Quando le Brigate Rosse uccisero Giuseppe Taliercio
Il 6 luglio del 1981, dopo 46 giorni di sequestro, il corpo del direttore della Montedison fu fatto trovare davanti ai cancelli del Petrolchimico di Marghera
di Pietro Cabrio
Il 1981 in Italia fu un anno particolarmente segnato da terrorismo ed eversione. Già la notte di Capodanno, a Roma, le Brigate Rosse assassinarono il generale dei Carabinieri Enrico Riziero Galvaligi. A febbraio un gruppo di terroristi di destra, tra i quali Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, uccise due carabinieri nei dintorni di Padova. Il 17 marzo, durante le perquisizioni alle proprietà di Licio Gelli, furono invece trovate le liste degli iscritti alla loggia massonica della P2. Lo scandalo che ne seguì divenne ancora più grande quando, il 20 maggio dello stesso anno, il governo di Arnaldo Forlani decise di renderle pubbliche.
Quello stesso giorno, a Mestre, il direttore dello stabilimento della Montedison a Porto Marghera, Giuseppe Taliercio, era tornato a casa per pranzare nel suo appartamento in una traversa di Corso del Popolo, a pochi minuti di strada dagli stabilimenti dell’azienda, che allora era la principale società chimica italiana. Mentre era seduto a tavola con la moglie e due dei cinque figli, tre uomini in borghese e uno vestito da finanziere suonarono alla porta dell’appartamento.
Quegli uomini però non erano finanzieri, erano membri della cosiddetta “colonna veneta” delle Brigate Rosse. Una volta entrati in casa e aver reso chiare le loro intenzioni, legarono la moglie e i figli in cucina, portarono Taliercio in salotto e lo chiusero dentro un baule con il quale lo fecero uscire dall’appartamento. Due dei quattro brigatisti rimasero in casa ancora un’ora con il resto della famiglia, e si cucinarono un piatto di pasta per far passare il tempo.
Taliercio era nato a Carrara in una famiglia di origini ischitane. Da giovane si era scoperto portato per le materie scientifiche e così si era dedicato allo studio finendo per laurearsi in ingegneria a Pisa. Si era trasferito a Mestre negli anni Cinquanta per lavorare alla Montedison, dove aveva fatto tutta la trafila fino a diventarne direttore generale. Al suo arrivo la Montedison occupava gran parte dei circa 40mila operai del Petrolchimico: era considerata un posto di lavoro duro ma anche sicuro per i dipendenti, la maggior parte dei quali provenienti dalle campagne venete.
Negli stabilimenti di Marghera la Montedison aveva costruito buona parte della sua fortuna, fornendo materiali per sostenere la produzione industriale su larga scala durante il boom economico italiano. Nel corso degli anni, però, erano sorte grosse questioni ambientali e soprattutto sindacali in concomitanza con l’aumentare delle morti degli operai causate da incidenti sul lavoro e poi da tumori, malattie cardiovascolari e respiratorie dovute all’inalazione di sostanze allora poco conosciute come il cloruro di vinile (CVM), il polivinilcloruro (PVC) e l’amianto.
Nel 1981 la Montedison aveva già iniziato a cedere parte dei suoi stabilimenti, diventati obsoleti e altamente inquinanti, e a ridurre il numero del personale impiegato. A marzo Taliercio aveva dovuto accettare la cassa integrazione decisa per oltre seicento dipendenti. Questa situazione, unita alle inquietudini date da un luogo di lavoro molto esposto in un periodo di rivendicazioni sindacali e lotte armate, aveva spinto Taliercio a dare le dimissioni: quando venne rapito gestiva la normale amministrazione in attesa di essere trasferito altrove.
L’anno prima, inoltre, la situazione alla Montedision e più in generale a Marghera e a Mestre era stata aggravata da due omicidi rivendicati dalle Brigate Rosse in pieno centro, a pochi metri di distanza l’uno dall’altro. La mattina del 29 gennaio 1980 Sergio Gori, il vice di Taliercio alla Montedison, era stato ucciso sotto casa. Quattro mesi dopo, Alfredo Albanese, il commissario che indagava sul caso, venne intercettato e ucciso mentre era in macchina da un gruppo di brigatisti composto anche da alcuni degli assassini di Gori.
Stando a quanto ricostruito negli anni successivi dalle varie testimonianze, Taliercio era convinto che le Brigate Rosse avessero ucciso il suo vice soltanto perché non erano ancora in grado di arrivare a lui. Gori infatti viveva da solo, non aveva autisti ed era più abitudinario nei movimenti.
Dopo essere stato rapito, Taliercio venne nascosto in un casolare di Tarcento, a nord di Udine. Ci rimase 46 giorni, durante i quali venne sottoposto a un processo e, come stabilito in seguito, picchiato di frequente per la sua riluttanza a fare nomi e dare informazioni, anche se i brigatisti diranno poi durante il processo che di Taliercio «non sapevano nulla».
In quei 46 giorni di prigionia la storia delle Brigate Rosse era entrata nella sua fase conclusiva, e questo non fu di aiuto. Ad aprile era stato arrestato Mario Moretti, uno dei componenti principali della “direzione strategica”, mentre l’11 giugno Roberto Peci, fratello del brigatista Patrizio, uno dei più importanti collaboratori di giustizia di quel periodo, fu ucciso dopo essere stato condannato a morte come punizione per il pentimento del fratello.
In un contesto simile, per Taliercio non ci fu spazio per una trattativa. Nonostante fosse già dimissionario e generalmente ben voluto nell’ambiente della fabbrica, come dimostrarono poi le manifestazioni degli operai, il fatto di essere il direttore di una delle più grandi fabbriche italiane, accusata di aver provocato la morte di centinaia di operai inconsapevoli dei rischi, escluse ogni possibilità di negoziazione.
Taliercio fu condannato a morte il 3 luglio. Due giorni dopo Antonio Savasta, considerato il capo dei brigatisti veneti, eseguì la sentenza sparando una ventina di colpi con due diverse pistole contro il baule in cui Taliercio era stato rinchiuso. Alle due di notte circa del 6 luglio una Fiat 128 venne ritrovata a pochi passi da uno dei cancelli del Petrolchimico di Marghera con il cadavere di Taliercio nel bagagliaio, come era successo tre anni prima a Roma con Aldo Moro. I funerali, a cui partecipò il presidente della Repubblica Sandro Pertini, si tennero il 10 luglio a Marina di Carrara.
Savasta divenne successivamente collaboratore di giustizia e nel processo per l’omicidio di Taliercio disse: «Il sequestro doveva servire a ricomporre le spaccature interne alle Brigate Rosse. La direzione strategica aveva insistito per questa azione cercando di trasformarla in una campagna esemplare». Oltre a lui, parteciparono al sequestro di Taliercio i brigatisti Pietro Vanzi, Gianni Francescutti e Francesco Lo Bianco.
Nel dicembre del 1981 Savasta fu anche tra i responsabili del rapimento a Verona del militare statunitense James Lee Dozier, comandante NATO per l’Europa Meridionale. Dozier venne tenuto ammanettato all’interno della stessa tenda usata a Tarcento per Taliercio. Il sequestro del generale si concluse però in poco più di un mese con l’azione del reparto speciale della polizia, che lo liberò nell’appartamento di Padova dove era tenuto prigioniero.
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