Göbekli Tepe è un posto incredibile
Studi recenti sul sito archeologico di uno dei santuari megalitici più antichi al mondo stanno ridefinendo molte ipotesi sulla storia delle civiltà mesopotamiche
Nel 1995, l’archeologo tedesco Klaus Schmidt guidò una serie di scavi nei pressi di una collinetta artificiale a Urfa, nel sud-est della Turchia. Quel luogo era noto come Göbekli Tepe e considerato un posto sacro dalla comunità curda locale. Era stato notato per la prima volta nel 1963 da alcuni studiosi dell’Università di Chicago e dell’Università di Istanbul, e in seguito abbandonato dopo le prime perlustrazioni. Più di trent’anni dopo, sulla base dei risultati di scavi da lui condotti in un altro sito dell’Anatolia Sud Orientale, Schmidt era convinto che occorresse effettuare ricerche più approfondite in altre aree della regione. Arrivato a Urfa, si mise in contatto con i due contadini proprietari della terra in cui si trovava il sito e si fece accompagnare da loro a Göbekli Tepe.
L’intuizione di Schmidt si rivelò corretta. A Göbekli Tepe c’era da scoprire più delle schegge di selce analizzate dal gruppo di ricerca degli anni Sessanta. E certi lastroni di pietra interrati, già osservati da quel gruppo, non erano ciò che sembravano. Gli scavi portarono alla luce megaliti preistorici disposti in strutture circolari e rettangolari, risalenti a un periodo compreso tra il 9.600 e l’8.200 a.C., un’epoca che precede di 6 mila anni, per esempio, la costruzione del complesso megalitico di Stonehenge. Quelle costruzioni fanno oggi di Göbekli Tepe uno dei più antichi complessi di monumenti mai scoperti e siti archeologici con testimonianze di una civiltà.
Ricerche condotte nel corso degli ultimi anni a partire da incisioni, sculture, utensili e altri reperti rinvenuti nel sito – oggetto di recenti studi descritti dalla rivista Nature – hanno permesso di confermare ipotesi che contribuiscono a ridefinire alcune conoscenze acquisite in precedenza riguardo alla storia dell’agricoltura e, in generale, delle abitudini – anche alimentari – delle prime civiltà mesopotamiche.
La scoperta di Schmidt
A motivare la spedizione del gruppo di ricerca turco-statunitense nel 1963 a Göbekli Tepe – che in turco significa “collina panciuta” – furono principalmente segnalazioni della presenza di frammenti di selce, la roccia sedimentaria lavorata nei primi insediamenti umani per ricavarne armi e strumenti, tramite scheggiatura. Secondo Peter Benedict, l’archeologo americano alla guida delle ricerche, appartenevano a utensili risalenti al neolitico preceramico, poco prima del 6.000 a.C., valutazione che confermò la rilevanza archeologica dell’area ma sottostimò la portata della scoperta.
Benedict e i suoi colleghi notarono poi una serie di lastroni di pietra interrati, che scambiarono per lapidi di «piccoli cimiteri» medievali risalenti all’Impero bizantino, probabilmente sovrapposti agli antichi insediamenti umani da cui dovevano provenire i frammenti di selce. Inoltre la collina era stata a lungo coltivata da generazioni di abitanti locali, che avevano probabilmente messo in disordine gli strati superiori del sito spostando, frantumando e ammassando le tante pietre presenti nell’area.
Per circa trent’anni non ci furono altre ricerche, finché una nuova segnalazione da parte dei responsabili del Museo archeologico di Urfa, che avevano notato altre pietre interrate, arrivò alla sede di Istanbul dell’Istituto archeologico germanico (DAI). Incaricato di seguire le nuove ricerche nell’autunno del 1994 fu un archeologo tedesco dell’Università di Heidelberg, Klaus Schmidt, già responsabile di precedenti scavi nel vicino sito di Nevali Cori, da cui erano emersi oggetti e strutture architettoniche risalenti al IX millennio a.C.
