Le critiche al progetto forestale di Eni in Zambia
Greenpeace ha messo in fila i problemi della "decarbonizzazione", molto pubblicizzata da Eni, che si basa sull'acquisto di crediti di carbonio per compensare le emissioni di gas serra
La valle del fiume Luangwa si trova nella zona orientale dello Zambia e fino a qualche anno fa era una delle aree con il tasso di deforestazione tra i più alti del paese, principalmente a causa dell’espansione dei campi coltivati con tecniche di agricoltura non sostenibile. Per cercare di limitare questa minaccia ambientale, nel 2014 è nato il progetto chiamato Luangwa Community Forests, promosso da BioCarbon Partners, che attraverso una serie di investimenti punta a proteggere le foreste di questa valle: la costruzione di scuole, pozzi d’acqua potabile, strade e lo sviluppo di aziende votate all’agricoltura più rispettosa dell’ambiente consentiranno a migliaia di persone che abitano in quell’area di avere accesso a lavori più qualificati e abbandonare i vecchi metodi di coltivazione.
A questo progetto definito di “decarbonizzazione”, il più grande al mondo per numero di beneficiari (173mila), partecipa anche Eni, la più importante società energetica italiana, che attraverso l’acquisto di crediti di carbonio compensa le emissioni di gas serra dalla sua produzione attuale e futura, tra cui l’estrazione di gas naturale.
Le foreste tropicali come quelle dello Zambia assorbono anidride carbonica (CO2), il principale dei gas serra, e quindi contribuiscono a rimuoverla dall’atmosfera. L’idea dietro il sistema delle compensazioni è che, finanziando i progetti di conservazione delle foreste, le aziende contribuiscano di fatto a rimuovere dall’atmosfera una certa quantità di gas serra: riescano cioè a “compensare” in parte le emissioni che causano con le loro attività, che si tratti di voli degli aerei o produzione di derivati del petrolio.
Questo obiettivo – finanziare progetti nei paesi in via di sviluppo per non abbattere gli alberi – è stato sottoscritto dalle Nazioni Unite nel 2007. Ma quattordici anni dopo il sistema si è dimostrato molto poco solido, a causa soprattutto della mancanza di accordi a livello internazionale. Il risultato è che i progetti che si occupano di “decarbonizzazione” sono spesso piccoli e non regolamentati se non dall’attività di alcune organizzazioni specializzate che stimano quante emissioni siano state assorbite evitando la distruzione degli alberi. Queste emissioni “negative” vengono poi vendute alle aziende come “crediti di carbonio”.
Eni si è impegnata a raggiungere entro il 2024 6 milioni di tonnellate di CO2 compensate all’anno, 20 milioni entro il 2030 e oltre 40 milioni entro il 2050. Alla fine del 2020 Eni ha acquistato dal progetto Luangwa Community Forests crediti di carbonio per compensare emissioni pari a 1,5 milioni di tonnellate (Mton) di anidride carbonica.
Quantificare i crediti di carbonio non è semplice: si possono fare diverse stime, non sempre affidabili. Il problema principale riguarda proprio il metodo, che consiste nell’analizzare i dati delle aree intorno ai tratti di foresta da difendere e prevedere quanti alberi verrebbero tagliati se non venissero finanziate iniziative per conservare le foreste.
Fare questo tipo di previsioni è complesso, perché le variabili sono moltissime e il rischio di arrivare a stime non accurate è alto, soprattutto se le aree di riferimento utilizzate come base comparativa hanno caratteristiche diverse rispetto a quelle dove è stato promosso il progetto. Lo hanno dimostrato il Guardian e l’organizzazione ambientalista Greenpeace: all’inizio di maggio una loro inchiesta ha rivelato che il sistema di valutazione dei crediti di carbonio acquistati da sei grandi compagnie aeree, tra cui British Airways e EasyJet, era basato su stime poco attendibili.
– Leggi anche: Le compensazioni delle emissioni delle compagnie aeree sono affidabili?
Alle stesse conclusioni è giunta anche la divisione italiana di Greenpeace, che ha commissionato uno studio scientifico per valutare il progetto Luangwa Community Forests sostenuto da Eni. Greenpeace parla di dati «gonfiati» che portano a sovrastimare la riduzione delle emissioni generate dal progetto. Le osservazioni più puntuali riguardano la densità della popolazione, il rischio di deforestazione e di incendi.
Secondo i documenti del progetto Luangwa Community Forests, il principale rischio per le foreste zambiane è l’aumento della popolazione; il rischio di deforestazione è inoltre calcolato anche in base a una stima della crescita degli abitanti e della densità abitativa: se si ipotizza una densità abitativa molto bassa, come nel caso del progetto di Eni, si rischia di sovrastimare la deforestazione. La differenza tra la densità abitativa rilevata dallo studio di Greenpeace – 29,6 abitanti per chilometro quadrato – e quella dell’area di riferimento considerata dal progetto, 2,75 abitanti per chilometro quadrato, è molto evidente. Il Luangwa Community Forests prevede che nel periodo tra il 2015 e il 2045 ci sia una crescita di densità abitativa identica al periodo tra il 1985 e il 2015, senza considerare una serie di possibili cambiamenti come un aumento dei redditi, l’evoluzione tecnologica, fattori politici e istituzionali. Per questo Greenpeace sostiene che «qualsiasi calcolo di deforestazione evitata derivato proprio dalla densità di popolazione è probabilmente sovrastimato e fuorviante».
