Di chi sono le spiagge italiane
Di tutti, anche se da decenni lo stato le dà in concessione a canoni considerati molto bassi se paragonati ai prezzi per ombrellone e lettino
Nel marzo del 2019 l’imprenditore Flavio Briatore disse al Corriere della Sera che secondo lui lo stato avrebbe dovuto rivedere gli affitti delle concessioni balneari perché troppo bassi. Il Twiga Beach Club, noto stabilimento balneare di cui è proprietario, nel 2020 ha avuto un giro d’affari di quattro milioni di euro a fronte di canone di concessione da 17.619 euro versato allo stato. «Credo che centomila sarebbe un prezzo giusto», spiegò Briatore. «Io credo che se lo Stato mettesse due omini a controllare le metrature degli stabilimenti balneari e facesse un prezzo equo incasserebbe molti, molti soldi».
Nonostante molte reazioni di indignazione seguite alle parole di Briatore, negli ultimi due anni lo stato ha confermato la proroga delle concessioni fino al 2033, approvata nel 2018 dal primo governo guidato da Giuseppe Conte, sostenuto dalla Lega e dal Movimento 5 Stelle. In mancanza di nuove gare per l’assegnazione, i canoni continuano a rimanere gli stessi da anni: lo stato continua a incassare poco, senza garantire il confronto competitivo per il mercato.
Gli stabilimenti balneari occupano spiagge e tratti di costa che sono parte del demanio pubblico, una proprietà dello stato che non può essere venduta, ma data in concessione.
Come segnala il report “Spiagge 2020”, realizzato da Legambiente, complessivamente si può stimare che almeno il 42% delle coste sabbiose sia occupato da stabilimenti balneari. In Liguria ed Emilia-Romagna quasi il 70% delle spiagge è occupato da stabilimenti balneari, in Campania è il 67,7%, nelle Marche il 61,8%. I dati sono molto diversi tra le Regioni e occorre anche considerare la conformazione di alcune di queste. In Veneto, per esempio, l’espansione è limitata dalla grande area del delta del fiume Po, mentre in Liguria incide la morfologia della costa.
Secondo i dati pubblicati dall’autorità garante della concorrenza e del mercato, nel 2019 le concessioni demaniali marittime (date con qualsiasi finalità) erano 29.693 e di queste 21.581 erano state concesse con un canone annuale inferiore a 2.500 euro. Nello stesso 2019, lo stato ha incassato in totale 115 milioni di euro in canoni concessori: una cifra molto contenuta, se paragonata al giro d’affari complessivo degli stabilimenti balneari, che la società di consulenza Nomisma ha stimato in 15 miliardi di euro all’anno.
Questa disparità dura da decenni perché i proprietari degli stabilimenti balneari continuano a godere di rinnovi delle concessioni quasi automatici. In alcuni casi i “bagni” sono gestiti dalla stessa famiglia dall’inizio del secolo scorso, in virtù di un patto non scritto: in cambio di concessioni infinite e affitti molto bassi, le imprese balneari avrebbero investito nelle spiagge costruendo strutture ricettive e incentivando così il turismo. L’obiettivo è stato raggiunto solo in parte: oggi i litorali italiani sono spesso ricchi di servizi, ma i prezzi per lettino e ombrellone sono alti e nelle località più note le spiagge libere sono rare.
Nel 2006, con l’approvazione della “direttiva Bolkestein”, da parte della Commissione europea, questa situazione sarebbe dovuta cambiare. La direttiva stabilì tra le altre cose che le concessioni pubbliche dovessero essere affidate ai privati attraverso gare con regole equilibrate e pubblicità internazionale. In questo modo lo stato avrebbe ottenuto maggiori guadagni senza creare rendite di posizione. I governi italiani che si sono succeduti negli ultimi anni non hanno mai applicato questa direttiva, sostenendo che i suoi effetti fossero troppo ampi e che nel caso delle concessioni balneari avrebbero danneggiato ingiustamente molte imprese.