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Proprio a Nevali Cori, prima che il sito venisse ricoperto dalle acque del lago artificiale Ataturk nel 1992, Schmidt aveva scoperto particolari piloni monolitici che formavano la struttura di muri di pietre sovrapposte. E per questo motivo, una volta giunto a Göbekli Tepe, gli fu chiaro da subito che Benedict si era sbagliato: non erano lapidi, quelle lastre che spuntavano dalla terra.
Tra l’altro c’erano dappertutto tante, tantissime scaglie, lame e frammenti di selce che non potevano essere frutto dell’azione di forze naturali: erano manufatti. I risultati degli scavi confermarono che le lastre interrate erano pilastri di pietra calcarea a forma di T simili a quelli osservati da Schmidt nell’altro sito, ma più grandi, alti circa quattro metri e decorati tramite varie incisioni.
I pilastri di Göbekli Tepe sono inseriti in muri di pietra grezza realizzati a secco: l’intera costruzione delimita un’area a base circolare il cui diametro varia da 10 a 30 metri, a seconda della costruzione (ne furono inizialmente scoperte quattro). Due pilastri più alti e imponenti di quelli che reggono la struttura muraria si trovano al centro di ogni recinto monumentale: sono alti circa 5,5 metri e pesano fino a 15 tonnellate, ed è stato ipotizzato che siano rappresentazioni altamente astratte di corpi umani o di divinità. Centinaia di pietre sono ancora sepolte nel terreno, come appurato tramite indagini geomagnetiche, sebbene gli scavi più recenti si siano concentrati sulla documentazione dettagliata e sulla conservazione di quanto già emerso.
Diverse altre tracce di civiltà primitive risalenti a 11.600 anni fa – come stabilito da diverse datazioni al radiocarbonio – furono scoperte nel sito. C’erano sculture in pietra, accuratamente lavorate e intagliate, e strumenti utilizzati per la cottura dei cibi. Enormi massi levigati erano disposti orizzontalmente, lungo le pareti, a formare delle panchine. I pilastri tra i muri mostravano raffigurazioni di animali in rilievo – volpi, cinghiali, gru, cicogne, anatre e serpenti, le più comuni – e quelli al centro delle strutture avevano braccia, mani e cinture incise sui lati. La scarsa presenza di reperti tipicamente riconducibili a insediamenti umani stabili portò a ipotizzare che Göbekli Tepe fosse piuttosto un luogo di incontro, probabilmente di culto, per gruppi di cacciatori-raccoglitori.
Schmidt continuò a dirigere gli scavi per conto del Museo di Urfa e dell’Istituto archeologico germanico fino alla morte, avvenuta nel 2014. Le sue scoperte sono oggi ritenute un punto di svolta negli studi archeologici che si occupano delle abitudini delle civiltà della Mesopotamia precedenti l’invenzione delle prime tecniche di coltivazione e di allevamento, prima della lavorazione della ceramica e, in generale, durante la transizione nota come “rivoluzione neolitica”. «Göbekli cambia tutto», disse l’archeologo inglese Ian Hodder, dal 1993 direttore degli scavi a Catalhuyuk, il più famoso sito di epoca neolitica dell’Anatolia Centrale.
Cosa ci dice Göbekli Tepe
Le scoperte fatte a Göbekli Tepe si riferiscono a un periodo e a un luogo della storia dell’umanità – X e XI millennio a.C., nell’Alta Mesopotamia – in cui la sussistenza era ancora basata sulla caccia e sulla raccolta, e la pietra era il materiale largamente utilizzato per la fabbricazione di utensili. Sarebbero trascorsi altri due millenni prima di veder comparire i primi agricoltori e i primi allevatori di bestiame del Vicino Oriente, come raccontato dagli archeologi tedeschi Laura Dietrich e Jens Notroff dell’Istituto archeologico germanico, autori dei più citati e recenti studi su Göbekli Tepe.
Uno degli aspetti più sorprendenti e interessanti riguardo a Göbekli Tepe è la sua datazione e il fatto che, prima della sua scoperta, difficilmente si sarebbe ipotizzato che un sito monumentale di tali dimensioni potesse essere costruito da piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori, probabilmente senza gerarchie rigide e definite. Questa considerazione, secondo Dietrich e Notroff, dovrebbe orientare la ricerca verso risposte che tentino di dar conto dei possibili incentivi all’azione cooperativa per quei gruppi, «e un’ottima risposta è il culto o le credenze religiose».
