La variante delta è stimata al 22,7% in Italia
Lo dice l'ultimo rapporto dell'ISS che rileva la prevalenza delle varianti, ricordando l'importanza delle seconde dosi
Venerdì l’Istituto Superiore di Sanità ha pubblicato un nuovo rapporto con i risultati delle indagini sulla prevalenza delle varianti del coronavirus in Italia: basandosi su un campione di 736 sequenziamenti, la stima è che la variante delta riguardi il 22,7 per cento dei casi di positività rilevati, mentre quella alfa (conosciuta in precedenza come “variante inglese”) è scesa al 57,8 per cento, dopo che nella precedente rilevazione si era attestata quasi al 90 per cento. L’indagine dell’ISS non ha rilevato casi di variante beta (identificata per la prima volta in Sudafrica), mentre per quella gamma (conosciuta anche come “variante brasiliana”) è stata attestata una diffusione all’11,8 per cento.
Nell’ultima rilevazione, che risaliva a metà maggio, la variante delta era stata stimata all’1,1 per cento: nonostante l’indagine riguardi un numero di campioni relativamente piccolo, e potenzialmente influenzato dalla presenza di focolai in cui viene identificata una variante e di conseguenza indagati in modo più esteso, sembra chiaro che si stia diffondendo anche in Italia, come succede in molti altri paesi del mondo.
I dati raccolti dall’ISS riguardano campioni che risalgono al 22 giugno, e aggiornano la rilevazione di metà maggio. Sono il risultato di un’indagine rapida incentivata dal ministero della Salute con un’apposita circolare, dopo che a lungo gli sforzi per sequenziare i campioni di materiale virale raccolti nella popolazione al fine di identificare le varianti prevalenti erano stati insufficienti. Con l’avanzare della campagna vaccinale, che oggi è arrivata a coprire con almeno una dose oltre metà della popolazione, capire quali varianti del coronavirus siano in circolazione in Italia è diventato infatti molto importante per monitorare la situazione sanitaria e cercare di prevederne l’evoluzione.
La diffusione della variante delta un po’ ovunque nel mondo è considerata la principale preoccupazione in questa fase della pandemia: in particolare nel Regno Unito, dove nonostante lo stato molto avanzato della campagna vaccinale i casi di contagio da coronavirus sono tornati a salire, proprio per la diffusione della variante delta (ora al 90 per cento) in particolare tra la popolazione più giovane e non ancora vaccinata. Non è un caso se, nonostante i contagi siano in rapidissima crescita e attualmente sopra ai 20mila al giorno (come a inizio febbraio), i decessi si mantengano molto bassi, sotto ai 20 al giorno (a inizio febbraio erano oltre 900).
A riportare l’infezione sono infatti prevalentemente persone con meno rischi di sviluppare forme gravi della COVID-19, gli stessi segmenti di popolazione – giovani e bambini – in cui in percentuale ci sono meno vaccinati. Ma la circolazione della variante delta è un problema anche se non causa immediatamente molti decessi e ricoveri, motivo per cui in queste settimane si sono rinnovati gli appelli per convincere a vaccinarsi anche le persone che finora hanno scelto di non farlo.
I dati preliminari raccolti in tutto il mondo dicono che i vaccini finora autorizzati e più impiegati – quelli di Pfizer-BioNTech, Moderna e AstraZeneca – forniscono una buona protezione anche contro la variante delta, a patto di avere completato il ciclo vaccinale. Una sola dose del vaccino è infatti meno efficace rispetto alla protezione offerta contro le prime versioni del coronavirus, emerse tra la fine del 2019 e i primi mesi del 2020. Per questo autorità sanitarie ed esperti stanno raccomandando di accelerare le somministrazioni delle seconde dosi.
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Stando ai dati finora raccolti in diversi paesi, sembra che la variante delta sia particolarmente contagiosa mentre non è chiaro se causi con maggiore frequenza i sintomi più gravi della COVID-19. Oltre a essere protetta meglio, in ogni caso, una popolazione con un alto numero di completamente vaccinati riduce sensibilmente la circolazione del coronavirus e di conseguenza il rischio che emergano nuove varianti, che potrebbero portare il virus a sviluppare una maggiore resistenza nei confronti dei vaccini.