L’Italia sta facendo poco per la liberazione di Patrick Zaki
Avrebbe alcuni strumenti a disposizione, ma sembra che il governo non abbia l'intenzione di sostenerne i costi politici ed economici
di Eugenio Cau
Mercoledì la Camera ha approvato all’unanimità (soltanto Fratelli d’Italia si è astenuto) una mozione per chiedere al governo di dare la cittadinanza italiana a Patrick Zaki, lo studente egiziano dell’Università di Bologna detenuto in Egitto dal febbraio del 2020 con motivazioni politiche. Il voto della Camera segue un’altra mozione approvata dal Senato ad aprile, che chiedeva allo stesso modo che a Zaki fosse data la cittadinanza, con l’obiettivo di fornire allo studente maggiori garanzie legali e fare pressione sull’Egitto per ottenerne la liberazione.
Le due mozioni tuttavia non sono vincolanti per il governo, che potrà decidere autonomamente quali iniziative intraprendere, e se intraprenderne: benché il governo abbia più volte ribadito il suo impegno per la liberazione di Zaki, per ora la sua attività è stata poco incisiva e non ha portato a progressi significativi.
Nonostante la notevole mobilitazione dell’opinione pubblica, di numerosi esponenti politici nazionali e locali, delle autorità europee e di associazioni per i diritti umani come Amnesty International, i governi italiani che si sono succeduti nell’ultimo anno e mezzo si sono mossi in maniera estremamente cauta sulla questione, probabilmente con l’obiettivo di non mettere a rischio le relazioni – in particolar modo economiche – con l’Egitto. Ci sarebbero comunque numerosi strumenti di pressione a disposizione per cercare di convincere il governo egiziano al rilascio di Zaki.
Un anno e mezzo in carcere
Patrick Zaki, che ha compiuto 30 anni a giugno, è nato a Mansura, in Egitto, nel 1991, da genitori cristiani copti.
Dopo un passato di attivismo politico in Egitto, ottenne un posto presso un master piuttosto selettivo in Studi di Genere e delle Donne presso l’Università di Bologna. Si trasferì a Bologna, e nel febbraio del 2020 acquistò un biglietto aereo per l’Egitto per trascorrere qualche giorno di vacanza con la sua famiglia.
Al suo arrivo all’aeroporto del Cairo il 7 febbraio, tuttavia, fu arrestato dall’Agenzia della sicurezza nazionale, una delle forze di polizia egiziane deputata tra le altre cose al controllo interno e alla repressione dell’opposizione, a cui secondo le autorità italiane appartengono anche gli agenti che uccisero Giulio Regeni. Zaki fu portato in carcere. Di lui non si seppe nulla per le successive 48 ore, a seguito delle quali, grazie al suo avvocato, cominciarono a circolare informazioni sul suo caso e sulle sue condizioni.
Zaki era accusato di «diffusione di notizie false dirette a minare la pace sociale», «incitamento alla protesta sociale senza permesso», «istigazione a commettere atti di violenza e terrorismo», «gestione di un account social che indebolisce la sicurezza pubblica» e «appello al rovesciamento dello stato». In particolare, i procuratori egiziani indicarono come prova dell’attività sovversiva di Zaki una serie di post su Facebook che criticavano il governo e sostenevano le manifestazioni dell’opposizione (Zaki disse che i post non erano suoi).
Fra le altre cose, nel 2018 Zaki aveva fatto parte della campagna elettorale di Khaled Ali, un candidato alle elezioni egiziane che si opponeva al presidente autoritario Abdel Fattah al Sisi e che si era ritirato prima del voto denunciando intimidazioni. Fa anche parte dell’Egyptian Initiative for Personal Rights, un gruppo egiziano per la difesa dei diritti umani.
Le accuse rivolte contro Zaki sono molto frequenti in Egitto nei casi di detenzione di attivisti politici e membri dell’opposizione, diventati sempre più frequenti dopo l’ascesa al potere sette anni fa del generale al Sisi, che ha aumentato notevolmente la repressione politica in Egitto.
Soprattutto, disse il suo avvocato, Zaki era stato torturato. Immediatamente dopo il suo arresto, dopo essere stato bendato, fu portato a Mansura, la sua città natale, dove fu picchiato, spogliato, sottoposto a scosse elettriche sulla schiena e sull’addome, oltre che abusato verbalmente e minacciato di stupro.
Nei mesi successivi all’arresto, Zaki fu trasferito dal carcere di Mansura alla prigione di Tora, al Cairo, nota per ospitare i prigionieri politici, e fu detenuto in condizioni dure e degradanti. Per molti mesi gli fu negata la possibilità di comunicare con l’esterno e di ricevere visite dalla sua famiglia (ufficialmente a causa dell’emergenza coronavirus) e ci furono gravi polemiche sul fatto che le autorità egiziane gli stessero negando le necessarie cure mediche (Zaki soffre di asma).
