Servirà una terza dose del vaccino?
Per potenziare la memoria immunitaria contro il coronavirus potremmo avere bisogno di una nuova vaccinazione, ma le ricerche sono ancora in corso
Ricercatori, medici e istituzioni sanitarie si chiedono se per mantenere la protezione offerta dai vaccini contro il coronavirus sia necessaria la somministrazione di una terza dose, a partire dall’autunno per chi era stato tra i primi a essere vaccinato all’inizio dell’anno. Non ci sono ancora risposte definitive e molto dipenderà dai risultati delle ricerche in corso per stimare la durata dell’immunizzazione indotta dai vaccini.
Il ricorso a una terza dose influirebbe notevolmente sulle campagne vaccinali, che soprattutto nella prima metà dell’anno hanno subìto numerosi rallentamenti a causa della scarsità delle dosi disponibili. Alcuni paesi, compresa l’Italia, hanno iniziato a valutare questa possibilità e ad abbozzare piani, in attesa di qualche risposta più chiara dai ricercatori.
Memoria immunitaria
In generale, quando il nostro sistema immunitario incontra e impara a tenere sotto controllo un patogeno (come un virus o un batterio), serba poi un ricordo della minaccia incontrata in modo da affrontarla con maggiore efficacia nel caso di un nuovo contatto. Lo stesso avviene dopo avere ricevuto un vaccino, che consente di istruire il sistema immunitario senza il rischio di ammalarsi entrando in contatto con il patogeno vero e proprio. Contro alcuni virus e batteri la memoria immunitaria rimane pressoché invariata anche a distanza di molti anni e offre una protezione per tutta la vita, mentre per altre minacce è temporanea e tende a svanire nel corso del tempo.
Nel caso dell’attuale coronavirus (SARS-CoV-2) non è ancora completamente chiaro se il nostro organismo sviluppi una memoria immunitaria nel lungo periodo, o se invece serbi il ricordo solo per qualche mese, tornando poi a essere vulnerabile. Per provare a capirlo, i ricercatori stanno seguendo da qualche mese vari approcci.
Uno consiste nel seguire gli individui che per primi si erano ammalati di COVID-19 nel 2020, in modo da vedere quanto siano frequenti le reinfezioni dovute alla perdita della memoria immunitaria. Un altro approccio prevede di eseguire periodicamente test del sangue (sierologici) per verificare la presenza dei diversi tipi di anticorpi specializzati nel contrastare il coronavirus.
Soglie
Il problema, come in quasi tutti gli ambiti della medicina, è che ognuno di noi è fatto diversamente e ci possono essere quindi grandi discrepanze tra i singoli casi: c’è chi si ammala nuovamente di COVID-19 a pochi mesi dalla guarigione, chi risulta con pochi anticorpi al sierologico eppure è protetto e chi magari viene nuovamente infettato dal SARS-CoV-2, ma non manifesta sintomi.
In un contesto simile è difficile derivare conclusioni generali sulla malattia, sulle reinfezioni e sulla capacità del nostro sistema immunitario di mantenere un ricordo nel tempo del coronavirus per affrontarlo meglio. Un semplice test sierologico non è infatti sempre sufficiente per determinare con certezza se sia ancora presente o meno una protezione contro il virus: alcuni soggetti sono protetti con pochi anticorpi, mentre altri non lo sono nonostante abbiano livelli di anticorpi più alti.
È un problema che riguarda la lettura e l’interpretazione di molti esami e che si risolve solo nel tempo, man mano che i ricercatori hanno a disposizione più dati per calcolare statistiche accurate e decidere le soglie per le diagnosi. Il coronavirus è del resto in circolazione da poco più di un anno e mezzo, quindi è normale che ci siano ancora molti aspetti ignoti sulla durata dell’immunizzazione naturale, o di quella indotta dai vaccini. E da questo derivano poi le incertezze sulla necessità o meno di procedere con una terza dose.
Ricerca
Le ricerche tra i vaccinati iniziano comunque a offrire qualche dato e spunto di riflessione in più. In Italia è per esempio in corso “Renaissance”, uno studio clinico condotto presso l’ospedale Niguarda di Milano e dall’Università degli Studi di Milano che coinvolge oltre 2.400 operatori sanitari, vaccinati tra gennaio e febbraio di quest’anno insieme ad altre categorie a rischio.
I ricercatori hanno effettuato test sierologici per valutare la risposta immunitaria tra i partecipanti a due settimane di distanza dal ricevimento della seconda dose del vaccino di Pfizer-BioNTech, e nuovamente a tre mesi dal completamento del ciclo vaccinale. La prima analisi aveva evidenziato una risposta nel 98 per cento dei vaccinati, mentre la seconda ha evidenziato in media un dimezzamento degli anticorpi, comunque ancora più che sufficienti per garantire una protezione dalla malattia nella maggior parte dei casi.
