Mai fare errori di orzografia
«Colin Dexter, giallista, rivela la sua natura di enigmista, la sua abilità nel preparare dei veri e propri labirinti, sapendo benissimo qual è l’unica strada corretta per arrivare ad uscire, e divertendosi nell’immaginare quante strade sbagliate prenderà, invece, il suo ispettore. Ma come ci riesce?»
Non sarebbe il caso di comportarsi da poliziotto?
(Sergente Lewis)
Come hai imparato a camminare, amico lettore? Suppongo che anche tu, come me, non avrai avuto una preparazione teorica adeguata per affrontare un compito così difficile a livello fisico e ingegneristico. La tua mamma, probabilmente, non ti avrà incoraggiato con suggerimenti tecnici – su, caro, adesso contrai il gastrocnemio ed il soleo, adesso sposta il tuo centro di massa di circa cinque centimetri in avanti e contemporaneamente sposta il piede opposto del doppio di tale distanza…
No, caro lettore, non credo proprio. Avrai imparato, tu come me, con il caro vecchio metodo della prova ed errore.
Mi alzo in piedi, culata.
Mi alzo in piedi, resto un attimino in equilibrio, culata. Adesso ho capito, andrà meglio. Mi alzo in pie… culata, ancora prima del solito.
L’essere umano è bravissimo ad imparare per prova ed errore. È grazie alla capacità di riconoscere i nostri errori che miglioriamo, giorno dopo giorno, e impariamo a fare cose straordinarie. Ed è proprio grazie alla capacità di riconoscere i propri errori che l’ispettore capo Endeavour Morse, della Thames Valley Police, arriva puntualmente a risolvere i propri casi. Anche perché di errori Morse ne fa sempre parecchi. Prima di arrivare a dipanare il caso, Morse prende sempre due o tre abbagli colossali, si fa abbindolare da un testimone mendace, oppure è troppo preso da inesorabili quanto inconcludenti fantasticherie erotiche su una delle belle donne che incontra cercando di risolvere il caso.
Non che la sua spalla, il sergente Lewis, sia in grado di fare di meglio. Per questo, spesso, Morse lo tratta letteralmente da deficiente, per poi farsi perdonare e – speriamo – riuscire a farsi offrire un’altra birra, perché nonostante la Jaguar e lo stipendio da ispettore capo, superiore a quello di sergente, non c’è mai una volta che sia una che paghi Morse.
In fondo, spesso, è proprio così che si comporta un capo.
Il poliziesco deduttivo è sin troppo pieno di investigatori geniali che si muovono sempre accompagnati da un cretino del quale, non è chiaro perché, apprezzano la compagnia e l’amicizia. Sherlock Holmes vive con Watson, così come Poirot è spesso in compagnia del capitano Hastings – probabilmente l’unico essere umano che lo sopporta. Nella realtà, di solito gli amici li scegliamo simili a noi: se qualcuno scegliesse liberamente di vivere per davvero con Sherlock Holmes le possibilità sono due, o è un tossicomane sociopatico oppure è un sociopatico tossicomane. Invece, Lewis è costretto a frequentare Morse, e viceversa, perché lavorano insieme, in un rapporto la cui natura è chiara e viene ribadita in continuazione – io sono il capo, tu sei quello che porta in giro il capo. Una situazione decisamente plausibile: in fondo i colleghi sono proprio le persone che dobbiamo frequentare senza poterle scegliere. Per cui, dovendo trovare qualcuno da angariare giorno dopo giorno, un proprio collega di grado inferiore è decisamente la scelta più credibile.
Ma anche i superiori, grazie a Dio, sbagliano. E gli errori dei potenti, quando si rivelano, sono sempre più comici degli altri. Un po’ quello che successe ai nazisti quando, a Praga, vennero a sapere che una delle statue che adornavano il Teatro Nazionale era di Felix Mendelssohn-Bartholdy, ebreo e quindi da cancellare all’istante. L’unico problema era che, delle quattro statue, non sapevano quale fosse quella di Mendelssohn, per cui decisero di buttare giù l’effigie con il naso più grosso – la quale, scoprirono poco più tardi, raffigurava Wagner.
La musica di Wagner è una delle componenti fondamentali della giornata di Morse, ma non mi è chiaro se davvero l’ispettore trovi meravigliosa la musica del compositore tedesco; a livello personale, sono quel genere di ascoltatore che si sveglia giusto al momento della Cavalcata delle Valchirie e passa il resto dell’opera a chiedersi se era proprio necessario pagare tutti quegli strumentisti. Non sono il solo, intendiamoci: anche gente che ne capiva davvero di musica, come il grande pianista Ferruccio Busoni, si chiedeva se per caso non c’era un complotto su scala mondiale per mantenere in piedi la fama di Wagner. Ma, al di là dei gusti personali, la musica e il giallo hanno una cosa in comune: sappiamo come finiscono.
