Brexit non è mica finita
Sono passati cinque anni esatti dal referendum e di Brexit si parla sempre meno: ma le conseguenze prodotte sono enormi, e le questioni rimaste in sospeso molte
Nonostante oggi siano passati cinque anni esatti dal referendum in cui il Regno Unito votò in maggioranza per uscire dall’Unione Europea, e che sulla carta l’uscita sia stata completata l’1 gennaio del 2021, Brexit ha innescato una serie di conseguenze che incideranno ancora a lungo sulla vita dei britannici.
Su tutte, l’accordo commerciale trovato fra Regno Unito e Unione Europea ha permesso di mantenere a zero i dazi per le merci, come quando il Regno Unito faceva parte del mercato comune europeo, ma ha comunque aumentato i passaggi burocratici e quindi i costi per gli scambi con i paesi europei (come sa bene, per esempio, chi in questi mesi ha provato a farsi mandare un pacco verso l’Italia). Le maggiori difficoltà hanno provocato un crollo delle esportazioni britanniche verso l’Unione Europea.
Il governo britannico ha stimato che negli ultimi cinque mesi il volume degli scambi con l’Unione Europea è calato del 23 per cento. Già a gennaio le esportazioni di beni dal Regno Unito all’Unione Europea erano diminuite del 41 per cento rispetto al dicembre del 2020.
L’accordo trovato peraltro non è nemmeno completo: su alcuni temi anche molto importanti manca ancora un’intesa. Il New York Times cita per esempio la circolazione dei servizi finanziari, un settore che vale il 7 per cento del PIL britannico (circa 154 miliardi di euro). Altre importanti parti dell’accordo andranno poi quasi certamente rinegoziate nei prossimi anni. A partire dal 2026, per esempio, secondo gli accordi attuali il governo britannico avrebbe la facoltà di impedire alle navi europee di accedere alle proprie acque: difficilmente però l’Unione Europea accetterà una soluzione di questo tipo.
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Durante la campagna elettorale del referendum, il comitato che sosteneva l’uscita dall’Unione Europea promise che una relazione meno stretta con i paesi europei sarebbe stata sostituita da legami commerciali più forti «con alleati importanti come l’Australia o la Nuova Zelanda e paesi emergenti come India, Cina o Brasile». Tutti gli esperti avevano avvertito che sostituire il mercato unico più ricco al mondo, cioè quello europeo, sarebbe stato praticamente impossibile: ma per il governo britannico di Boris Johnson si sta rivelando ancora più difficile del previsto.
Al momento il Regno Unito è riuscito a stipulare un solo accordo commerciale con un unico altro paese, l’Australia, con cui eliminerà gradualmente i dazi in diversi settori, fra cui quello agricolo (cosa che peraltro ha provocato le proteste delle associazioni di categoria degli agricoltori britannici). L’Australia però è dall’altra parte del mondo rispetto al Regno Unito, e anche in presenza di un accordo commerciale gli scambi rimarranno sporadici e costosi. Nel 2019 il Regno Unito aveva esportato beni e servizi in Australia per un valore di 14 miliardi di euro, mentre le stesse esportazioni nei paesi dell’Unione Europea avevano fruttato 343 miliardi di euro.
Negli ultimi mesi il governo britannico ha intensificato i negoziati con quello indiano per un accordo commerciale piuttosto ampio, ma l’obiettivo, non particolarmente ambizioso, resta quello di raddoppiare il volume degli scambi dai circa 12 miliardi attuali entro il 2030. Con molti altri paesi il Regno Unito ha temporaneamente deciso di mantenere gli stessi accordi in vigore con l’Unione Europea, anche se prima o poi andranno sistemati per rispondere meglio alle esigenze britanniche.
Dal punto di vista sociale e politico, l’uscita dall’Unione Europea ha provocato reazioni che con tutta probabilità matureranno nei prossimi anni. Il governo della Scozia, una regione che nel 2016 votò in massa per rimanere nell’Unione Europea, ha già annunciato un nuovo referendum per l’indipendenza dal Regno Unito, legando la decisione al fatto che all’epoca del primo referendum il paese faceva ancora parte dell’Unione Europea.
Ma la situazione è diventata complicata anche in Irlanda del Nord, soprattutto perché alcune parti essenziali dell’accordo su Brexit hanno di fatto allontanato il territorio dal resto del Regno Unito.
Il compromesso trovato da Boris Johnson nell’ottobre del 2019 che risolse lo stallo nei negoziati prevedeva che l’Irlanda del Nord rimanesse parte sia del mercato comune europeo che dell’unione doganale. In questo modo fu evitata la costruzione di una barriera fisica fra l’Irlanda e l’Irlanda del Nord – un obiettivo condiviso sia dai negoziatori europei sia da quelli britannici – ma il legame fra Irlanda del Nord e il resto del Regno Unito si è indebolito: già dalle prime settimane di entrata in vigore dell’accordo era diventato chiaro che le aziende nordirlandesi sarebbero state costrette invece a rafforzare i propri legami commerciali con quelle irlandesi ed europee, cosa che è puntualmente avvenuta.
L’accordo su Brexit è poco apprezzato soprattutto dagli unionisti, cioè da quelli favorevoli alla permanenza dell’Irlanda del Nord nel Regno Unito, cioè gli storici alleati dei Conservatori di Johnson. Sia le elezioni parlamentari in Irlanda del Nord del 2022 sia soprattutto il primo di una serie di voti parlamentari sull’accordo di Brexit, previsto nel 2024, potrebbero causare ulteriori tensioni.
Fra tre anni i parlamentari nordirlandesi potranno votare a favore o contro alcuni articoli piuttosto innocui dell’accordo commerciale su Brexit: se però dovessero respingerli, sintetizza Politico, Unione Europea e Regno Unito avrebbero due anni per rinegoziare gli articoli respinti dal parlamento nordirlandese. Col risultato che finirebbero in una situazione che conosciamo bene: uno stallo lungo un anno e undici mesi, e un mese di tensioni per raggiungere un accordo appena prima della scadenza dei termini.