Perché mancano i lavoratori stagionali
È un grosso problema per il turismo, e tanti hanno tirato in ballo il reddito di cittadinanza: le cause sono varie e complesse, alcune strutturali e altre legate alla pandemia
Dalla metà di maggio, come in parte era già successo in passato nello stesso periodo, molti imprenditori del turismo hanno iniziato a lamentarsi per la mancanza dei cosiddetti lavoratori stagionali, assunti durante i mesi estivi. Non si trovano baristi, camerieri, cuochi, addetti alle pulizie, bagnini.
Nelle ultime settimane i giornali nazionali e locali hanno pubblicato diverse testimonianze di imprenditori costretti a limitare giorni e orari di apertura a causa della mancanza di personale, e spesso le stime sulla mancanza di lavoratori sono state accostate all’aumento dei disoccupati registrato dall’Istat. Un paradosso – migliaia di persone non hanno un lavoro, ma mancano i lavoratori – che è difficile spiegare con i singoli casi, e per il quale molto spesso viene riportata soltanto la versione dei datori di lavoro.
Questa situazione è il risultato di cause diverse e complesse, alcune strutturali e altre legate alla pandemia. C’entrano i problemi storici del mercato del lavoro italiano, in primo luogo la precarietà e il nero, della concorrenza di altri settori che offrono posti di lavoro più stabili e stipendi più alti, ma anche alcune condizioni dovute alle trasformazioni nelle abitudini nell’ultimo anno e mezzo, l’improvvisa ripresa seguita alle chiusure per limitare i contagi, oltre che i particolari effetti connessi alle misure di sostegno economico decise dal governo nell’ultimo anno e mezzo.
Una delle ragioni più citate per spiegare la mancanza dei lavoratori stagionali è la possibile concorrenza del reddito di cittadinanza, che dissuaderebbe molte persone dall’accettare un lavoro. Il ministro del Turismo, Massimo Garavaglia, ha detto che l’intervento dello Stato dovrebbe essere temporaneo, «perché se si dà l’idea che sia strutturale si distorce il mercato». Ma la vera riflessione, sottolineano in molti, dovrebbe piuttosto riguardare la qualità e la retribuzione di quei lavori eventualmente rifiutati per continuare a percepire sussidi che ammontano solitamente a qualche centinaio di euro al mese, una somma ben al di sotto di un salario minimo.
Gli ultimi dati, pubblicati dall’INPS e aggiornati a maggio 2021, dicono che in tutta Italia un milione e 175mila nuclei famigliari ricevono l’assegno. L’importo medio mensile è di 582 euro. Secondo molti esperti, quindi, il problema non è il sostegno economico garantito alle persone in povertà, ma la qualità non adeguata delle offerte contrattuali. I lavori stagionali sono precari, con stipendi troppo bassi, non sempre regolari e con turni lunghi e sfiancanti. Non sono rari i casi in cui al contratto regolare di venti ore settimanali si aggiungono molte altre ore in nero, con orari e salari decisi unilateralmente dal titolare.
Secondo i sindacati questa situazione è piuttosto diffusa in tutte le regioni più turistiche. «L’importo medio dimostra la mistificazione della presunta convenienza del reddito di cittadinanza» dice Christian Ferrari, segretario regionale della Cgil in Veneto, una delle regioni dove negli ultimi giorni si è più discusso della mancanza di lavoratori stagionali. «Il vero problema è che nel turismo vengono offerti posti di lavoro di scarsissima qualità, con salari da fame. La precarietà è altissima e le zone di “nero” sono ampie. L’ispettorato del lavoro ha registrato irregolarità nella gestione dei dipendenti nel 73 per cento delle aziende ispezionate».
Più che il reddito di cittadinanza, sono altri settori più competitivi a fare concorrenza al turismo. A causa della riduzione dei mesi di contratto e degli orari legata alle incertezze delle riaperture, già dallo scorso anno molti lavoratori hanno risposto alle offerte più vantaggiose di settori come la logistica, in forte espansione. In una situazione di generale incertezza, contratti più lunghi e stipendi più alti hanno convinto molti a cambiare lavoro. Questo è un fenomeno che interessa anche molti altri paesi, a partire dagli Stati Uniti.
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In alcuni casi, piuttosto limitati, c’è stato anche un allargamento dell’offerta. In Liguria, per esempio, la domanda di bagnini è stata più elevata rispetto agli anni scorsi perché sono stati richiesti anche dalle amministrazioni comunali, oltre che dagli stabilimenti balneari, per garantire il rispetto delle norme anti contagio sulle spiagge libere.
