Negli Stati Uniti il mercato del lavoro sta cambiando, a favore dei lavoratori
Aumentano gli stipendi e migliorano le condizioni per molte categorie, mentre in Europa è più complicato
di Leonardo Siligato
Diverse testate giornalistiche americane hanno scritto che, negli Stati Uniti, le imprese faticano sempre più a trovare lavoratori. Questo fatto, dovuto in parte alla pandemia da coronavirus e in parte a cause già esistenti, sta facendo guadagnare potere contrattuale ai dipendenti nei confronti dei datori di lavoro e implica non soltanto, come prevedibile, che gli stipendi stiano generalmente aumentando (in alcuni settori più che in altri), ma anche che le imprese siano sempre più disposte a scendere a patti sulle condizioni contrattuali, concedendo ai dipendenti più flessibilità in termini di orari, più lavoro da casa, più bonus e più possibilità di formazione, come ha scritto il New York Times.
Grazie alla rimozione delle restrizioni imposte per contrastare la pandemia, in molti settori le società hanno ricominciato a cercare lavoratori per riprendere le proprie attività a pieno ritmo: a fine aprile, ultimo mese per cui abbiamo il dato, negli Stati Uniti c’erano 9,3 milioni di posizioni aperte, un massimo storico. Allo stesso tempo però, riempire le posizioni vacanti è diventato sempre più difficile benché il numero di disoccupati consentirebbe (in linea puramente teorica) di occuparle: a maggio c’erano per l’appunto 9,3 milioni di individui in cerca di un impiego, il 5,8 per cento della forza lavoro – cioè l’insieme delle persone in età lavorativa che hanno un’occupazione (occupati) o la stanno cercando (disoccupati).
Questo fenomeno si sta verificando soprattutto nei settori che impiegano molto personale senza qualifiche particolari, come la ristorazione, i trasporti, la logistica e l’industria. Il concetto è controintuitivo, perché lavoratori meno specializzati dovrebbero essere più facili da reclutare, ma c’è una spiegazione: negli ultimi anni, questo tipo di lavoratori ha visto aprirsi numerose alternative, soprattutto nella logistica di grandi multinazionali come Amazon e nella grande distribuzione.
Un dato molto commentato sul mercato del lavoro americano è quello dei dimissionari: ad aprile, il numero di coloro che hanno rassegnato le proprie dimissioni ha toccato un livello mai visto: 4 milioni di individui. Secondo alcuni, questo dato potrebbe indicare un generale ottimismo da parte dei lavoratori statunitensi sulla propria capacità di trovare un nuovo impiego, magari a condizioni migliori. Questo non significa però che tutti i lavoratori americani che hanno lasciato il proprio lavoro in questi mesi l’abbiano fatto perché siano sicuri di trovarne uno migliore: molti l’hanno fatto per necessità o per convenienza.
Per i lavoratori meno specializzati, da quando è scoppiata la pandemia, le ragioni per rifiutare un impiego sono aumentate: molti di loro, soprattutto nel settore dei servizi di ristorazione, hanno paura di esporsi al rischio di ammalarsi di COVID-19. Molti altri, con le scuole chiuse, non saprebbero a chi lasciare i propri figli e non possono permettersi di pagare baby-sitter con gli stipendi offerti. Queste circostanze hanno portato molte persone a uscire dalla forza lavoro, cioè a licenziarsi senza intenzione di trovare un altro impiego nel breve termine (costoro non vengono contati fra i disoccupati ma fra i cosiddetti “inattivi”).
Inoltre, molte persone che invece hanno perso il lavoro negli ultimi mesi stanno ancora ricevendo i sussidi straordinari di disoccupazione elargiti dal governo americano per sostenere l’economia. Questi fanno parte dei disoccupati e sono perciò per definizione in cerca di lavoro. Ma è evidente che se gli stipendi offerti sono inferiori ai sussidi, preferiranno rifiutare. Perciò, per convincere i potenziali lavoratori ad accettare le proprie offerte lavorative, le società hanno dovuto offrire stipendi sempre più alti.
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L’aumento degli stipendi nei lavori a bassa qualifica è stato superiore alla media dell’intero settore privato nell’ultimo anno, come confermano i dati destagionalizzati (cioè quelli che non tengono conto delle fluttuazioni degli stipendi in periodi particolari, come per esempio sotto Natale) del Bureau of labor statistics degli Stati Uniti: da maggio 2020 a maggio 2021 (mese per cui i dati sono ancora una stima preliminare), lo stipendio medio settimanale di un operaio è passato da 1.127,53 dollari a 1.195,56 dollari: un aumento del 6 per cento, simile in termini percentuali a quello registrato sia nei settori del trasporto e dello stoccaggio, sia nei servizi di ristorazione e negli alberghi. Questi aumenti sono molto più alti in percentuale di quello mostrato in media dall’intero settore privato, dove gli stipendi sono saliti nello stesso periodo solo del 2,6 per cento.