Dopo che per anni gli effetti della direttiva erano stati prorogati a breve termine, nel 2018 è stata decisa una proroga di 15 anni, fino al 2033, con la motivazione di dare maggiore stabilità e sicurezza alle imprese del settore. Lo scorso anno è stato approvato un emendamento al decreto rilancio che ha rafforzato i termini della proroga al 2033.
Dopo la riforma del titolo V della Costituzione del 2001, la gestione amministrativa del demanio marittimo è passata dallo stato ai comuni, che devono dare in concessione le spiagge seguendo le norme di riferimento statali e regionali. I proventi del canone di concessione vanno in gran parte allo stato e in minima parte ai comuni, mentre le regioni a statuto speciale come Sicilia, Sardegna e Friuli Venezia Giulia trattengono quasi tutto il canone. Negli ultimi mesi molti dei comuni che hanno applicato la proroga delle concessioni al 2033, approvata dal governo nel 2018, hanno ricevuto una diffida dall’autorità garante della concorrenza e del mercato, che ha invitato le amministrazioni a rispettare la direttiva Bolkestein. Ogni diffida ha dato sessanta giorni di tempo per annullare la proroga delle concessioni prima del ricorso al tribunale amministrativo regionale (TAR). A causa di questa controversia giuridica, i comuni sono stati costretti ad affrontare i ricorsi al TAR, sostenendo notevoli spese legali.
Nonostante in tutti i comuni i provvedimenti sulle proroghe siano stati decisi per effetto della decisione del governo, le sentenze dei tribunali amministrativi hanno avuto esiti diversi: in alcuni casi, come in Toscana, è stata data ragione all’autorità garante della concorrenza e del mercato, mentre in altre regioni i ricorsi sono stati respinti. Questo è uno dei motivi che hanno spinto l’associazione dei comuni a chiedere alla presidenza del Consiglio dei ministri un’interpretazione più chiara. A marzo, l’autorità garante della concorrenza ha scritto al presidente del Consiglio Mario Draghi per chiedere la messa all’asta delle concessioni balneari.
Assobalneari Italia, l’Associazione imprenditori turistici balneari, ha chiesto al governo di adottare il modello seguito in Spagna, dove nel 2013 è stata adottata la «Ley de costas» che prevede una proroga da 30 a 75 anni delle concessioni in essere in base alla loro tipologia, senza procedure di evidenza pubblica. «Sono le uniche concessioni che in Italia possono dare certezze al domani di 30mila imprese tra stabilimenti balneari, campeggi, alberghi e porti turistici che danno lavoro a oltre 300mila addetti diretti», ha detto Fabrizio Licordari, presidente di Assobalneari Italia.
Al di là delle concessioni, è bene ricordare che comunque il mare è un bene di tutti e per questo ne va tutelato l’accesso, in quanto è un diritto sancito dalle leggi. Negli ultimi anni cittadini e associazioni hanno protestato contro gli stabilimenti che hanno costruito muri e cancelli per impedire l’accesso e diverse sentenze hanno ribadito che i comuni possono intervenire con tutti i mezzi possibili per garantire il diritto di accesso al mare. A Ostia, per esempio, il Consiglio di Stato ha approvato la decisione del comune che aveva disposto l’utilizzo delle ruspe per aprire varchi nelle recinzioni che impedivano l’accesso alle spiagge.
Un altro diritto spesso dimenticato riguarda la battigia, la striscia di spiaggia dove si infrangono le onde: generalmente l’ampiezza della battigia viene quantificata in cinque metri, ma può essere ridotta fino a tre metri se la spiaggia è troppo piccola. La battigia è uno spazio libero dove tutti possono passare, a prescindere che sia stato affittato un ombrellone nello stabilimento che ha in concessione quel tratto di spiaggia. È possibile sostare temporaneamente sulla battigia per fare il bagno, senza ostacolare il diritto di passaggio di tutte le altre persone, e nessuno può pretendere un pagamento per la sosta temporanea.