Ma il tema dei sussidi va comunque considerato, perché negli ultimi mesi si sono verificate particolari condizioni da non sottovalutare. Come ha notato Francesco Seghezzi, economista e presidente della fondazione Adapt, dal marzo 2021 sono cambiate alcune delle regole per accedere al sussidio di disoccupazione, la Naspi. Non è più necessario aver lavorato almeno trenta giornate nell’anno precedente e allo stesso tempo è stata sospesa la riduzione del 3 per cento mensile del sussidio dopo il quarto mese dalla prima erogazione. A questi benefici si aggiungono anche i bonus concessi dal governo alle categorie interessate dagli effetti dell’epidemia, tra cui gli stagionali: dopo i 2.400 euro garantiti del decreto sostegni, negli ultimi giorni sono iniziati i pagamenti dei 1.600 euro previsti dal decreto ristori.
Oltre al contesto eccezionale degli ultimi mesi, secondo Seghezzi intervengono anche altri limiti storici del mercato del lavoro italiano: «c’è una narrazione di alcuni lavori che non rende merito all’importanza di queste professioni: il cameriere è un lavoro nobile, lo è sempre stato, ma spesso si pensa il contrario, anche a causa di chi non rispetta i contratti e paga in nero».
Un altro limite storico del mercato del lavoro è l’inadeguatezza del sistema che dovrebbe incrociare domanda e offerta. I Centri per l’impiego, gli ex uffici di collocamento gestiti dalle province, non riescono a raggiungere gli obiettivi per cui sono stati creati e finanziati. Nel 2018 solo il 2,1 per cento delle persone che hanno trovato un’occupazione nel privato è passato dai Centri per l’impiego: 23mila persone.
Questa inefficienza coinvolge direttamente anche il reddito di cittadinanza, inizialmente pensato, oltre che come misura per contrastare la povertà, come strumento per attivare il mercato del lavoro. Su 1,05 milioni di persone tenute alla sottoscrizione del Patto per il Lavoro, che impegna i percettori del reddito a rispondere alle offerte garantite dai Centri per l’impiego, sono state prese in carico 327.555 persone, meno di un terzo. Secondo gli ultimi dati ufficiali, aggiornati al 10 febbraio 2021, in 152.673 hanno trovato un lavoro dopo la presentazione della domanda, il 15,19% degli occupabili.
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Anche in questo caso, il contesto seguito all’emergenza coronavirus ha aggravato un problema che già esisteva. Nelle ultime settimane, la grande velocità della ripresa dopo i mesi delle chiusure – difficile da prevedere e quindi da pianificare – ha evidenziato l’impreparazione di chi deve incrociare domanda e offerta. Molti imprenditori, come è già successo in passato, hanno cercato lavoratori stagionali esclusivamente nella rete di conoscenze, inevitabilmente ristretta e chiusa rispetto a una platea potenzialmente più ampia di persone in cerca di un lavoro.
Nelle testimonianze uscite sui giornali, peraltro, ci sono stati anche diversi casi in cui i datori di lavoro si sono lamentati delle richieste di informazioni sugli stipendi ai colloqui, descritte come pretese ingiustificate e che indicherebbero mancanza di professionalità. Dimostrando quello che secondo molti è un atteggiamento diffuso e probabilmente legato alle difficoltà economiche attraversate da molti imprenditori nell’ultimo anno e mezzo, ma che evidentemente può rappresentare un disincentivo per i potenziali candidati e che quindi potrebbe anche spiegare in parte le difficoltà a reperire personale.
Le cause del fenomeno sono comunque tante e difficili non solo da valutare ma anche da elencare, e riguardano anche trasformazioni economiche avvenute con la pandemia, per esempio le diminuzioni dei consumi che in certi casi hanno temporaneamente ridotto le necessità di spesa delle famiglie. Le conseguenze dell’epidemia sono intervenute comunque sul mercato del lavoro in molti modi, anche più obliqui, per esempio disincentivando alcune persone dallo scegliere lavori che prevedono un costante contatto col pubblico, per preoccupazioni sanitarie, ma anche modificando le vite delle persone, per esempio per quanto riguarda i luoghi di residenza. Una parte dei lavoratori stagionali sono per esempio studenti universitari fuorisede, che in molti casi nell’ultimo anno non hanno vissuto nelle città dei loro atenei, dove pagavano un affitto lavorando per esempio nei bar o nei ristoranti.