Nella piana di Gioia Tauro non cambia mai niente
Per migliaia di lavoratori dell'Africa subsahariana, sfruttati dal caporalato, le condizioni nei campi e nelle tendopoli sono sempre le stesse, terribili
di Stefano Nazzi
Per i braccianti che arrivano dall’Africa subshariana a lavorare dieci ore al giorno nei campi agricoli della piana di Gioia Tauro, in Calabria, non cambia mai niente. Affollano le tendopoli, sia quelle del ministero dell’Interno sia quelle che sorgono spontaneamente in tutta la piana. Altri, tanti, sfuggono a qualsiasi censimento, si rifugiano nei casolari abbandonati tra Rosarno, Palmi, San Ferdinando, Seminara. All’alba si ritrovano in punti precisi dove vengono reclutati dai caporali per paghe da fame. Il recente rapporto del Medu, Medici per i Diritti Umani, sulla situazione nella piana, arrivato al suo ottavo anno, descrive una realtà definita «desolante».
I cumuli di rifiuti si accatastano nelle tendopoli, che poi si trasformano in baraccopoli fatte di fatiscenti costruzioni in lamiera. Gli insediamenti diventano sempre più vasti fino a che non vengono smantellati, per poi essere ricostruiti da un’altra parte. I lavoratori non hanno nessuna assistenza sanitaria se non quella dei volontari e qui le istituzioni sono perlopiù impotenti, spesso commissariate, immobili. I diritti basilari sono quasi sempre negati, nelle baraccopoli manca tutto. Durante le due ondate di Covid-19, molti dei braccianti con sintomi di malattie respiratorie non si sono rivolti ai servizi sanitari per paura di essere isolati e non poter lavorare. Le condizioni di vita e l’impossibilità di distanziamento hanno poi favorito la diffusione dell’epidemia.
Mariarita Peca, referente dei progetti nazionali del Medu, spiega che «paradossalmente quest’anno abbiamo registrato meno malattie legate all’apparato cardiorespiratorio proprio perché i braccianti per paura di perdere il lavoro non segnalavano i loro problemi di salute. Invece le patologie legate allo stile di vita, all’alimentazione inadeguata e alle condizioni di lavoro sono rimaste stabili rispetto agli anni passati. La situazione non cambia».
Lo conferma anche Bartolo Mercuri, fondatore della comunità Il Cenacolo: «Qui la situazione non cambia, e se cambia è in peggio. Già è difficile la vita nelle tendopoli ministeriali, pensate cosa può essere nei casolari abbandonati, nelle baraccopoli che sorgono spontaneamente ovunque». Il Cenacolo da vent’anni si occupa di dare aiuto, cibo, vestiti e – quando può – un rifugio alle migliaia di lavoratori che arrivano nella piana per lavorare negli agrumeti.
Nel 2010, quando ci fu la rivolta dei braccianti sfruttati di Rosarno, sembrava che la situazione dovesse cambiare. In quei giorni centinaia di lavoratori africani sfilarono per le strade di Rosarno. Le ‘ndrine della zona, cioè le cosche della ‘ndrangheta, reagirono a colpi di bastone e di pistola. Poi la situazione si calmò, e tutto riprese come prima secondo una ristabilita normalità criminale. Chi si ribella viene punito: il 2 giugno 2018 Soumalya Sacko, bracciante e sindacalista, fu ucciso a colpi di fucile a San Calogero, in provincia di Vibo Valentia, perché stava portando via pezzi di lamiera da una vecchia fornace per costruire una baracca. A sparare fu un agricoltore che considerava quella fornace sua proprietà, anche se era un terreno abbandonato.
La baraccopoli di San Ferdinando, definita dal Medu «il ghetto più grande d’Europa», dove vivevano più di 2.000 persone, è stata smantellata nel marzo 2019. Anche la Rognetta, l’ex fabbrica dove vivevano in 400, è stata abbattuta. Ma non è stato fatto nulla per dare accoglienza ai lavoratori immigrati. Non c’è più un solo grande ghetto ma ce ne sono tanti, più piccoli, sparsi su tutto il territorio.
«Ci sono poi casi», dice al Post Rocco Borgese, segretario generale della Flai (Federazione lavoratori dell’agroindustria) Cgil della piana di Gioia Tauro, «in cui le tendopoli ministeriali si trasformano in baraccopoli sotto gli occhi di tutti. È successo nella seconda zona industriale di San Ferdinando. Si continua a operare di emergenza in emergenza, mentre noi chiediamo interventi strutturali e cioè che vengano abbattute le baraccopoli ma che poi si diano alloggi dignitosi ai ragazzi lavoratori».