A un anno e mezzo dal suo arresto, Zaki si trova tuttora in custodia cautelare. Le accuse contro di lui non sono state formalizzate, né è cominciato un processo: il suo arresto viene convalidato tramite udienza in tribunale grazie a una legge che consente di prolungare la durata della detenzione per almeno due anni, dapprima con proroghe consecutive di 15 giorni, poi di 45 giorni. L’ultima udienza, durante la quale la detenzione è stata ancora una volta prolungata di 45 giorni, è avvenuta il 16 giugno.
Cosa ha fatto e cosa potrebbe fare il governo
La politica, i media e l’opinione pubblica italiani, ancora scossi dopo l’uccisione di Giulio Regeni, si mossero rapidamente in favore di Zaki, che sebbene non fosse un cittadino italiano era comunque lo studente di un’università italiana, e aveva legami piuttosto forti con l’Italia: numerosi politici fecero appelli immediati per la sua liberazione, si crearono grandi campagne pubbliche di sostegno e l’Università di Bologna formò una “task force”. Nei mesi successivi, fu piuttosto forte soprattutto l’impegno delle amministrazioni cittadine, che a decine diedero a Zaki la cittadinanza onoraria (si tratta tuttavia di un atto simbolico che non ha nessun valore dal punto di vista del diritto internazionale) ed esposero una sua immagine sui palazzi municipali.
Anche il governo si mosse rapidamente. Pochi giorni dopo l’arresto, il ministro degli Esteri Luigi di Maio condannò la detenzione di Zaki e disse che l’Italia si sarebbe adoperata per liberarlo.
Alle parole tuttavia sono seguiti pochi fatti e, anzi, nei mesi successivi Di Maio ha inviato dei segnali ambigui. A marzo di quest’anno ha detto che l’Italia farà «di tutto per portare a casa anche Zaki», ma pochi mesi dopo, a maggio, ha sostenuto che le grandi campagne pubbliche per la liberazione sarebbero controproducenti: «Più aumenta la portata mediatica del caso più l’Egitto reagisce irrigidendosi e chiudendo i canali di comunicazione. Non illudiamoci che porteremo a casa risultati facendo in questo modo».
Ottenere la scarcerazione di Zaki è estremamente complicato per il governo italiano, anzitutto perché lo studente dell’Università di Bologna è un cittadino egiziano, e qualsiasi intervento in suo favore può essere facilmente denunciato dall’Egitto come un’intromissione indebita. Questo non significa tuttavia che il governo non abbia strumenti a sua disposizione per fare pressioni e ottenere risultati: sono numerosi, basta avere la volontà politica per metterli in atto.
Dare la cittadinanza italiana a Zaki è uno degli strumenti più discussi: è quello su cui spingono Camera e Senato, oltre che numerose campagne di pressione della società civile. Il governo potrebbe dare la cittadinanza a Zaki sulla base di una legge del 1992 che prevede questa possibilità per un cittadino straniero «quando questi abbia reso eminenti servizi al Paese, ovvero quando ricorra un eccezionale interesse dello Stato». La concessione della cittadinanza a Zaki ricadrebbe nella seconda ipotesi, perché sarebbe interesse dello stato italiano che l’incolumità dello studente di una sua università sia preservata.
Il processo di concessione della cittadinanza è però piuttosto complesso: serve un decreto del presidente della Repubblica, adottato dopo aver ottenuto un parere dal Consiglio di Stato «e previa deliberazione del Consiglio dei Ministri su proposta del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro degli Affari esteri».
Sarebbe un atto di enorme valore simbolico e politico, e aumenterebbe la pressione anche internazionale sull’Egitto, che non potrebbe più definire l’azione dell’Italia a suo favore come un’intromissione. L’Italia, inoltre, potrebbe avere più autonomia nel curare la tutela personale e la difesa legale di Zaki, tramite i suoi servizi consolari.
Dal punto di vista del diritto, tuttavia, la cittadinanza non garantirebbe la scarcerazione dello studente: Zaki manterrebbe comunque la cittadinanza egiziana, e molti esperti hanno citato il fatto che, secondo la Convenzione dell’Aja del 1930, nei casi di doppia cittadinanza non è possibile per i due stati coinvolti attivare la protezione diplomatica l’uno contro l’altro.
Un altro strumento a disposizione dell’Italia è la Convenzione dell’ONU contro la tortura, promulgata nel 1984 e ratificata sia dall’Italia sia dall’Egitto negli anni successivi.
La Convenzione è stata citata più volte negli ultimi mesi, ed è stata anche al centro di una mozione presentata al Senato, perché prevede degli strumenti di risoluzione delle controversie tra gli stati aderenti che potrebbero coinvolgere tutta la comunità internazionale. Se nascono delle controversie sull’uso della tortura in uno stato partecipante, infatti, un altro stato ha diritto di aprire un negoziato per porre fine a questa pratica. Se il negoziato non andasse a buon fine, può essere richiesto un arbitrato internazionale. Se, infine, a sei mesi dall’inizio dell’arbitrato, le parti non dovessero essere arrivate a un accordo, il caso può essere sottoposto alla Corte internazionale di giustizia.