Avete mai fatto caso che l’ultima nota di una composizione musicale non vi sorprende mai? Di solito, la nota finale di una qualsiasi melodia è la tonica, il primo grado della scala musicale, e il motivo per cui si termina su di essa è che tale nota risolve tutte le tensioni e le dinamiche create nel dipanarsi della musica, e la conclusione al nostro orecchio appare naturale e logica anche se siamo dei bestioni pelosi con coda prensile che non sanno niente di musica.
Anche il giallo, in effetti, contiene in sé una soddisfazione che il lettore pregusta per tutta la durata del libro: sappiamo come deve finire. O meglio, sappiamo che alla fine il colpevole verrà scoperto, la giustizia trionferà e l’investigatore ci svelerà l’arcano. Non sappiamo come, ma sappiamo che. Quello che ci diverte è seguire la traiettoria, il modo in cui si arriva alla soluzione, vedere in che modo le vite dei personaggi si intrecciano con la trama e anzi sono la trama, perché anche una trama meravigliosa, senza personaggi significativi, è emozionante come una mappa del catasto. Ma uno dei motivi per leggere i libri di Morse è, molto spesso, proprio la trama.
In questo, Colin Dexter rivela la sua natura di enigmista, la sua abilità nel preparare dei veri e propri labirinti, sapendo benissimo qual è l’unica strada corretta per arrivare ad uscire, e divertendosi nell’immaginare quante strade sbagliate prenderà, invece, il suo ispettore. Ma come ci riesce?
Be’, credo che il motivo stia proprio nella sua passione – sia quella di Morse che quella di Dexter. L’enigmistica, e in particolare i cruciverba. Colin Dexter era un grande esperto di cruciverba, e dagli anni ’60 era entrato a far parte del non vastissimo club di esperti creatori del cruciverba dell’Observer.
I cruciverba dell’Observer sono noti per essere i più mefitici di tutta la Gran Bretagna, con definizioni che rasentano il diabolico. Più che parole crociate, sono una via di mezzo tra le crittografie e le sciarade, però con parole che si incrociano.
Per dare un esempio, uno dei più noti è stato:
To lie still is not enough here; both sides of the sheet must be tucked in.
(Giacere immobile non è abbastanza qui: entrambi i lati del lenzuolo devono essere ben rincalzati).
La soluzione è «bedstead», che viene da «be dead» (essere morto, cioè la soluzione alla prima parte, «giacere immobile») ma con la sillaba «st» (ovvero le estremità della parola «sheet», lenzuolo) ben rincalzata dentro: be + d(st)ead.
Le definizioni sono diaboliche, si diceva; i loro creatori sono invece sovente rispettabilissimi signori di ogni strato sociale che, con understatement tipicamente inglese, a volte si nascondono dietro pseudonimi, come Colin Dexter, che si celava dietro il minacciosissimo nomignolo di CoDex; altri invece tengono il loro nome palese. Nel primo giallo, L’ultima corsa per Woodstock, tutti i personaggi tranne l’assassino si chiamano come i suoi colleghi del giornale inventori di cruciverba e premiati per il miglior cruciverba del mese – una delle tante chicche che il lettore italiano non ha modo di apprezzare. Ma il nome più importante, Dexter lo riserva al più stimato dei suoi colleghi.
Un giorno, mentre potava la siepe di casa, Dexter vide un volto sconosciuto al di là della vegetazione, e l’uomo si presentò dicendo: «Ho visto il suo nome comparire nella lista dei premiati almeno quanto il mio, così ho pensato che sarebbe stato opportuno conoscerci. Sono Jeremy Morse». Iniziò così l’amicizia tra il professore di greco di Oxford e il banchiere della City che Dexter definì «l’uomo più intelligente che abbia mai incontrato». Una amicizia basata su un rispetto della propria reciproca intelligenza che, siamo sinceri, è proprio quello che manca tra Morse e Lewis. La prima volta che vediamo l’ispettore Morse interpellare Lewis, è per chiedergli cosa pensa del 14 verticale; Lewis, un solutore occasionale del cruciverba del Mirror (una roba da prima elementare) non sa che pesci pigliare e chiede a Morse se non sarebbe il caso di lavorare, al che Morse, con la penna in mano e il giornale davanti, risponde domandando: «Lei crede che stia perdendo tempo, Lewis?». E noi, lettori fiduciosi, sappiamo che non è così, né per il Morse letterario né per quello reale, e nemmeno per Colin Dexter, il quale proprio grazie alla sua padronanza dell’enigmistica è in grado di regalarci non solo trame godibilissime, ma anche piene zeppe di false piste talmente belle da sembrare vere.
C’è un modo ben preciso per costruire un gioco enigmistico, che sia un giallo o un cruciverba.
