I talebani si stanno riprendendo l’Afghanistan
Pezzo dopo pezzo, sfruttando il ritiro dei soldati americani, la debolezza dell'esercito afghano e l'incompetenza del governo locale
di Elena Zacchetti
Più di un quarto dei 421 distretti in cui è diviso il territorio dell’Afghanistan, soprattutto quelli del nord, è oggi sotto il controllo dei talebani, gruppo estremista islamista che negli ultimi mesi è riuscito a riconquistare diverse zone del paese a causa soprattutto del progressivo ritiro dei soldati americani e della debolezza della polizia e dell’esercito afghani. L’ultima disastrosa notizia per il governo dell’Afghanistan è arrivata lunedì, quando un migliaio di membri delle forze di sicurezza afghane è stato attaccato dai talebani, ed è stato costretto a superare il confine e a rifugiarsi nel vicino Tagikistan: nelle settimane precedenti gli insorti avevano già preso il controllo della maggior parte del confine afghano-tagiko, secondo alcuni commercianti locali citati dal Wall Street Journal con il tacito consenso del regime del Tagikistan.
In diverse altre situazioni i talebani sono riusciti a conquistare distretti interi senza sparare nemmeno un colpo, ma sfruttando la fuga dei demoralizzati soldati afghani.
L’avanzata dei talebani sta diventando sempre più preoccupante. Il rischio che vedono molti, inclusi politici e militari statunitensi e funzionari afghani ampiamente citati negli ultimi mesi, è che il ritiro delle truppe americane, che secondo i piani del governo di Joe Biden si concluderà il prossimo 11 settembre, creerà un grosso vuoto e renderà le forze afghane estremamente vulnerabili agli attacchi dei talebani. Nonostante infatti sia stato raggiunto un accordo tra talebani e Stati Uniti per il ritiro delle forze americane dall’Afghanistan, lo stesso non si può dire di un’intesa che regoli i futuri rapporti tra governo afghano e insorti, che è ancora in balìa dei rapporti di forza sul campo di battaglia.
«Alcune valutazioni dell’intelligence dicono che il governo afghano potrebbe crollare sotto la pressione dei talebani in un periodo che va dai sei mesi ai due anni», ha scritto il giornalista Adam Nossiter sul New York Times. Se questo dovesse succedere, l’Afghanistan tornerebbe a essere controllato dai talebani, che mantennero il potere nel paese tra il 1996 e il 2001, fino all’invasione americana decisa a seguito degli attacchi terroristici contro New York e Washington compiuti l’11 settembre 2001 da al Qaida, gruppo a cui i talebani offrivano protezione.
La situazione in Afghanistan è da molto tempo una specie di rompicapo per il governo americano, che già durante l’amministrazione di Barack Obama aveva annunciato il ritiro delle truppe, prima di rimandare in diverse occasioni per il timore di una rapida avanzata dei talebani.
La questione è da anni sempre la stessa: conciliare la volontà degli Stati Uniti di ritirare le proprie truppe (per ragioni di consenso politico, ma anche perché nel frattempo sono cambiate le priorità e l’attenzione dei governi americani si è spostata sempre più verso l’Asia e il Pacifico), con la necessità di non far cadere l’Afghanistan sotto il controllo dei talebani. E anche il problema è sempre lo stesso: tolte le truppe americane, tutto fa pensare che esercito e polizia afghana non siano organizzati e addestrati a sufficienza per contrastare i talebani, nonostante i grandi sforzi fatti negli ultimi vent’anni per prepararsi al punto in cui ci si trova oggi.
Secondo diversi esperti, tra cui il giornalista Adam Nossiter, negli ultimi due decenni la presenza militare americana avrebbe spinto il governo afghano a un’inazione sistematica e avrebbe favorito «l’atrofizzazione» di qualsiasi attività di pianificazione proattiva. In altre parole: il governo afghano sarebbe rimasto a guardare, pur sapendo che presto avrebbe dovuto fare da solo.
