Nessuno sa cosa succederà all’economia
La pandemia ha reso il presente troppo diverso dal passato, e i tradizionali strumenti predittivi non funzionano più per fenomeni come inflazione e occupazione
La necessità di prendere decisioni ci spinge da sempre a tentare di prevedere il futuro. Conoscere in anticipo i possibili scenari futuri e gli effetti delle nostre possibili scelte in ognuno di essi ci permette infatti di decidere con relativa sicurezza, convinti di stare facendo la scelta migliore. Per fare quello che molto tempo fa era affidato ad aruspici, cartomanti e astrologi, oggi esistono fortunatamente strumenti ben più precisi e sicuri, che però la pandemia ha almeno in parte messo in crisi. Uno dei campi in cui questa improvvisa incertezza appare maggiore è l’economia: prevedere come evolveranno grandezze macroeconomiche come l’occupazione e l’inflazione si sta rivelando ancora più difficile che in passato.
Tanto che, come ha scritto Vox dopo aver sentito le opinioni di diversi esperti che queste previsioni le fanno per lavoro, «chiunque dica di sapere esattamente cosa succederà all’economia mente». Il problema è che strumenti come l’analisi delle serie storiche (cioè serie di dati distribuiti in ordine di tempo) e più in generale i modelli che tentano di spiegare i fenomeni in base all’osservazione delle interazioni tra fatti avvenuti in passato smettono di funzionare quando il presente diventa improvvisamente diversissimo dal passato. E quindi non si può partire dal presupposto che quelle interazioni tra fatti siano ancora valide come prima e continueranno a esserlo nel futuro, perlomeno a breve termine. Proprio come succede, per esempio, in una pandemia globale.
Per certi tipi di fenomeni, la nostra conoscenza del futuro sarà sempre “incerta”, nel significato che a questa locuzione dava l’economista inglese John Maynard Keynes, uno dei più influenti del secolo scorso. Nella sua Teoria generale dell’occupazione del 1937, Keynes scrisse:
Con il termine “conoscenza incerta”, vorrei spiegare, non intendo semplicemente distinguere ciò che è conosciuto con certezza da ciò che è solamente probabile: il gioco della roulette non è soggetto, in questo senso, a incertezza […]. Il significato in cui io uso questo termine è quello per cui si può dire che sono incerti la prospettiva di una guerra in Europa, o il prezzo del rame e il tasso di interesse di qui a vent’anni […]. Su queste cose non c’è alcuna base scientifica su cui poter fondare un qualsivoglia calcolo probabilistico. Noi semplicemente non sappiamo.
Nel caso della roulette, gli scenari possibili sono un numero finito: la pallina dovrà per forza fermarsi in uno dei 37 settori numerati. Perciò, in questo caso, possiamo calcolare con precisione la probabilità che essa vada a finire, per esempio, sul numero 9: è il 2,7 per cento. In altre parole, ogni 100 giri della ruota, possiamo aspettarci che il nove esca tra le 2 e le 3 volte. Quando però gli scenari possibili sono infiniti, il calcolo probabilistico ci è poco d’aiuto: ma anche in questi casi la necessità di prendere decisioni ci porta a tentare di fare previsioni sul futuro.
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Lo facciamo in vari modi, per esempio selezionando un numero ristretto di scenari che ci sembrano plausibili e attribuendo loro una probabilità (più o meno arbitrariamente); oppure analizzando le serie storiche o costruendo modelli matematici. Questi strumenti, anche quando ritenuti a lungo efficaci, pur con margini di errore, possono però smettere di funzionare piuttosto improvvisamente.
Ne abbiamo avuto un chiaro esempio con la pandemia da coronavirus. Nonostante qualcuno, come il miliardario Bill Gates e la giornalista scientifica vincitrice del premio Pulitzer Laurie Garrett, avessero profetizzato per anni la possibilità che un fenomeno del genere si verificasse, tutti i governi del mondo si sono trovati impreparati alla diffusione del virus. La pandemia non era quindi tra gli scenari previsti da chi governava o, se lo era, le veniva attribuita una probabilità talmente bassa o una pericolosità tanto trascurabile da non giustificare le spese necessarie a prevenirla.
La scelta (o la non-scelta) che ha portato il mondo intero a trovarsi impreparato in questa situazione ha comportato costi enormi, sia in termini di vite umane (quasi 4 milioni di morti registrate ufficialmente finora), sia in termini economici. Questi sono incalcolabili, ma l’Economist si è azzardato a stimare che supereranno i 10 mila miliardi di dollari in termini di mancato reddito solo nel 2020 e nel 2021. Una cifra enorme rispetto a quella che sarebbe bastato investire per prevenire il danno: 5 dollari a testa, che fanno 38 miliardi di dollari in tutto, secondo il World Economic Forum. Per non parlare della mole di debito che i governi hanno dovuto sottoscrivere per coprire le spese necessarie a fronteggiare la crisi: circa 12 mila miliardi di dollari solo nel 2020, a cui l’Istituto di Finanza Internazionale stima se ne aggiungeranno altri 10 mila miliardi quest’anno.