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Le aree di cava che hanno fornito il materiale per la costruzione del santuario megalitico sono situate su altipiani calcarei che circondano il sito. Scolpire quei pilastri e trasportarli dalle cave vicine, distanti 600-700 metri, deve aver richiesto sforzi poderosi e risorse sufficienti a sfamare centinaia di persone impegnate nei lavori. «Probabilmente era un lavoro che si ripeteva periodicamente, e sembra che questa attività fosse un modo per unire le persone», scrivono Dietrich e Notroff. È possibile che Göbekli Tepe e altri siti vicini, come Nevali Cori, fossero punti di riferimento in cui quelle persone si riunivano per atti di culto e feste rituali.
Un’ipotesi recentemente condivisa dagli archeologi, in attesa di prove fornite da futuri scavi, è che Göbekli Tepe fosse un luogo di ritrovo per persone provenienti da posti anche molto lontani. Incontri regolari resi possibili dalle attività di culto e di costruzione potrebbero essere serviti a stabilire contatti tra gruppi di diversi territori, favorendo lo scambio di beni, i rapporti e il trasferimento di conoscenze e innovazioni.
Questa e altre ipotesi simili formulate per comprendere meglio la portata delle scoperte di Göbekli Tepe, in generale, hanno dato sostegno all’idea che i cambiamenti socioculturali necessari per lo sviluppo delle credenze religiose abbiano preceduto anziché seguito lo sviluppo dell’agricoltura, in contrasto con teorie della civiltà condivise in precedenza. A Göbekli Tepe fu lo sforzo esteso e coordinato per costruire i monoliti, secondo Schmidt, a porre letteralmente le basi per lo sviluppo di società complesse.
Gli studi sulle pratiche e abitudini alimentari
La presenza di grandi ossa di animali selvatici frantumate per arrivare al midollo, tra i reperti di Göbekli Tepe, è stata per lungo tempo interpretata come la prova di pasti abbondanti consumati dai gruppi di cacciatori-raccoglitori durante i loro incontri. Ma l’ipotesi che i pasti fossero la ragione stessa di quegli incontri e della costruzione di quelle strutture in pietra, seppure presa in considerazione in passato, è stata in anni recenti indebolita in particolare dalle ricerche di Laura Dietrich, che nel gruppo dell’Istituto archeologico germanico attivo a Göbekli Tepe è quella che si occupa più direttamente di archeologia del cibo.
Dietrich ha scoperto che le popolazioni neolitiche di Göbekli Tepe si nutrivano abitualmente di zuppe e stufati ricavati dal grano lavorato attraverso strumenti di macinazione standardizzati ed efficienti. E sulla base di analisi complesse sull’usura di quegli strumenti è stato possibile stabilire che la maggior parte è stata utilizzata per la lavorazione dei cereali, come confermato dalla massiccia presenza di cereali nel sito, attestata da ulteriori analisi fitolitiche (l’analisi delle strutture rigide e microscopiche di silice presenti in alcuni tessuti vegetali).
Il lavoro di Dietrich suggerisce che gruppi di esseri umani tra la fine del Mesolitico e l’inizio del Neolitico – gli ultime due periodi dell’età della pietra – facessero uso dei cereali probabilmente da prima di addomesticare quelle piante e, in generale, da molto prima di quanto si pensasse precedentemente. Questo studio fa parte di una letteratura scientifica crescente che, attraverso l’impiego di diverse tecniche, cerca di chiarire il ruolo che i cereali e altri amidi avevano in passato nella dieta delle persone. I risultati stanno progressivamente indebolendo l’idea secondo la quale i primi esseri umani vivessero principalmente di carne, una supposizione che in anni recenti ha peraltro dato sostegno alle popolari “paleo diete”, che raccomandano di evitare cereali e altri amidi.
