio nome indigeno – ci si sottoponeva volontariamente, poi nel 1933 divenne automatico per qualunque indigeno che rispettasse i criteri previsti.
Un ruolo rilevante nell’assimilazione culturale degli indigeni lo ebbero le Indian Residential School, che cominciarono a diffondersi a fine Ottocento. Alcune rimasero aperte fino a poco più di vent’anni fa. Al loro momento di massima espansione, questi collegi religiosi costituivano una rete di 132 istituti dove i bambini venivano tenuti in condizioni igieniche spesso al limite della sopravvivenza, costretti a non parlare la loro lingua e a rimanere a migliaia di chilometri dalle proprie famiglie, spesso prelevati con la forza dalle loro case. Tra le altre cose, dovevano convertirsi al cristianesimo e molti di loro venivano picchiati e subivano violenze fisiche e psicologiche. A oggi non ci sono stime precise, ma si pensa che migliaia di loro morirono per malattie, malnutrizione, negligenze o suicidio. Molti morirono nel tentativo di fuggire.
Il governo canadese da anni sta cercando almeno di far riemergere le storie delle sofferenze di molte persone indigene sopravvissute ai collegi. La Truth and Reconciliation Commission (che oggi è diventato un centro di ricerca permanente) ha impiegato sei anni per raccogliere le testimonianze di 6.750 persone, e il suo rapporto del 2015 concluse che il sistema dei collegi per indigeni fu una forma di «genocidio culturale».
Nonostante i progressi, secondo molti rappresentanti dei gruppi indigeni il retaggio delle oppressioni subìte in passato è ancora presente, sotto alcuni aspetti, nell’attuale società canadese. Solamente poche settimane fa, per esempio, è stata introdotta una legge che permette alle persone indigene che avevano dovuto cambiare nome per ottenere un documento ufficiale di assumere di nuovo la loro identità indigena.
Altre limitazioni volte a sopprimere la cultura indigena sono rimaste in vigore fino a pochi decenni fa: è il caso del canto di gola degli Inuit (katajjaq) vietato fino agli anni Ottanta perché la Chiesa la riteneva una pratica satanica. Il canto, che viene eseguito solitamente da due donne che si tengono per le braccia e si sfidano in una gara di resistenza, andò molto vicino all’estinzione nel periodo del divieto. Oggi è conosciuto e tramandato grazie a quattro donne originarie di un piccolo villaggio di nome Puvirnituq, nella baia di Hudson.