Le violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, dall’inizio
Cosa sappiamo sui fatti del 6 aprile 2020, quando decine di persone detenute subirono una violenta rappresaglia dopo una protesta
La ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha chiesto «un rapporto completo su ogni passaggio di informazione e sull’intera catena di responsabilità» per le violenze del 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, condotte dagli agenti di polizia penitenziaria della struttura ed esterni contro 300 persone detenute. Sulla vicenda stava indagando da tempo la magistratura, ma il tema è tornato di attualità in seguito alla diffusione dei video delle telecamere interne del carcere, diffusi dal quotidiano Domani, che hanno mostrato in modo inequivocabile le violenze condotte su persone che non avevano modo e possibilità di difendersi.
Proteste e pandemia
Il carcere di Santa Maria C.V. viene spesso descritto dalle associazioni che si occupano dei diritti delle persone detenute come mal tenuto, con scarse condizioni igieniche e infestato dagli insetti, a causa della sua vicinanza a una discarica. La struttura ospita un migliaio di persone (la sua capienza massima è di 809 posti) suddivise in vari reparti che si chiamano con i nomi di alcuni fiumi come Danubio, Tevere e Nilo.
All’inizio di aprile del 2020, in alcune sezioni del reparto Nilo ci furono proteste e manifestazioni da parte delle persone detenute, che chiedevano la possibilità di avere mascherine e igienizzanti per le mani per ridurre il rischio di diffusione del coronavirus nella struttura e contestavano la sospensione delle visite. La protesta era iniziata quando nel carcere era circolata la notizia che un addetto alla distribuzione della spesa fosse stato messo in isolamento, con febbre alta e altri sintomi, e che in seguito fosse risultato positivo al coronavirus.
Il 5 aprile la protesta si fece più intensa, con un centinaio di persone detenute che iniziarono a battere contro le sbarre delle celle. Improvvisarono anche la costruzione di una sorta di barriera con alcune brande, continuando a chiedere che fossero distribuiti dispositivi di protezione individuale contro il coronavirus. Proteste simili avevano interessato anche altre carceri, dove il sovraffollamento aveva reso evidente quanto fosse impossibile praticare il distanziamento fisico, ma soprattutto in seguito alla decisione di sospendere le visite dei parenti per ridurre il rischio di contagi provenienti dall’esterno delle strutture.
6 aprile 2020
Il giorno dopo la protesta, nel carcere di Santa Maria C.V. la situazione era relativamente tranquilla, soprattutto se confrontata con quella del giorno precedente. Circa 300 tra agenti di polizia penitenziaria del carcere ed esterni – sovrintendenti, ispettori, commissari e appartenenti al Gruppo di supporto agli interventi (una struttura che dipende dal provveditore regionale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) – organizzarono secondo la magistratura «perquisizioni personali arbitrarie e abusi di autorità», allo scopo di dare una risposta alle proteste del giorno precedente nel reparto Nilo.
L’iniziativa era stata definita una «perquisizione straordinaria generale», ma nei fatti fu una sorta di rappresaglia con ripetute violenze nei confronti delle persone detenute, che durarono per circa quattro ore. I video mostrano agenti che presero a schiaffi, pugni e calci le persone detenute, che provarono a ripararsi dai colpi cercando di proteggere per lo meno la testa. Furono anche utilizzati manganelli, il cui impiego è consentito solo in rarissime circostanze e per motivi di immediato pericolo e urgenza, che non sembravano essere presenti al momento della “perquisizione”.
Messaggi e intercettazioni
Secondo i magistrati, gli scopi dell’intervento al carcere di Santa Maria C.V. sono evidenti leggendo alcuni messaggi che si scambiarono gli agenti coinvolti e ascoltando alcune intercettazioni telefoniche. Pasquale Colucci, all’epoca responsabile del Gruppo di supporto agli interventi, e Gaetano Manganelli, comandante della polizia penitenziaria di Santa Maria C.V., si scambiarono informazioni al telefono parlando di «quattro ore di inferno» per le persone detenute nel carcere: «L’operazione ha interessato 8 sezioni del reparto Nilo: non si è salvato nessuno».
In altre conversazioni intercettate ci sono espressioni come «li abbattiamo come i vitelli», «domate il bestiame» e «domani chiave e piccone in mano» riferite alle persone detenute. Secondo i magistrati da questi e altri documenti emergerebbe quanto molti degli agenti coinvolti ritenessero di potere agire liberamente e senza conseguenze per il loro operato.
Testimonianze
Nelle settimane successive alle violenze del 6 aprile, diverse persone detenute o da poco uscite dal carcere denunciarono quanto avvenuto nel reparto Nilo. Seguirono denunce ed esposti anche da parte di alcune associazioni, mentre diversi ospiti del carcere furono trasferiti in altre strutture.
Una persona detenuta raccontò di essere stata presa a pugni mentre subiva una perquisizione da una guardia dell’ufficio matricola: «Ridendo diceva testualmente: “E bravo, sei il primo carcerato che ha detto la verità”, alludendo al fatto che non avevo telefonini con me». Un agente minacciò alcuni occupanti di una cella dicendo che sarebbe tornato il giorno successivo per picchiarli. Altri subirono aggressioni mentre venivano fatti transitare da una sezione a un’altra del carcere, come mostrato anche dai video del sistema di telecamere interno.
