La nuova ricerca del relitto dell’Endurance
Proverà a ritrovare la nave usata da Ernest Shackleton per la sua famosa spedizione antartica, e che da oltre un secolo giace sul fondale marino
di Emanuele Menietti – @emenietti
Nei pressi del Polo Sud della Luna c’è un grande cratere largo circa 21 chilometri. È intitolato a Ernest Shackleton, l’esploratore britannico che riuscì a riportare sani e salvi a casa tutti i membri dell’equipaggio della nave Endurance, rimasta bloccata nei ghiacci durante una missione condotta in Antartide a inizio Novecento. Il cratere sulla Luna è più semplice da trovare e osservare rispetto al relitto dell’Endurance qui sulla Terra. A oltre un secolo dalla spedizione di Shackleton, infatti, il relitto non è stato mai ritrovato e giace ancora sul fondale del Mare di Weddell, nella grande baia che si trova nella parte nord-orientale del continente antartico.
Per questo il Falkland Maritime Heritage Trust, un’associazione britannica che promuove la conoscenza e la ricerca nei mari intorno alle Isole Falkland e oltre, ha deciso di finanziare una nuova missione di ricerca dell’Endurance, della quale faranno parte alcuni ricercatori che già in passato avevano provato senza successo a localizzare il relitto. La missione è stata da poco proposta al ministero degli Esteri del Regno Unito e dovrebbe ricevere a breve le autorizzazioni necessarie per essere avviata. I responsabili dell’iniziativa confidano di avere tutto pronto per il prossimo febbraio 2022, da qui la scelta di chiamare la missione Endurance22.
Localizzato il relitto, i ricercatori effettueranno foto e una mappatura della zona, ma non toccheranno in alcun modo la nave. Nel Trattato Antartico, che regolamenta l’utilizzo delle parti disabitate dell’Antartide, il relitto dell’Endurance è stato definito un «monumento» e deve essere protetto.
La nave ha inoltre un forte valore simbolico, oltre che storico: la sua vicenda è stata ricostruita nel dettaglio grazie ai diari della spedizione, che mostrano come i 28 membri dell’equipaggio riuscirono a salvarsi grazie alla loro determinazione e alle indicazioni di Shackleton, che anche nelle condizioni più difficili mantenne la lucidità e la razionalità necessarie per portare tutti in salvo.
Attraversare l’Antartide
La spedizione imperiale trans-antartica dell’Endurance aveva l’obiettivo di attraversare l’Antartide via terra, con slitte trainate da cani, coprendo una distanza di quasi 3mila chilometri lungo una marcia di 3-4 mesi. Era stata promossa da Ernest Shackleton ai primi del Novecento, in un periodo in cui c’era una stretta competizione per l’esplorazione dei poli, con il Regno Unito che aveva già fallito tre volte nel raggiungere il Polo Sud.
Shackleton aveva partecipato alla Discovery, la prima spedizione britannica in Antartide ed era stato poi al comando della successiva missione, quella della Nimrod. In quell’occasione, aveva mancato di 180 chilometri il Polo Sud, rimediando comunque una certa fama nel Regno Unito.
Con qualche difficoltà, Shackleton raccolse il denaro necessario per finanziare la nuova missione. L’idea era di raggiungere il Mare di Weddell, sbarcare e iniziare la traversata verso sud del continente, passando per il polo e raggiungendo infine il Mare di Ross.
L’Endurance salpò dal porto britannico di Plymouth il 9 agosto del 1914 e, dopo una breve sosta a Buenos Aires, raggiunse Grytviken nella Georgia del Sud dove a causa del ghiaccio marino (pack) più esteso del solito dovette attendere circa un mese prima di poter ripartire per spingersi più a sud.
Quando si trovava a circa 150 chilometri dal continente antartico, la nave rimase intrappolata nei ghiacci del Mare di Weddell, andando alla deriva con gli spostamenti del pack e senza possibilità di disincagliarsi. Per dieci mesi andò alla deriva verso nord-ovest, poi il 21 novembre 1915 accadde ciò che Shackleton e il suo equipaggio temevano da un pezzo: non riuscendo più a resistere alla pressione esercitata dai ghiacci, la nave iniziò a cedere in diversi punti e a sprofondare nel ghiaccio.
Senza la possibilità di comunicare la propria posizione, l’equipaggio recuperò tutto ciò che poteva dall’Endurance e stabilì un campo base sulla grande piattaforma di ghiaccio galleggiante, a migliaia di chilometri dalle terre più vicine in un ambiente dove le temperature minime raggiungevano i -45 °C. I suoi membri trascorsero quasi cinque mesi vivendo sul ghiaccio e con la speranza che con il miglioramento delle condizioni atmosferiche potesse arrivare qualcuno in soccorso, ma non videro mai arrivare una nave.
Dopo avere valutato i rischi e i benefici, Shackleton ordinò di avviare un avventuroso quanto disperato viaggio per abbandonare l’Antartide e raggiungere le prime isole abitate più a nord nell’oceano Atlantico. L’equipaggio utilizzò tre scialuppe di salvataggio recuperate in precedenza dall’Endurance e affrontò l’oceano aperto. Dopo molte traversie e il rischio concreto di finire alla deriva senza acqua e cibo a sufficienza, le tre scialuppe raggiunsero l’isola Elephant, disabitata, nelle Shetland Meridionali. Era necessario raggiungere un’isola abitata, ma proseguire il viaggio con tutto l’equipaggio ormai stremato sarebbe stato troppo rischioso.