In uno dei campi vicini al sito, lungo un’area estesa quanto un campo da calcio, il gruppo di ricerca di Dietrich ha trovato oltre 10 mila pietre per la macinazione e circa 650 piatti, vasi e recipienti in pietra scolpita, alcuni sufficientemente grandi da contenere fino a 200 litri di liquido. «Nessun altro insediamento nel Vicino Oriente ha così tante macine, nemmeno quelli del tardo Neolitico, quando l’agricoltura era già ben consolidata», ha detto Dietrich. L’ipotesi sostenuta dal gruppo è che quei materiali servissero a macinare il grano per produrre zuppe e anche birra, il cui consumo a Göbekli Tepe era già stato ipotizzato da precedenti lavori ma finora ritenuto soltanto occasionale e legato alle cerimonie.
La principale difficoltà affrontata in questo tipo di ricerche, ha spiegato Dietrich, è data dal fatto che in archeologia è molto più semplice individuare tracce di pasti a base di carne che non di pasti a base di cereali e altre piante, dal momento che le ossa degli animali macellati si fossilizzano molto più facilmente. Ed è questo che rende l’archeobotanica – lo studio di come le popolazioni utilizzavano le piante – un lavoro lungo e complicato, che richiede l’uso di setacci e reti a maglie fini per lavare e separare i vari detriti prelevati dai siti archeologici. Minuscoli frammenti di materiale organico come semi, legno carbonizzato e cibo bruciato tendono a galleggiare, mentre le rocce e le parti più pesanti affondano.
Alcune delle prime prove dell’addomesticamento delle piante di cereali provengono da chicchi di monococco – anche noto come piccolo farro – recuperati da un sito vicino a Göbekli Tepe, dove invece i grani recuperati sono diversi per forma e genetica, e sembrerebbero appartenere a varietà selvatiche. Una delle tecniche più recenti utilizzate da Dietrich e dai suoi colleghi consiste nell’analisi microscopica delle tracce di cibi carbonizzati – zuppe lasciate troppo a lungo sul fuoco, per esempio – nei contenitori utilizzati come pentole.
Nel caso delle tracce di grani, gli ingrandimenti al microscopio elettronico a scansione permettono in genere di individuare cambiamenti significativi nella struttura cellulare causati da diversi processi di cottura. I grani hanno un aspetto diverso a seconda che siano freschi o bolliti, macinati o interi, secchi o ammollati. Bollire il grano prima di carbonizzarlo gelatinizza l’amido, per esempio, e questa condizione permette di formulare o rafforzare specifiche ipotesi. In altri casi particolari di analisi dei singoli grani, quando le pareti cellulari appaiono insolitamente sottili, è possibile ipotizzare che si tratti del risultato della germinazione, ossia il malto, un passaggio fondamentale nel processo di produzione della birra.
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Dalle analisi condotte da Dietrich è emerso anche che le pietre da macinazione a Göbekli Tepe venivano utilizzate principalmente per macinare il grano in modo grossolano, quanto basta per rompere il duro strato esterno di crusca e renderlo facile da bollire e mangiare, o far fermentare per la birra. Utilizzando una replica di una vasca di pietra da 30 litri ritrovata nel sito, Dietrich ha anche riprodotto le diverse fasi di preparazione delle zuppe nelle pietre riscaldate, in modo da analizzare i risultati al microscopio e confrontarli con i reperti, arrivando a confermare le ipotesi di partenza. Ha anche prodotto una “birra neolitica” da semi germinati nei recipienti aperti, ricavandone peraltro una birra «un po’ amara ma bevibile, se hai sete nel Neolitico».
Le scoperte di Dietrich hanno rimesso in discussione molte delle interpretazioni iniziali di Göbekli Tepe, che lo descrivevano come un luogo di ritrovo per cacciatori maschi impegnati a mangiare antilopi alla brace, in cima a una collina, bevendo birra durante celebrazioni occasionali. «Le persone a Göbekli Tepe sapevano cosa stavano facendo e cosa si poteva fare con i cereali», ha detto Dietrich. Quei costruttori di monumenti, secondo lei e altri studiosi dell’Istituto archeologico germanico, non erano persone che facevano esperimenti con i cereali selvatici: erano proto-contadini con una consolidata conoscenza delle possibilità di cottura del grano, prima ancora di avere colture domestiche.