Il presidente Ashraf Ghani, appoggiato dagli Stati Uniti, è stato accusato di ascoltare solo una piccola cerchia ristretta di consiglieri istruiti all’estero e di escludere dalle decisioni più importanti gli altri membri del suo governo, apparentemente timorosi di contraddirlo per paura delle sue reazioni. Ghani è stato inoltre accusato di non avere sviluppato piani per fronteggiare i talebani e di avere preso decisioni frettolose e poco efficaci: mesi fa per esempio licenziò in tronco una parte della sua struttura di comando e creò un nuovo organo, il Consiglio di stato supremo, che da allora non si è quasi mai riunito.
Il governo sembra anche molto lontano da diversi gruppi e comunità del paese, come ha dimostrato l’assenza di funzionari pubblici durante le commemorazioni pubbliche per l’uccisione di almeno 90 persone (tra cui una settantina di studentesse) in un attentato suicida compiuto a maggio a Kabul. La maggior parte dei morti era parte della minoranza etnica degli hazara, assai perseguitata durante gli anni di regime dei talebani e discriminata anche in seguito. Già ad aprile Zulfiqar Omid, leader hazaro nell’Afghanistan centrale, aveva iniziato a mettere in piedi milizie armate per contrastare i talebani e il gruppo affiliato allo Stato Islamico: oggi comanda circa 800 uomini.
Gli hazari non sono però gli unici ad avere creato delle proprie milizie, spesso in funzione anti-talebana e per sopperire alle mancanze del governo. Da quando gli Stati Uniti hanno annunciato il loro ritiro definitivo dall’Afghanistan, diversi leader locali hanno pubblicato video sui social media per mostrare gruppi di uomini armati pronti a combattere contro i talebani.
A livello nazionale, un importante leader a capo di una milizia è Ahmad Massoud, 32 anni e figlio di Ahmad Shah Massoud, noto e carismatico comandante militare dell’Alleanza del Nord, coalizione di diverse fazioni prima rivali tra loro e poi riunite per combattere contro i talebani. Massoud, che ha chiamato la sua milizia “Seconda resistenza”, è guardato con interesse da alcuni leader occidentali, che lo vedono come una possibile fonte di informazioni di intelligence su al Qaida e sullo Stato Islamico.
Anche milizie formate da membri delle comunità tagike e uzbeke, e mai completamente smantellate dopo la guerra contro i talebani nel 2001, sembrano poter diventare centrali in un eventuale conflitto contro i talebani. Non tutte però sembrano potersi trasformare in interlocutori affidabili e credibili per gli Stati Uniti: per esempio uno dei più potenti leader uzbeki, il generale Abdul Rashid Dostum, è accusato di crimini di guerra e di avere sodomizzato un rivale uzbeko con un fucile d’assalto.
«Per la prima volta in 20 anni, diversi leader stanno parlando pubblicamente della mobilitazione di uomini armati», ha scritto il 4 giugno il gruppo di ricerca Afghanistan Analyst Network, con sede a Kabul. Anche se non tutti sono avversari del governo afghano, il rischio è che con la proliferazione di milizie, e senza un potere centrale forte, l’Afghanistan torni a essere qualcosa di simile a quello che era nei primi anni Novanta, durante le guerre dei mujaheddin, quando milizie rivali uccisero migliaia di civili e distrussero alcune parti di Kabul.
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Nonostante finora Joe Biden non abbia voluto stravolgere i piani statunitensi di ritiro delle truppe, dal punto di vista prettamente militare qualche modifica è stata fatta.
A causa dell’avanzata dei talebani, venerdì il dipartimento della Difesa americano ha annunciato che il generale Austin Scott Miller, il più alto militare statunitense in comando in Afghanistan negli ultimi tre anni, rimarrà nel paese ancora per diverse settimane. Il governo ha a sua volta rivelato che continuerà con le operazioni di sorveglianza aerea, e in caso di necessità compirà nuovi attacchi in funzione antiterrorismo (ma senza il coinvolgimento di truppe americane di terra). Due funzionari della Difesa citati dal Washington Post, e rimasti anonimi per ragioni di sicurezza, hanno sostenuto che la capacità degli Stati Uniti di compiere questo tipo di operazioni sia profondamente indebolita con il ritiro quasi completo dei soldati, ma non del tutto esaurita.