Trent’anni fa si tornò a combattere in Europa
Il 25 giugno 1991 le dichiarazioni d’indipendenza di Slovenia e Croazia diedero inizio alle guerre jugoslave
di Pietro Cabrio
La successione di eventi che portò alla Guerra dei dieci giorni, il primo vero conflitto armato in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale, iniziò il 23 dicembre 1990 con il referendum in cui oltre l’ottanta per cento degli elettori sloveni si disse favorevole all’indipendenza dalla Jugoslavia, lo stato multietnico che dalla morte nel 1980 del suo storico leader, il maresciallo Tito, aveva iniziato a sgretolarsi dall’interno.
Tra crisi economiche e spinte indipendentiste condizionate anche da quello che stava succedendo altrove — dalla caduta del muro di Berlino (9 novembre 1989) alla dissoluzione dell’Unione Sovietica (25 dicembre 1991) — Slovenia e Croazia furono le prime repubbliche jugoslave a staccarsi dalla Repubblica federale. Il 25 giugno 1991 i due parlamenti si dichiararono indipendenti, entrambi facendo fede agli esiti dei loro referendum: quello croato si era tenuto il 19 maggio con oltre il novanta per cento di voti favorevoli.
Ma se la dichiarazione d’indipendenza del parlamento croato fu più che altro una dichiarazione d’intenti senza azioni immediate, gli sloveni fecero sul serio: avevano pianificato tutto in segreto nei mesi precedenti e quello stesso giorno diedero inizio alle loro manovre sul territorio.
Janez Janša oggi è il primo ministro sloveno. All’epoca aveva trent’anni ed era il ministro della Difesa del governo locale. Nel 1988 era stato processato dal governo federale di Belgrado con l’accusa di spionaggio per le sue continue critiche all’Armata popolare — l’esercito jugoslavo — secondo lui disorganizzata e resa obsoleta da negligenza e nepotismo. Si era laureato in scienze della Difesa e per questo conosceva l’esistenza di una trascurata organizzazione militare di riserva, la Difesa territoriale, che Tito aveva predisposto negli anni Sessanta per timore di un’invasione dei paesi del Patto di Varsavia. Janša la fece diventare di fatto una struttura clandestina e dopo il referendum del 23 dicembre 1990 riuscì a evitare che il governo federale le togliesse le armi per timore che potessero essere usate, prima o poi. Non solo: Belgrado, pur essendo al corrente della struttura, ne sottovalutò l’importanza strategica.
Il piano sloveno iniziò prendendo in contropiede Belgrado, a cui aveva fatto credere che la sua dichiarazione d’indipendenza sarebbe arrivata il 26 giugno. Arrivò invece il giorno prima, e il 26 il presidente sloveno Milan Kučan parlò ai cittadini nel centro di Lubiana. La Difesa territoriale slovena, formata da circa 30mila fra riservisti, volontari, poliziotti e doganieri, ebbe così un giorno a disposizione per assumere indisturbata il controllo delle frontiere e predisporre la difesa del territorio con strategie da guerriglia. L’Armata popolare jugoslava si mise in moto soltanto nella tarda notte del 25 giugno e da lì in poi si rivelò effettivamente impreparata su tutti i fronti, come Janša aveva sostenuto a suo tempo.
Il 27 giugno le prime unità jugoslave entrarono in Slovenia, riuscendo a riprendere il controllo di neanche la metà delle frontiere. Furono inoltre rallentate dalla quantità eccessiva di mezzi pesanti sui quali viaggiavano, dalle imboscate della Difesa territoriale slovena, che provocarono danni mirati a mezzi e vie di comunicazione, e dalle defezioni di migliaia di militari sloveni e croati, che passarono dalla parte dei loro paesi. Fu il caso per esempio del comandante della base navale di Pola, lo sloveno Marjan Pogacnik, che non eseguì il blocco navale della costa adriatica richiesto dal governo federale e per questo venne destituito.
