L’Iraq è in mezzo
In mezzo alla rivalità tra Iran e Stati Uniti, che da tempo lo usano per colpirsi reciprocamente e ottenere vantaggi che riguardano tutt'altro
Tra domenica e lunedì Iran e Stati Uniti si sono colpiti reciprocamente in Iraq, paese che da tempo è diventato una specie di terreno di scontro indiretto tra i due governi nemici. Domenica sera l’amministrazione di Joe Biden ha ordinato il bombardamento di obiettivi vicini al confine tra Iraq e Siria legati alle milizie sciite filo-iraniane che da anni operano in territorio iracheno, diventate nel tempo molto influenti; l’operazione era stata decisa come ritorsione per precedenti attacchi coi droni compiuti dalle milizie contro obiettivi militari statunitensi in Iraq, ed è stata seguita da un ulteriore e reciproco scambio di razzi e colpi di artiglieria.
Nonostante non sia la prima volta che forze statunitensi e milizie sciite filo-iraniane si scontrano in Iraq, quello che sta succedendo in questi giorni sta preoccupando analisti e osservatori, che hanno parlato di «punto di rottura» e della «più grande minaccia alla stabilità dell’Iraq da quando lo Stato Islamico marciava verso Baghdad, nel 2014». L’Iraq, infatti, è uno stato che non si può definire “stabile” o “solido”: le tensioni che avevano favorito l’ascesa dello Stato Islamico non sono mai state risolte e il governo è fragile e accusato periodicamente di inefficienza e corruzione. Inoltre l’ingombrante presenza di potenze esterne limita l’autonomia e l’indipendenza del paese, lasciandolo spesso in balìa delle tensioni esterne: ed è quello che sta succedendo in questi giorni con gli attacchi reciproci tra Stati Uniti e Iran.
Come detto, la situazione attuale non è inedita. L’Iraq è da tempo territorio di scontro tra americani e iraniani, perché permette ai due governi avversari di non colpirsi direttamente, evitando così una rapida escalation di violenze, che potrebbe portare all’inizio di una guerra vera e propria.
Il fatto di non colpirsi direttamente dipende dalla relativa ambiguità delle milizie sciite filo-iraniane presenti in Iraq, che non fanno parte dell’esercito iraniano, ma che sono state in parte addestrate e finanziate dall’Iran: sono le stesse milizie che durante la guerra contro lo Stato Islamico si allearono con l’esercito iracheno, con l’obiettivo comune di sconfiggere l’ISIS. Nel corso del tempo sono diventate sempre più influenti e sono state integrate ufficialmente nell’esercito iracheno: negli ultimi anni, a causa delle difficoltà economiche dell’Iran dovute per lo più alle sanzioni internazionali e alla pandemia, hanno cominciato inoltre a essere finanziate dal governo dell’Iraq, rendendo estremamente complicato un loro eventuale scioglimento.
L’influenza che esercitano oggi queste milizie, rafforzata anche dalla presenza dell’Iran in molti altri aspetti della politica e dell’economia irachena, ha spinto il governo dell’Iraq a condannare gli attacchi compiuti dagli Stati Uniti tra domenica e lunedì. Il governo ha descritto i bombardamenti americani nel suo territorio come una «spudorata e inaccettabile violazione della propria sovranità e sicurezza nazionale», una cosa già successa in passato, per esempio dopo l’uccisione del potente generale iraniano Qassem Suleimani a Baghdad nel gennaio 2020. Il governo ha detto inoltre di essere in «uno stato avanzato» dei colloqui con gli americani per quanto riguarda il ritiro dei soldati statunitensi dall’Iraq, che oggi sono circa 2.500.
Nonostante le condanne pubbliche, sembra però complicato per l’Iraq liberarsi della presenza e influenza degli americani.
Gli Stati Uniti, infatti, sono presenti in Iraq dalla destituzione del regime dell’ex presidente Saddam Hussein, nel 2003, arrivata a seguito dell’invasione americana del paese. Oggi i soldati americani si trovano in territorio iracheno su invito del governo di Baghdad, che continua a fare affidamento sulla forza aerea, sull’intelligence e sulle operazioni di ricognizione e sorveglianza garantite dalle forze americane in funzione anti-ISIS. Allo stesso tempo l’amministrazione di Joe Biden sembra essere sempre più preoccupata del crescente uso di piccoli droni carichi di esplosivo da parte delle milizie sciite, che continuano a compiere attacchi contro basi militari irachene che ospitano unità della CIA e delle forze speciali americane.
È difficile dire con esattezza se i recenti attacchi compiuti dalle milizie sciite contro obiettivi americani siano stati tutti diretti dall’Iran, o se alcuni di questi siano stati decisi in autonomia in Iraq. Diversi analisti hanno tuttavia legato gli ultimi avvenimenti ai colloqui in corso a Vienna tra Stati Uniti e Iran per provare a far ripartire l’accordo sul nucleare iraniano firmato nel 2015 e poi affossato dal governo di Donald Trump nel 2018. Le provocazioni iraniane potrebbero quindi essere finalizzate a mettere pressione sugli Stati Uniti, in un momento in cui i colloqui non sembrano andare per niente bene: in una recente intervista data al New York Times, il segretario di Stato americano Antony Blinken ha detto infatti che l’amministrazione Biden «era molto vicina» a ritirarsi dai negoziati, a causa della rigidità delle posizioni iraniane (il governo iraniano ha accusato a sua volta gli Stati Uniti di non voler fare alcune concessioni, che l’Iran ritiene imprescindibili per andare avanti a parlare).
È difficile anche fare previsioni su quello che succederà, sia tra Iran e Stati Uniti sia all’Iraq. L’incertezza deriva in parte dalla recente elezione a presidente iraniano dell’ultraconservatore Ebrahim Raisi, considerato molto vicino alla Guida suprema, Ali Khamenei, che rappresenta l’ala più radicale e intransigente del regime in Iran. Raisi è stato eletto in un voto molto contestato, dal quale erano stati esclusi tutti i principali e più importanti candidati moderati e riformisti, e a cui aveva partecipato meno della metà degli aventi diritto al voto. La sua elezione, considerata scontata già diverse settimane prima del voto, ha certamente spostato il regime iraniano ancora più a destra, ricompattando in parte una frattura che si era creata durante gli anni di presidenza di Hassan Rouhani, moderato e principale promotore dell’accordo sul nucleare del 2015.
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Nonostante le preoccupazioni su un possibile atteggiamento sempre più aggressivo dell’Iran all’estero, alcuni analisti ritengono che l’elezione di Raisi possa in qualche modo favorire i colloqui di Vienna. Come hanno scritto Ali Vaez e Dina Esfandiary dell’International Crisis Group, i negoziatori iraniani potrebbero accelerare il raggiungimento di un accordo prima che Rouhani lasci la presidenza, per lasciare poi al nuovo regime ultraconservatore la possibilità di incolpare il precedente governo di eventuali fallimenti.
L’imprevedibilità del regime iraniano, almeno in questa fase, rende molto difficile dire con relativa certezza cosa potrebbe succedere in Iraq tra Stati Uniti e milizie sciite filo-iraniane in caso di raggiungimento di un accordo a Vienna, o in caso di fallimento dei negoziati. Al momento, comunque, sembra molto improbabile che l’Iraq possa uscire dall’impasse in cui si trova, così come sembra improbabile che Stati Uniti e Iran possano perdere in fretta l’influenza che esercitano oggi in territorio iracheno.