Shackleton ordinò a buona parte dell’equipaggio di stabilirsi sull’isola, dove comunque le condizioni climatiche erano a dir poco proibitive con ricorrenti tempeste, e ripartì con cinque compagni di viaggio con l’obiettivo di raggiungere una base baleniera nella Georgia del Sud. La piccola scialuppa lunga appena 7 metri percorse 1.600 chilometri raggiungendo infine la costa dell’isola. Circumnavigarla per raggiungere il piccolo porto sarebbe stato troppo rischioso, così Shackleton con due uomini attraversò l’alta catena montuosa che divideva in due l’isola, un’impresa mai tentata prima.
Per chi si trovava nella zona, l’arrivo al piccolo porto di Stromness fu inatteso quanto commovente, come racconta con efficacia Alfred Lansing nella sua dettagliata ricostruzione nel libro Endurance:
Tutti i presenti, interrotto il lavoro, guardavano i tre stranieri che si avvicinavano. Il sovrintendente si alzò per andargli incontro. L’uomo al centro parlò in inglese: «Potreste condurci, per cortesia, da Anton Andersen?» gli chiese con un filo di voce. Il sovrintendente scosse il capo, Anton Andersen, spiegò, non si trovava più a Stromness. Era stato sostituito dal direttore stabile della fabbrica, Thoralf Sørlle.
L’inglese sembrò contento.
«Bene», disse. «Conosco bene Sørlle.»
Il sovrintendente guidò allora i tre uomini alla casa di Sørlle, a un centinaio di metri sulla destra. Quasi tutti gli uomini sul molo avevano lasciato le loro occupazioni per guardare i tre stranieri apparsi al dock. Ora stavano allineati lungo il percorso, e guardavano con curiosità il sovrintendente e i tre esploratori.
Andersen bussò alla porta del direttore e, un attimo dopo, Sørlle stesso aprì. Era in maniche di camicia e aveva sempre i baffoni a manubrio.
Quando scorse i tre uomini, indietreggiò di un passo e un’espressione incredula apparve sul suo viso. Rimase a lungo in silenzio prima di mormorare: «Chi diavolo siete?».
L’uomo al centro fece un passo avanti.
«Il mio nome è Shackleton», rispose con voce sommessa. Di nuovo ci fu un grande silenzio; qualcuno disse che in quel momento Sørlle si voltò e pianse.
Dopo alcuni rinvii causati dalle condizioni del mare e dalla presenza di ghiaccio galleggiante, quattro mesi più tardi Shackleton salpò con una missione di recupero per il resto dell’equipaggio rimasto sull’isola Elephant. Li trovò ancora tutti vivi e relativamente in salute. Era il 30 agosto del 1916, erano passati 2 anni e 21 giorni dalla partenza dall’Inghilterra.
Localizzazione
Negli anni seguenti la storia dell’Endurance fu raccontata dai suoi protagonisti e documentata nel dettaglio grazie ai diari e alle numerose fotografie, scattate soprattutto dal fotografo Frank Hurley che faceva parte dell’equipaggio. Tra i dettagli c’era anche la posizione della nave al momento dell’affondamento, determinata sul posto con un sestante e un teodolite da Frank Worsley, il capitano della nave.
Nonostante le informazioni piuttosto accurate, da allora nessuna missione è riuscita a localizzare la posizione esatta dell’Endurance, che dovrebbe trovarsi in un tratto di mare a est della piattaforma di ghiaccio Larsen, che si estende lungo la costa orientale della penisola Antartica. Raggiungere e attraversare la zona era difficile con le navi dell’epoca e continua a essere complicato anche con le navi rompighiaccio dei giorni nostri.
Nel 2019 una missione, di cui facevano parte alcuni ricercatori impegnati anche in Endurance22, riuscirono ad avvicinarsi alla zona e a impiegare un sommergibile a guida autonoma, ma dopo una ventina di ore di perlustrazioni il veicolo smise di inviare dati e se ne persero le tracce. Per la spedizione in programma a febbraio del prossimo anno sarà impiegata la stessa rompighiaccio, ma con un modello di sommergibile diverso, progettato per effettuare immersioni di lunga durata ed essere pilotato a distanza o muoversi autonomamente seguendo un percorso predefinito.
Ghiacci e fondale
Il problema è che il Mare di Weddell è spesso ricoperto da piattaforme di ghiaccio, che si staccano e uniscono tra loro rendendo difficoltosa la navigazione, come ebbe modo di sperimentare l’equipaggio dell’Endurance all’inizio del Novecento. La nuova spedizione utilizzerà immagini satellitari sulle condizioni dei ghiacci, in modo da determinare le rotte per avvicinarsi il più possibile alla zona in cui avvenne l’affondamento.
I ricercatori non sanno nemmeno in quali condizioni potrebbe essere il relitto dopo più di un secolo trascorso sul fondale. È possibile che la nave sia rimasta più o meno come l’avevano vista negli ultimi giorni Shackleton e i suoi compagni di avventura, ma non si può escludere che le correnti abbiano sparso le parti più leggere e mobili del relitto in altri punti del fondale. Diversi microrganismi potrebbero avere consumato parte della struttura, ma la bassa temperatura dell’acqua potrebbe avere tenuto alla larga diverse specie di molluschi piuttosto ingorde.
I responsabili di Endurance22 sperano di riuscire dove fallirono le precedenti ricerche, trovando infine qualcosa sul fondale a circa 3mila metri di profondità. Nel caso in cui il relitto venisse identificato, ma senza concrete possibilità di avvicinarsi con la nave rompighiaccio, il gruppo di ricerca potrà sbarcare sul pack e forarlo per creare nuovi punti di accesso per i sommergibili automatici e riprendere da vicino ciò che resta di uno dei più grandi fallimenti di successo nella storia delle esplorazioni polari.