In una guerriglia per molti aspetti strana, non mancarono errori ed equivoci da entrambe le parti. Il primo giorno di combattimenti, per esempio, gli sloveni abbatterono due elicotteri federali. Questo contribuì al rallentamento delle loro manovre, ma si seppe soltanto dopo che uno dei due elicotteri, abbattuto nei pressi di Nova Gorica, oltre a essere disarmato e carico di pane destinato al rifornimento, era pilotato da un soldato sloveno, Toni Mrlak, che si stava preparando a disertare insieme ad altri connazionali.
Rispetto alla Jugoslavia, la Slovenia dimostrò anche di sapersi muovere meglio in una guerra moderna. L’uso dei mezzi di comunicazione dell’allora ministro dell’informazione Jelko Kacin, che si presentava quotidianamente davanti alla telecamere, spesso gonfiando i numeri per peggiorare l’immagine dell’aggressione subita, ebbe effetti positivi sull’opinione pubblica e a livello internazionale, e causò malumori a Belgrado, il cui governo dovette gestire critiche e proteste da parte di politica e cittadinanza per tutta la durata del conflitto, a causa dei suoi insuccessi.
Entrarono poi in gioco i legami storico-culturali della Slovenia, e la sua composizione etnica.
La Slovenia era infatti la repubblica meno legata al governo centrale di Belgrado, dato che la sua popolazione era quasi completamente di etnia slovena, a differenza della vicina Croazia, dove invece si contavano numerose comunità serbe. Aveva inoltre conservato dei legami storici con l’Europa occidentale, in particolare con Germania e Austria, che tornarono utili quando la comunità internazionale intervenne.
Viste le difficoltà incontrate dall’Armata popolare e il ruolo non così centrale della Slovenia nella Repubblica federale, con il passare dei giorni Belgrado rallentò le operazioni ed evitò di condurre quelle pianificate: di fatto accettò di privarsi di una parte del suo territorio.
Gli scontri continuarono sotto forma di guerriglia ancora per pochi giorni, con i soldati jugoslavi in netta difficoltà senza il supporto dell’artiglieria pesante, rimasta indietro. Il 3 luglio iniziò quindi il dislocamento dell’Armata popolare, le cui unità si spostarono nella vicina Croazia, dove invece la questione era ben più complessa. Il 4 luglio gli sloveni presero possesso di tutti i passi frontalieri.
Nei dieci giorni di combattimenti di quella che è passata alla storia come la Guerra dei dieci giorni si contarono 74 morti e circa trecento feriti tra i due schieramenti.
Sotto l’organizzazione della Comunità europea, che aveva affidato le negoziazioni al ministro degli Esteri olandese Hans van den Broek, al portoghese João de Deus Pinheiro e al lussemburghese Jacques Poos, gli sloveni si incontrarono con il governo federale nell’arcipelago di Brioni, vecchia residenza estiva di Tito. Il risultato fu una serie di accordi che diedero l’indipendenza alla Slovenia senza far passare per sconfitta la Jugoslavia. Inizialmente, infatti, la Slovenia sarebbe dovuta tornare alla condizione precedente al 25 giugno e ci sarebbe dovuta rimanere tre mesi per concordare le modalità della sua fuoriuscita. Ma già il 18 luglio il governo di Belgrado ordinò il rientro di tutte le unità rimaste in Slovenia a partire dal successivo 29 luglio, concedendo al governo locale i pieni poteri sul territorio.
Soltanto Stipe Mesić, croato e ultimo presidente della Repubblica federale, votò contro il ritiro delle truppe dalla Slovenia, sapendo che lo stesso trattamento non sarebbe stato concesso alla sua Croazia.
Nel paese etnicamente più numeroso e storicamente contrapposto ai serbi si verificavano scontri e attentati da oltre un anno, e la propaganda ingrossava eserciti e formazioni irregolari già da tempo, da entrambe le parti. Come previsto, gran parte delle truppe federali di ritorno dalla Slovenia rimase in Croazia a combattere la sanguinosa guerra d’indipendenza croata, a cui poi si aggiunse quella in Bosnia. Da quell’estate fino al 1995 i combattimenti e le operazioni di pulizia etnica nell’ex Jugoslavia rasero al suolo interi paesi, fecero tra i 130 e i 150mila morti tra soldati e civili e quasi quattro milioni di profughi.
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