Supponete di guardare un filmato nel quale vedete il sottoscritto prendere un cubo di Rubik in uno stato altamente disordinato e, ruotando, riportarlo al suo stato originale, con un solo colore per faccia. Dopo di che, sempre il sottoscritto vi informa con la massima serietà che lui il cubo di Rubik non lo sa fare. Come ho fatto?
È molto semplice. Ho preso un cubo nuovo, mi sono ripreso mentre lo scompaginavo, e poi ho proiettato il filmato all’indietro. In questo modo, sono sicuro che qualsiasi mossa io facessi sarebbe stata lecita: non esistono mosse inutili o illogiche, nell’andare verso il caos. Allo stesso modo, nel costruire un giallo è necessario essere certi di quale sia la fine, e possiamo costruirlo andando a ritroso. Dal modo in cui viene scoperto l’assassino sapremo che arma ha usato, ed essendoci nota l’arma sapremo qualcosa di più sull’assassino medesimo – se il nostro canaglione ha ucciso qualcuno usando un cellulare modificato che è andato a interferire con il pacemaker della vittima, è improbabile che sia un contadino di Poggibonsi. (Se abitate a Poggibonsi, mettete Pomarance. Se abitate a Pomarance, forse è anche colpa vostra). Insomma, da questa catena di cause e conseguenze a ritroso è possibile venire a ricostruire un gran numero di relazioni e di caratteristiche fondamentali per mettere su una trama gialla che si rispetti. In più, niente andrà sprecato: qualsiasi particolare assurdo o qualsiasi tentativo che mi porta in una direzione poco promettente può essere troncato a metà, e utilizzato eventualmente come falsa pista al momento della Scrittura vera e propria.
Nel cruciverba, la definizione è prolissa, e la soluzione – la parola che è descritta nella definizione, spesso irritante, che ce la rende ignota – è concisa. Fedele alla missione di fare le cose al contrario, Dexter nei suoi gialli fa le cose alla rovescia: ogni capitolo è preceduto da un breve, fulminante esergo che illustra in modo erudito ma impietoso il significato del capitolo stesso. Ogni possibile testo scritto è per Dexter una rispettabile fonte di citazione: dai proverbi latini («Le testimonianze vanno pesate, non contate») ai manuali di polizia («Se un agente dovesse avvertire il sopraggiungere di un conato di vomito alla vista di una scena del crimine particolarmente disturbante, non dovrebbe per forza ascrivere la nausea a una sua particolare vulnerabilità psicologica, ma piuttosto a un riflesso universale dell’intestino tenue»), da Oscar Wilde («Il dovere è quello che ci si aspetta dagli altri, non quello che facciamo noi») alle barzellette sui professori di Oxford («Ma professore, lei sta gonfiando la ruota sbagliata». «Santo cielo! Vuoi forse dire che non sono collegate?»).
Tutti questi eserghi – pardon, exerga – stupiscono sia per la loro bellezza, sia per il fatto che sono talmente adatti da risultare, ogni tanto, sospetti (come la frase di Henry Thoreau «Alcune prove circostanziali sono molto solide, come quando si trova una trota nel latte», la cui fonte viene data come «manoscritto inedito», che a leggerlo viene il pesante sospetto che «inedito» sia un eufemismo per «inventato» e che il cantore di Walden Pond sia niente altro che uno pseudonimo di Norman Colin Dexter). Ma la maggior parte sono assolutamente autentici, alcuni anzi clamorosamente noti, sorprendenti solo per il fatto che l’autore si sia ricordato di quella frase in corrispondenza di tale occasione.
Il che mi porta a pensare – in maniera disordinata e per connessioni successive, come piacerebbe tanto a Morse – che in fondo per essere creativi probabilmente è necessario essere colti. Nessuno di noi si costruisce da zero le proprie azioni, anche le più fantasiose; come lo chef non si forgia le pentole da solo, né si fabbrica i coltelli o i termometri da cucina, né pesca personalmente i salmoni da grigliare, allo stesso modo chi scrive usa spesso strumenti fatti da altri e non saprebbe fare nulla senza di questi. Gli strumenti sono parole, o concetti formati da parole, così come gli ingredienti usati dai cuochi come base di partenza possono essere naturali – il pesce – o fatti da altri uomini – il pane, il vino, il katsuobushi.
E così come il cuoco deve rispettare quegli ingredienti, anche chi scrive deve rispettare i suoi strumenti. Da qui, da questa profonda consapevolezza, viene la caratteristica di Morse che più me lo rende simpatico: la sua istintiva e assoluta avversione per gli errori di ortografia. Una lettera in più, o in meno, rende il cruciverba impossibile da risolvere; una lettera aggiunta o tolta in modo sleale renderebbe l’enigma facile da creare, ma insipido e poco soddisfacente.
Esattamente il contrario dei gialli di Colin Dexter.
©Marco Malvaldi – Sellerio editore, 2021. Tutti i diritti riservati.