Poiché Zaki è stato torturato in carcere, l’Italia può servirsi della Convenzione ONU per sollevare un caso che avrebbe un forte valore giuridico e finirebbe per coinvolgere la comunità internazionale, mettendo grande pressione sul regime egiziano.
Ci sono poi altri strumenti di pressione che l’Italia potrebbe mettere in atto: i rapporti commerciali, economici, militari con l’Egitto sono intensi e significativi, e sono potenzialmente numerosi gli elementi su cui fare leva per cercare di ottenere delle concessioni dal governo egiziano. Anche in questo caso, serve la volontà politica per farlo.
C’è infine un’ultima strategia che il governo potrebbe adottare, che è quella a cui sembrò accennare Di Maio quando chiese di ridurre la «portata mediatica» del caso per non fare irrigidire l’Egitto: mantenere silenzio e riserbo sulla vicenda e cercare di ottenere la liberazione di Zaki tramite canali diplomatici informali, per ottenere risultati senza arrivare a uno scontro pubblico, un po’ come si potrebbe fare per la liberazione di un ostaggio. Questa strategia è probabilmente la preferita dalla diplomazia italiana, ma non sembra essere molto efficace con l’Egitto, come ha mostrato almeno un precedente.
A febbraio di quest’anno, infatti, l’Austria è stata coinvolta in un caso simile a quello di Zaki: uno studente egiziano di un’università di Vienna, Ahmed Samir Santawy, era stato arrestato mentre era in vacanza in Egitto con accuse simili a quelle dello studente di Bologna. Dopo l’arresto, l’Austria aveva mantenuto un atteggiamento molto discreto sulla questione, probabilmente cercando canali informali per un negoziato, ma senza risultati: a giugno l’Egitto ha condannato Samir Santawi a quattro anni di prigione.
Rapporti da ripensare
Il governo tuttavia non sembra molto convinto di nessuna di queste possibili strade, né di quelle più assertive né di quelle più informali. Anzi, il problema principale è che apparentemente il governo non ha ancora deciso quale posizione tenere.
Almeno in pubblico, l’unica azione concreta compiuta dal governo italiano è stata quella di avviare un “trial monitoring”, cioè un’attività di osservazione dei procedimenti giudiziari che coinvolgono Zaki: ogni volta che il tribunale del Cairo tiene un’udienza per Zaki (tendenzialmente per prolungare la sua detenzione), il personale dell’ambasciata italiana e di altre ambasciate europee si presenta sul luogo e assiste al procedimento per ricordare che il caso di Zaki è attentamente seguito dalle autorità internazionali.
Benché importante, il “trial monitoring” non sta portando a molti risultati, e su tutto il resto il governo non sembra molto attivo. Ad aprile, quando il Senato stava per votare sulla concessione della cittadinanza italiana a Zaki, il presidente del Consiglio Mario Draghi reagì in maniera piuttosto fredda e disse che quella su Zaki «è un’iniziativa parlamentare in cui il governo non è coinvolto al momento». Questo è stato il suo unico intervento pubblico sul tema finora.
Secondo Lia Quartapelle, deputata del Partito Democratico, da tempo attiva a favore della liberazione di Zaki e prima firmataria della mozione della Camera per la cittadinanza, il problema non riguarda soltanto Zaki, ma i rapporti tra Italia ed Egitto nel loro complesso, che sono caratterizzati da ambiguità e scarsa chiarezza. «L’Italia deve prendere una decisione su cosa fare con l’Egitto», dice, aggiungendo che i rapporti dovrebbero essere sottoposti a una «revisione strategica».
Per Quartapelle, l’Italia dovrebbe adottare con l’Egitto un approccio selettivo, sulla falsariga di quello che disse Draghi a proposito del presidente autoritario turco Recep Tayyip Erdogan ad aprile, secondo cui «con questi dittatori» bisogna avere un rapporto «franco nell’esprimere la diversità di visione» e «pronto a cooperare per assicurare gli interessi del proprio paese».
Con l’Egitto finora questo atteggiamento non c’è stato. L’Italia fatica a delineare le proprie priorità di interesse nazionale, e questo crea un contesto favorevole al regime egiziano, che riesce a confondere l’aspetto della difesa dei diritti umani con l’interesse economico e commerciale. «L’Egitto è un paese importante e l’Italia dovrebbe essere in grado di valutare i propri interessi nazionali e trovare una risposta proporzionata», dice Quartapelle. Per ora tuttavia l’atteggiamento del governo è stato caratterizzato soprattutto da immobilismo.