Secondo Greenpeace c’è una differenza notevole anche nel tasso di deforestazione annuo considerato nel progetto: è indicato attorno al 2,5%, mentre un recente studio della FAO, realizzato nel 2020, segnala per lo Zambia un valore dello 0,42%. Al contrario, Greenpeace sostiene che il rischio di incendi (e che quindi la foresta protetta venga, anche solo in parte, distrutta) sia sottostimato: il progetto Luangwa Community Forests lo considera minimo, cosa che per Greenpeace è sbagliata anche perché vari studi recenti dicono che l’aumento delle temperature dovuto al cambiamento climatico ha fatto aumentare il rischio che gli incendi si propaghino nelle foreste come quelle dello Zambia.
Un altro punto contestato riguarda la capacità di immagazzinamento di carbonio delle foreste inserite nel progetto. Secondo Greenpeace, se si prende in considerazione una media degli studi su foreste simili a quelle del progetto Luangwa Community Forests, il dato indicato è di circa 108 tCO2e (tonnellate di biossido di carbonio equivalente l’anno) per ettaro, meno della metà di quanto indicato dal partner di Eni (224 tCO2e per ettaro). «Questo significherebbe che, approssimativamente, il progetto finanziato da Eni starebbe considerando il doppio dei crediti di carbonio rispetto a quanto indicato dalla letteratura scientifica», si legge nel rapporto di Greenpeace. «Siamo di fronte a una sovrastima dei benefici climatici del progetto, poiché viene sopravvalutata la riduzione delle emissioni “evitate” grazie al progetto Luangwa Community Forests».
Ma i rilievi di Greenpeace si spingono anche oltre e considerano gli impegni dichiarati da Eni, in particolare l’obiettivo di risparmiare 40 milioni di tonnellate di anidride carbonica all’anno entro il 2050. L’organizzazione ambientalista stima che per assorbire quella quantità di CO2 l’azienda avrebbe bisogno di oltre 12,6 milioni di ettari di foresta, pari a più di tredici progetti come quello dello Zambia. «A Eni servirebbe un’area più estesa dell’intero patrimonio forestale italiano, ovvero una superficie forestale pari a 17 milioni di campi da calcio», dice Greenpeace, con un paragone piuttosto concreto.
– Leggi anche: Nel 2020 abbiamo perso una foresta tropicale grande quanto i Paesi Bassi
Al di là delle criticità rilevate nel caso del progetto in Zambia, in generale Greenpeace è convinta che i progetti di compensazione non aiutino a contrastare l’emergenza climatica perché non riducono la quantità di anidride carbonica nell’atmosfera, e rappresentino una piattaforma per il greenwashing, una strategia di comunicazione che consente alle aziende (energetiche e non solo) di costruire un’immagine ingannevolmente sensibile ai temi ambientali.
Nella sua replica, Eni non è entrata nel merito delle accuse di Greenpeace al progetto in Zambia, ma si è limitata a considerazioni sul valore dei progetti di compensazione che consentono di limitare le emissioni nette di gas serra. Eni ha detto che «la comunità scientifica ha da tempo riconosciuto che la deforestazione è tra le prime cause dell’aumento della concentrazione di gas ad effetto serra in atmosfera e per questo l’azienda ha deciso di impegnarsi nel contrasto alla deforestazione, nella convinzione che il settore privato possa giocare un ruolo rilevante nel mobilizzare le risorse necessarie alla tutela delle foreste, in particolare quelle primarie e secondarie nella fascia tropicale».
In questo contesto i progetti di compensazione rappresentano «un’importante opportunità, non solo per contrastare il cambiamento climatico ma anche per tutelare la biodiversità e gli ecosistemi, contribuendo a uno sviluppo più sostenibile delle comunità locali».
Secondo Eni, i progetti, sviluppati solo dopo il “previo consenso libero e informato” da parte delle comunità locali coinvolte, e in accordo con i governi centrali e locali, sono certificati non solo per il loro contributo al contrasto al cambiamento climatico ma anche per il loro impatto positivo su ecosistemi, biodiversità e sviluppo delle comunità locali, dopo verifica da parte di enti terzi indipendenti.
«Per garantire la qualità dei crediti generati, le attività progettuali sviluppate da Eni sono, attualmente, aderenti agli alti standard di certificazione più elevati, Verified Carbon Standards (VCS) e Climate, Community & Biodiversity (CCB) “Triple Gold”», si legge nella replica. «Le metodologie di calcolo delle emissioni evitate ed i criteri di certificazione sono stati definiti in maniera molto conservativa e su solide basi scientifiche. Verra, organizzazione non governativa statunitense titolare dell’omonimo registro volontario di crediti di carbonio (la stessa ong al centro dell’inchiesta del Guardian e Greenpaece, ndr), sottopone regolarmente a review scientifica le proprie metodologie ed ha ampiamente argomentato circa la loro validità».
– Leggi anche: Quanto è importante l’Amazzonia per la Terra
Eni dice che il supporto a progetti internazionali di conservazione delle foreste rappresenta una soluzione strategica per contrastare il cambiamento climatico e compensare quella parte di emissioni delle proprie attività che le tecnologie attualmente disponibili non consentono di abbattere, «con la consapevolezza che il “conto” delle emissioni globali è unico per tutto il pianeta e che ogni soggetto vi può contribuire attraverso iniziative in ogni parte del mondo».