Salvatore Q., un uomo di 45 anni che all’epoca era in carcere con l’accusa di spaccio e ora è agli arresti domiciliari, ha detto a Repubblica che dopo i maltrattamenti la sua schiena era piena di lividi e versamenti, che impiegarono mesi per risolversi: «Ma parliamo degli effetti che si vedono. Poi ci sono quelli che non si vedono. Parlo del fatto che, anche quando sono andato fuori dal carcere di Santa Maria, non ho più dormito per settimane».
Ha poi raccontato che il 6 aprile gli agenti arrivati dall’esterno avevano tutti i caschi e il volto coperto per non farsi riconoscere. La magistratura sta infatti ancora faticando a identificare chi fosse presente nel carcere quel giorno e portò avanti le violenze: «Ci costringevano a uscire e ci buttavano nei corridoi. Dove c’erano decine di loro a destra e a sinistra. Noi passavamo in mezzo: arrivavano manganelli, calci, pugni. Io ho preso un sacco di cazzotti e colpi alla schiena, me l’hanno fotografata, sta agli atti».
Hakimi Lamine, un uomo di 28 anni di origini algerine e con problemi di schizofrenia, subì la frattura del naso e fu lasciato in isolamento per un mese circa, prima che morisse secondo la magistratura a seguito dell’assunzione contemporanea di diversi psicofarmaci. Un’altra persona detenuta e con problemi di disabilità, costretto su una sedia a rotelle, fu picchiato al petto e alla testa con un manganello.
Indagini e arresti
La procura di Santa Maria C.V. ha emesso un’ordinanza a carico di 52 persone, che ha previsto l’arresto in carcere per 8 persone, 18 ai domiciliari e 23 misure interdittive con sospensione dal pubblico ufficio. Tra i coinvolti ci sono il provveditore delle carceri della Campania, Antonio Fullone, e i già citati Manganelli e Colucci.
L’indagine era iniziata in seguito a un esposto presentato dal Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, e grazie alle denunce dei familiari delle persone detenute. I video sequestrati nel carcere e le telefonate con i parenti hanno poi permesso di avere prove ancora più consistenti, e che confermano buona parte delle segnalazioni e delle denunce raccolte tra chi era presente nella struttura.
Secondo la magistratura, alla “perquisizione” parteciparono 283 agenti, 144 dei quali provenivano dal carcere di Secondigliano, a Napoli, e per i quali è ancora in corso l’identificazione, perché avevano il volto coperto o indossavano un casco.
I primi avvisi di garanzia erano stati consegnati agli agenti circa un anno fa, con alcune proteste da parte degli interessati, che erano saliti sul tetto della struttura per contestare la decisione e la scelta di consegnare gli atti in presenza dei familiari delle persone detenute.
Reazioni
Negli ultimi giorni numerosi esponenti politici hanno chiesto di fare rapidamente chiarezza su quanto avvenne a Santa Maria C.V., condannando le violenze degli agenti. I fatti risalgono a quando era ministro della giustizia Alfonso Bonafede (M5S), che in Parlamento commentò le proteste per la pandemia nelle carceri con parole piuttosto perentorie: «Le rivolte in carcere sono atti criminali di minoranza, lo Stato non indietreggia».
Il leader della Lega, Matteo Salvini, ha espresso la propria solidarietà nei confronti degli agenti della polizia penitenziaria, dicendo che: «Non si possono coinvolgere tutti i 40mila donne e uomini di polizia penitenziaria e non si possono sbattere in prima pagina nomi e cognomi, serve rispetto per uomini in divisa che proteggono in strada, i singoli errori vanno puniti, conosco quei padri di famiglia sotto accusa e sono convinto che non avrebbero fatto nulla di male».
Il 30 giugno presso il ministero della Giustizia è stata organizzata una riunione per fare il punto sulle carceri e le condizioni in cui si trovano persone detenute e in cui lavorano gli agenti. La ministra Cartabia ha detto che quanto accaduto è «un’offesa e un oltraggio alla dignità della persona dei detenuti e anche a quella divisa che ogni donna e ogni uomo della polizia penitenziaria deve portare con onore, per il difficile, fondamentale e delicato compito che è chiamato a svolgere. […] È un tradimento della Costituzione: l’articolo 27 esplicitamente chiama il “senso di umanità”, che deve connotare ogni momento di vita in ogni istituto penitenziario».
Altri casi
Tra marzo e aprile del 2020 in molte altre carceri ci furono proteste legate alla pandemia e alla mancanza di piani chiari su come affrontarla, sia dal punto di vista sanitario sia per la gestione delle visite dall’esterno e più in generale della vita negli istituti penitenziari. In quel periodo ci furono 13 morti e 69 feriti tra le persone detenute, più decine di agenti feriti. Alcune inchieste giudiziarie sono in corso, ma a distanza di un anno e mezzo non sono state ancora identificate le responsabilità.