Il fenomeno, positivo se pensiamo che potrebbe tendere a ridurre le forti disparità di reddito negli Stati Uniti, sta avendo però un effetto avverso sulle piccole imprese dei settori interessati, le quali non sono in grado di offrire stipendi al pari delle grandi multinazionali e potrebbero perciò non riuscire a trovare il numero di impiegati necessario a soddisfare la nuova domanda, perdendo così la possibilità di approfittare appieno della ripresa economica.
Peraltro, a lasciare il proprio posto di lavoro in questi mesi non sono stati soltanto i lavoratori meno qualificati. Per ragioni differenti, anche molti impiegati nel settore dei servizi stanno lasciando la propria occupazione: soltanto ad aprile hanno dato le dimissioni in 700 mila, la cifra mensile più alta mai registrata.
Secondo l’Atlantic, il motivo per cui questi lavoratori lasciano il loro impiego è tipicamente il burnout o la quantità eccessiva di lavoro. Durante la pandemia, gran parte di queste persone ha lavorato da remoto, in condizioni non sempre ottimali e lamentando spesso uno sconfinamento delle ore lavorative in quello che avrebbe dovuto essere tempo dedicato alla vita privata. Allo stesso tempo, viste le paghe generalmente più alte della media e l’impossibilità di spendere soldi in attività ricreative durante i lockdown, molti di loro hanno messo da parte risparmi a sufficienza per abbandonare il proprio posto di lavoro senza preoccuparsi troppo, vista anche la generale abbondanza di opportunità.
Insomma: il potere contrattuale dei lavoratori sta salendo per gran parte delle professioni, non solo quelle meno qualificate. E l’aumento degli stipendi è solo una delle conseguenze di questo fenomeno: i lavoratori sono diventati più esigenti anche per quanto riguarda le condizioni lavorative.
Oltre ad aumentare i salari, molte società hanno infatti raccontato che stanno offrendo ai candidati bonus di vario genere, formazione per ottenere più facilmente avanzamenti di carriera e molta più flessibilità di un tempo in termini di orari e luoghi da cui il dipendente può svolgere il suo lavoro (quando possibile), promettendo ai potenziali lavoratori un migliore bilanciamento tra vita lavorativa e vita privata.
Per forza di cose, le aziende sono diventate anche meno schizzinose: secondo il Wall Street Journal molte assumono senza effettuare controlli sul passato dei dipendenti, prassi molto diffusa negli Stati Uniti, mentre secondo il New York Times molte sono più propense di un tempo a investire in lavoratori con meno esperienza, offrendo loro la formazione necessaria a svolgere il lavoro.
Infine, molte società che impiegano dipendenti a basso salario hanno raccontato che stanno offrendo gift card ai candidati per presentarsi ai colloqui, una pratica già in uso da qualche anno nelle imprese hi-tech per reclutare specialisti, ma vista raramente in settori che impiegano lavoratori a bassa specializzazione.
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Proprio questa settimana, il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha risposto a una domanda sulla mancanza di lavoratori suggerendo una soluzione che ha rinfocolato la discussione sul mercato del lavoro: «Pagateli di più».
La carenza di lavoratori negli Stati Uniti potrebbe non finire molto presto. Come dicevamo, il fenomeno ha origini anteriori alla pandemia, benché questa l’abbia acuito. Il tasso di partecipazione al mercato del lavoro (cioè la somma di occupati e persone in cerca di lavoro sul totale di chi è in età da lavoro) è stato in costante calo negli ultimi 21 anni, passando dal 67,3 per cento al 61,6 per cento. In altre parole, la percentuale degli inattivi (coloro che non sono occupati e non stanno cercando) è salita dal 32,7 per cento al 38,4 per cento. Il tasso di partecipazione tende a scendere durante le crisi, quando le persone perdono il lavoro. Alcune di queste si rimettono a cercarlo entrando a far parte dei disoccupati, ma altre smettono per vari motivi e, quando smettono, è più difficile che riescano a rientrare nel mercato del lavoro.
D’altro canto, fattori come la vaccinazione di massa, la riapertura delle scuole e l’interruzione della distribuzione dei sussidi di disoccupazione straordinari prevista per settembre potrebbero aumentare temporaneamente il tasso di partecipazione. Ma le stime di lungo termine del Congressional Budget Office degli Stati Uniti, agenzia governativa che fornisce informazioni economiche al Congresso, prevedono che il tasso di partecipazione rimanga attorno al 62 per cento per i prossimi 10 anni. Questo potrebbe costituire un grosso problema per la ripresa americana: per aumentare la produzione di beni e servizi servono lavoratori.
