Un’altra canzone di Prince
Fuori tempo massimo ma travolgente come le prime
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Angel Olsen, cantautrice di gran culto e stime negli ultimi anni, ha pubblicato una creativa cover di Gloria di Umberto Tozzi (ovvero della sua versione in inglese, quella che allora fu cantata da Laura Branigan): ad agosto uscirà un EP di cover con titoli anni Ottanta ben scelti, e che lei renderà probabilmente assai più inquietanti.
01 Gloria
02 Eyes Without a Face
03 Safety Dance
04 If You Leave
05 Forever Young
La mia poco condivisa simpatia elitista per gli inglesi ha vacillato ieri sera quando quella manica di trogloditi sulle tribune di Wembley ha coperto di boo l’inno danese. Ciò malgrado, vi riproporrò la loro solita canzone di cui dicemmo nella versione della banda del reggimento reale delle Coldstream Guards.
Per rinforzare l’angolino del buonumore, c’è un disco nuovo di Kool & the Gang. Giuro.
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Prince
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So che lo faccio spesso, e mi chiedo altrettanto spesso quanta distanza ci sia tra il mio compiacimento nostalgico a raccontare aneddoti giovanili e il disinteresse di chi li legge: ehi, non ho detto “se ci sia una distanza”, ho detto “quanta”, ok? E non sto fishing for rassicurazioni, ignoratemi tranquillamente. È che in questi giorni sempre su questo sto, realizzo.
Comunque, proprio per esibire sfacciatamente la mia tenacia, inizierò stasera da un’immagine, di io da solo a 19 anni nella casa del ramo dolomitico della famiglia, che pur con un’altezza del tutto inadeguata (la mia, l’altitudine locale sfiora i 1300 metri) tiro verso un canestro in giardino che malgrado le generose intenzioni di mio nonno che lo aveva fatto installare conservò sempre un limite fallimentare, ovvero che il tabellone era stato fissato a un palo inserito in una apposita cavità nel terreno nella quale il palo ruotava ogni volta che il tabellone non veniva colpito sufficientemente al centro, e insomma era impossibile giocare così, col senno di poi. Ma non avevamo esperienza di campetti del Bronx, con mio fratello, e ci adeguammo a quel modo goffo di giocare per anni: vorrei dire che questo pregiudicò la mia carriera nel basket, ma ammetto che anche quella questione dell’altezza può avere avuto la sua parte.
Comunque, era un’estate in cui benchè già diciannovenne mi ero ritrovato ancora da solo coi nonni suddetti nella casa suddetta, e non è che ci si stesse male. Il principale contatto col resto del mondo, nel 1984 pre-web, era la radio Brionvega rossa di mio nonno, che in una valle dolomitica riceveva decentemente sì e no tre stazioni. E quell’estate – un anno memorabile, per la musica – mettevano continuamente When doves cry, una cosa mai sentita per il me di diciannove anni. Il quale non sapeva niente di Prince fino ad allora, benché negli Stati Uniti soprattutto si fosse già fatto riconoscere. Da lì in poi diventatai molto fan, e ricordo la diretta del concerto di Dortmund su Rai Uno come una delle cose televisive più memorabili della mia vita (insieme a quello di Sinatra a Milano), malgrado gli incidenti tecnici (precursori di quello che ci sta capitando in queste settimane a guardare le partite online, col ritardo relativo).
Tutto questo per dire che meno di una decina d’anni dopo la carriera di Prince iniziò a declinare, e non la aiutò che lui si sia voluto rendere indipendente dal grande e potente – allora – business discografico, che è grande e potente e non gliela perdonò. Ma è anche vero che le cose che fece da un certo punto in poi divennero meno speciali, o forse solo inevitabilmente meno “nuove”: e nella mia playlist di Prince non ci sarebbe stato quasi niente successivo al 1990 e figuriamoci dei suoi ultimi anni, se non fosse per questo pezzaccio “trascinante” da giovedì, del 2015, con tutto quello che Prince era stato trent’anni prima opportunamente spolverato e reso luccicante con suoni recuperati dal repertorio degli anni Ottanta.
(era uscito l’anno prima con Zooey Deschanel a cantare il refrain, per la serie New girl, ma va molto più dritta senza di lei, detto con rispetto).
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