La ricerca vuole inoltre calcolare quale sia la soglia minima per continuare a essere protetti, ma per determinarla saranno necessarie nuove analisi e la loro ripetizione nel corso dei prossimi mesi. Saranno effettuati nuovi test a fine estate e all’inizio del 2022, a un anno circa di distanza dalla somministrazione del vaccino. L’efficacia della vaccinazione sembra essere comunque confermata dal fatto che finora nessuno ha sviluppato sintomi da COVID-19, nemmeno durante i difficili mesi della cosiddetta “terza ondata”.
La risposta anticorpale valutata dai ricercatori tramite i sierologici mostra comunque solo una parte delle risorse impiegate dal sistema immunitario. Ci sono diversi altri meccanismi di protezione che contribuiscono sia a contrastare le minacce esterne sia a mantenerne il ricordo nel tempo. I ricercatori in una seconda fase dello studio si dedicheranno alle cellule T, che tra le altre cose mantengono la memoria immunitaria, in modo da stimare con più accuratezza la durata dell’immunità indotta dal vaccino.
10 mesi?
Nel corso di un’audizione in Senato, il presidente del Consiglio superiore di sanità e coordinatore del Comitato tecnico scientifico (CTS), Franco Locatelli, non aveva escluso la possibilità di una terza dose del vaccino, ricordando comunque che servono ancora più dati per determinare tempi e modalità dei nuovi eventuali richiami:
È assolutamente ragionevole che debba essere fatta, ma non è stimabile quando dovrà essere raccomandata la somministrazione. I tempi di osservazione dei soggetti vaccinati sono infatti ancora limitati. È ragionevole pensare che si vada dai 10 mesi in su, cioè per 10 mesi dovrebbe mantenersi la capacità protettiva dei soggetti vaccinati, ma è anche possibile che questo intervallo temporale venga prolungato.
Boost
Approcci simili sono mantenuti dalle autorità sanitarie in diversi altri paesi, dove sono inoltre in corso studi per valutare gli eventuali benefici di una terza dose. Nel Regno Unito, per esempio, è stato da poco avviato lo studio “COV-Boost” con l’obiettivo di valutare quale vaccino prolunghi più efficacemente la protezione con un’ulteriore somministrazione a distanza di qualche mese dal completamento del ciclo vaccinale.
L’iniziativa coinvolge circa 200 volontari che riceveranno come terza dose un vaccino tra quelli realizzati da AstraZeneca, Pfizer-BioNTech, Moderna, Johnson & Johnson, Curevac, Novavax e Valneva a 10-12 settimane di distanza dalla seconda dose. I volontari hanno almeno 30 anni e molti di loro erano stati tra i primi a essere vaccinati in primavera. Alcuni di loro non riceveranno un vaccino, ma una sostanza che non fa nulla (placebo) in modo da poter confrontare i loro anticorpi con quelli dei nuovamente vaccinati.
I volontari saranno poi tenuti sotto controllo e sottoposti periodicamente ai test sierologici. I ricercatori confidano di ottenere una prima serie di risultati entro l’autunno, in modo da fornire dati utili per stabilire se sia necessaria o meno una campagna per la terza dose tra la popolazione. Se così fosse, questa potrebbe essere avviata in parallelo con quella già in corso e che nel Regno Unito ha portato finora a somministrare almeno una dose al 65 per cento della popolazione.
Varianti
La scelta se procedere o meno con una terza dose potrebbe essere inoltre influenzata dalla diffusione di alcune varianti, che nelle ultime settimane hanno mostrato di rendere più contagioso il coronavirus o di avere la capacità di fare aumentare il numero dei ricoveri in ospedale. In Europa sta suscitando preoccupazione soprattutto la variante delta, che dopo avere causato un aumento significativo dei nuovi casi positivi nel Regno Unito ha iniziato a diffondersi in diversi paesi europei, diventando in poco tempo dominante in Portogallo. I vaccini finora autorizzati riescono a tenere sotto controllo anche la variante delta, specialmente a ciclo vaccinale completato, ma sono in corso ulteriori ricerche per confermarlo.
OMS
Mentre diversi governi si preparano all’eventuale avvio di una campagna vaccinale per la terza dose, l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha intanto ribadito l’importanza di vaccinare il maggior numero possibile di persone con le due dosi già previste. Sulla necessità o meno di procedere con una terza dose, la responsabile scientifica dell’OMS, Soumya Swaminathan, ha confermato la necessità di svolgere ulteriori approfondimenti: «Non abbiamo informazioni a sufficienza per raccomandare o meno un’ulteriore dose di vaccino: sono in corso approfondimenti scientifici».