Gli effetti che l’enorme aumento di spesa pubblica e debito avranno sull’economia rientrano tra quei fenomeni difficili da prevedere con esattezza, soprattutto nel breve termine. Da quando la pandemia è iniziata, il compito di economisti e analisti, a cui la società chiede di stimare come evolveranno grandezze macroeconomiche come l’occupazione e l’inflazione, è diventato ancora più arduo che in passato. La natura straordinaria della situazione in cui ci troviamo da un anno e mezzo rende infatti pressoché impossibile fare previsioni accurate sul prossimo futuro, in molti casi.
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Per esempio, le previsioni fatte attraverso l’osservazione delle serie storiche si basano spesso sul prolungamento nel futuro di una tendenza osservata fino a oggi, motivo per cui si chiamano anche proiezioni. Ma la pandemia ha interrotto le tendenze in molti casi, facendo registrare valori molto più alti o molto più bassi di quelli attesi.
Un esempio eclatante è quello del tasso di partecipazione al mercato del lavoro negli Stati Uniti, cioè del numero di persone che lavorano o stanno cercando un impiego sul totale della popolazione in età da lavoro. Negli ultimi trent’anni, questo tasso ha mostrato una tendenza discendente con alti e bassi, ma sempre entro un certo intervallo, passando da poco meno del 67 per cento nel 1990 a poco più del 63 per cento prima della pandemia. Con la diffusione del virus negli Stati Uniti, la partecipazione è crollata al 60 per cento in soli quattro mesi, perché molte persone hanno perso il lavoro e non hanno potuto cercarne un altro per vari motivi. Con questo brusco ribasso, il tasso è uscito dall’intervallo osservato fino ad allora, accelerando in maniera imprevista la tendenza osservata in passato.
Da agosto 2020, la partecipazione è poi risalita al 62 per cento, valore attorno al quale si è fermata nell’ultimo anno. Ma un anno di dati mensili è troppo poco per capire se si sia affermata una nuova tendenza. Inoltre, la pandemia è un fenomeno complesso e non abbiamo dati su un numero sufficiente di precedenti: sappiamo che ci sono state molte epidemie in passato, e per le più recenti sappiamo anche che effetti hanno avuto sull’economia, ma ognuna è diversa e non possediamo abbastanza dati di casi diversi per fare previsioni che abbiano una valenza statistica.
Non sappiamo perciò se la pandemia darà luogo a nuove tendenze di lungo periodo o se invece i suoi effetti costituiscano solo un’interruzione di quelle viste finora e siano quindi destinati a essere temporanei. Perciò, per tornare a fare proiezioni attendibili, bisognerà aspettare di avere abbastanza dati perché si formi una nuova tendenza.
Un discorso leggermente diverso vale per l’inflazione, cioè l’aumento dei prezzi. Negli ultimi mesi, il tasso d’inflazione è aumentato sia in Europa che, in misura ancor maggiore, negli Stati Uniti. Ciò ha portato la Federal Reserve a prevedere di alzare i tassi di interesse entro la fine del 2023 (aumentare i tassi di interesse fa salire il valore del denaro, contenendo l’inflazione).
Ma se si guarda un grafico che mostra il tasso di inflazione negli Stati Uniti dagli anni Cinquanta a oggi, si noterà che il tasso d’inflazione corrente, salito il mese scorso al 5 per cento, è ancora contenuto negli intervalli visti finora. L’osservazione della serie storica non è perciò molto d’aiuto in questo caso, e le previsioni verranno fatte principalmente osservando fattori che in passato hanno influenzato l’inflazione, come l’emissione di moneta (più ce n’è in circolo, più i prezzi tendono a salire), la spesa pubblica, il livello degli stipendi (più salgono, più i prezzi tendono ad aumentare) e il prezzo delle materie prime, prima fra tutte il petrolio (più aumenta, più il costo di produzione dei beni sale, facendo crescere i prezzi).
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Tutte queste variabili sono cresciute nell’ultimo periodo, motivo per cui molti analisti hanno previsto un aumento dell’inflazione che si sta in effetti verificando. Il problema è che nessuno sa con certezza se questo aumento sia temporaneo o destinato a durare a lungo, perché è la prima volta che ci troviamo in una situazione del genere.
Come ha detto a Vox Claudia Sahm, ex economista presso la Federal Reserve: «C’è sempre questa incertezza, e ci vuole un po’ di tempo per ottenere abbastanza dati per formare una narrazione. Un fenomeno complesso ha cause complesse».