E in Europa?
In Europa il mercato del lavoro è molto più eterogeneo e cambia molto non solo tra paesi, ma anche tra regioni diverse. Ci sono però delle somiglianze con quello che sta succedendo negli Stati Uniti.
In Regno Unito, racconta l’Economist, il settore alberghiero e quello delle costruzioni sono affetti da una scarsità di lavoratori acuita dalla pandemia ma iniziata già con la Brexit, dato che molti degli impiegati di questi settori erano immigrati.
In Unione Europea invece, a dicembre scorso mancavano professionisti sanitari in 18 paesi, idraulici in 14 paesi, mentre cuochi, autisti e saldatori scarseggiavano in 13 paesi.
Più recentemente, Ungheria, Repubblica Ceca e Polonia hanno sperimentato tutte una forte carenza di lavoratori a fronte di una ripresa economica più rapida del previsto. La causa qui però sembra essere principalmente la forte emigrazione che ha interessato questi paesi negli ultimi anni e che ha fatto crescere gli stipendi soprattutto in Polonia, dove in aprile quelli del settore privato sono aumentati del 9,9 per cento annuo, e in Ungheria, dove a marzo sono saliti del 9,2 per cento (ultimo dato disponibile).
L’emigrazione non è un problema solo per il Centro Europa. Assieme a Polonia e Romania, l’Italia è uno dei paesi europei da cui nel 2019 sono emigrati più lavoratori qualificati. Leggi che incentivano il ritorno di questi lavoratori attraverso una sostanziosa detassazione del reddito per diversi anni dal rientro sono già presenti nel nostro paese, ma evidentemente al 2019 non erano ancora molto efficaci e non è chiaro quanto lo siano state negli ultimi tempi.
Le migrazioni all’interno dell’Unione Europea, facilitate dalla libertà di circolazione e soggiorno delle persone, hanno avuto un forte impatto sui mercati del lavoro dei singoli paesi europei, accentuandone l’eterogeneità. In un recente rapporto, la società di consulenza McKinsey individuava tre tipi di regioni in Europa: quelle in cui la popolazione in età da lavoro è in calo (e quindi il numero di persone che possono lavorare si sta restringendo), le economie stabili che attirano lavoratori da altre regioni, e i centri di crescita più dinamici, principalmente costituiti da grandi città dove si concentrano imprese innovative che attirano professionisti molto qualificati.
Questa concentrazione geografica dell’impiego è uno dei problemi del mercato del lavoro europeo preesistenti alla pandemia e fa sì che intere regioni europee non abbiano i lavoratori che necessitano, benché la disoccupazione nel continente sia generalmente alta: era l’8,1 per cento della forza lavoro a marzo 2021.
Nelle aree dove la popolazione in età da lavoro è in diminuzione vive circa il 30 per cento degli europei. Il calo in queste regioni è dato principalmente da due fattori: emigrazione e invecchiamento della popolazione. Nell’Est Europa, il fattore principale è l’emigrazione di lavoratori qualificati, mentre in vaste aree di Francia, Norvegia e Finlandia la causa primaria è l’invecchiamento della popolazione. Entrambi i fattori sembrano invece giocare un ruolo nelle aree rurali della Spagna e del Sud Italia.
In Europa ci sono quindi aree diverse con problemi diversi. Secondo Bloomberg però, l’intero blocco potrebbe sperimentare nel breve termine una carenza di lavoratori in grado di svolgere le professioni più tecniche in settori che abbiano a che fare con la digitalizzazione e la decarbonizzazione, verso i quali la Commissione Europea veicolerà ingenti fondi da investire con il programma NextGenerationEU.
A quel punto, verosimilmente le aziende europee attive in quei settori si contenderanno questi lavoratori sulla base dei salari e delle condizioni lavorative che saranno in grado di offrire, le quali però sono una funzione non solo della capacità attrattiva dell’impresa, ma anche di quella del paese in cui si trova, e sono influenzate da leggi, burocrazia e usi. Tra le contendenti, ci saranno anche le imprese italiane che dovranno investire i fondi in arrivo dalla Commissione Europea, la quale ha approvato martedì il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) proposto dal governo italiano per investire i 70 miliardi di euro in sussidi e i 120 miliardi di euro in prestiti stanziati.
È quindi plausibile che in Europa saranno i lavoratori specializzati di settori ben determinati a guadagnare più potere contrattuale nel prossimo futuro. Per gli altri, nonostante la scarsità di alcune figure in alcuni paesi, il quadro è molto più variegato e meno chiaro rispetto a quello degli Stati Uniti, perché salari e condizioni contrattuali sono legate sia alle leggi dei singoli paesi, sia alla disponibilità di lavoro a basso costo delle singole regioni.