Ogni tanto con una retata vengono arrestati i cosiddetti caporali, anche loro prevalentemente provenienti dall’Africa subshariana. Ricevono ordini da capi italiani, legati alle ‘ndrine della zona. Altre volte la piana attira titoli dei giornali perché i lavoratori muoiono negli incendi delle baraccopoli (si usano solo fornelli da campo, e d’inverno ci si riscalda con i falò), o lungo la strada mentre raggiungono i campi. L’ultimo caso risale al 21 dicembre 2020, quando Gassama Gora, un giovane del Mali, morì travolto da un’auto mentre in bicicletta andava a lavorare in un agrumeto. Il guidatore non si fermò a prestare soccorso. Altri tre lavoratori sono stati investiti negli ultimi mesi, ma ci sono incidenti che non vengono registrati perché le vittime non vanno al pronto soccorso per paura di essere espulse.
Secondo il rapporto del Medu ci sono due modalità con cui i braccianti vengono impiegati: lavoro nero e cosiddetto lavoro grigio. Significa che esiste una sorta di contratto, ma spesso senza busta paga e retribuzioni e normative non regolari. La metà dei braccianti censiti dal Medu è in possesso di un contratto, di questi solo la metà ha però una busta paga. Quasi nessuno di loro ha mai un contatto con il datore di lavoro, perché reclutamento, indicazioni sul lavoro da svolgere e consegna della paga avvengono attraverso i caporali.
In quasi tutti i casi le giornate di lavoro registrate sono tra cinque e dieci al mese, ma in realtà i braccianti lavorano nei periodi di raccolta sei o sette giorni alla settimana. Il lavoro non dichiarato viene pagato a cottimo, tra 0,60 e 1,50 euro a cassetta da 25 chili. Solo in due casi, tra quelli registrati dal Medu, il datore di lavoro è stato disponibile alla registrazione di un minimo di 51 giornate lavorative che permettono di richiedere la disoccupazione agricola in periodi di non raccolta.
«Sono aumentati i contratti» dice Mariarita Peca, «e questo è un bene perché così i lavoratori possono fare richiesta dei permessi di soggiorno. Ma poi questi contratti non vengono rispettati o vengono aggirati, le buste paga non riportano i giorni effettivamente lavorati». Il lavoro grigio, spiega Rocco Borgese «significa che a volte il bracciante prende sì i soldi in busta paga, ma poi deve restituirli, o almeno restituirne una parte». In attesa di un permesso di soggiorno o del suo rinnovo, infatti, è ricattabile: «Anche per questo stiamo facendo pressioni perché la Prefettura acceleri con i permessi».
Il contratto nazionale della Flai Cgil prevedere una paga minima lorda di 50-52 euro per i braccianti, che poi diventano circa 41-42 netti. «Ma in realtà», dice Borgese, «questi ragazzi vengono pagati 25 euro al giorno. E non per lavorare sette o otto ore, ma 12 o 13».
L’età media dei lavoratori della piana di Gioia Tauro è di 32 anni. Il 45% di loro arriva dal Mali, il 18% dal Senegal e un altro 18% dal Gambia. Le altre nazioni di provenienza sono soprattutto Ghana e Costa D’Avorio. Il 73% dei braccianti è in Italia da più di quattro anni ma da meno di dieci, il 19% da più di dieci anni e l’8% da meno di tre anni. La maggior parte è richiedente asilo, molti altri godono di protezione sussidiaria, quella che tutela chi non può dimostrare una persecuzione personale ai sensi della Convenzione di Ginevra ma rischia di subire un danno grave nel caso di rientro nel proprio paese. Il 15% di loro ha il permesso di soggiorno per motivi di lavoro e un altro 15% è tra i cosiddetti casi speciali: vittima di violenza, tratta o grave sfruttamento lavorativo.
Il 28 giugno i braccianti africani della piana di Gioia Tauro hanno scioperato per chiedere condizioni di vita e di lavoro dignitose e una lotta più serrata al caporalato, che causa tra l’altro un mancato gettito contributivo in Italia stimato intorno ai 600 milioni di euro l’anno. «Una legge contro il caporalato esiste», dice Rocco Borgese, «è la numero 199 del 2016. Purtroppo però viene spesso elusa. Servono più controlli e più prevenzione».
La legge sul caporalato punisce chi «recluti manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori; utilizzi, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione di cui al precedente punto, sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno». La pena prevista è la reclusione da cinque a otto anni e la multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato.
«Purtroppo», dice al Post don Pino Demasi, responsabile dell’associazione Libera per la piana di Gioia Tauro, «quella legge viene spesso ignorata o aggirata. E le condizioni di vita dei braccianti che arrivano dall’Africa, se possibile, sono anche peggiorate. L’emergenza da queste parti è diventata normalità. È stata spesa una quantità infinita di denaro per costruire le tendopoli, che poi sono diventate insediamenti stabili dove si vive in condizioni terribili. E attorno, sparsi nella piana, ci sono migliaia di invisibili, chi si nascondono nei territori abbandonati e vengono reclutati all’alba per poi tornare a sparire di notte, in qualche rifugio improvvisato».