La Tesla delle cyclette vuole fare anche la Netflix del fitness
Storia di Peloton, azienda che attorno ai suoi attrezzi da ginnastica sta costruendo tutto un immaginario di contenuti e personaggi
Peloton, azienda statunitense fondata nel 2012 e quotata in borsa dal 2019, fa due cose insieme. La prima è produrre e vendere cyclette e tapis roulant che costano migliaia di dollari. La seconda è offrire via abbonamento corsi a distanza di fitness, da fare in streaming: con – ma anche senza – le sue cyclette e i suoi tapis roulant. Dopo aver avuto grande successo durante la pandemia, Peloton (che ancora non è presente in Italia) potrebbe continuare a crescere, e secondo qualcuno diventare una cosiddetta media company. Una società che produce e rende disponibili contenuti, e che nelle intenzioni del suo fondatore John Foley potrebbe diventare «simile a Netflix». Per certi versi, comunque, già lo è.
Nato nel 1971, Foley fondò Peloton poco più che quarantenne, dopo aver studiato ingegneria e poi economia aziendale. Dopo essere stato CEO di Evite (nota per un sito attraverso cui mandare e gestire inviti di vario tipo) e dopo aver guidato la sezione dedicata alle vendite online di Barnes & Noble, grande catena statunitense di librerie. “Peloton” è una parola di origine francese, usata in gergo ciclistico, non solo quello francese, per indicare il gruppo più o meno compatto di corridori di una corsa su strada, che pedalano vicini per comodità aerodinamica.
Nei suoi primi anni si dedicò alle attrezzature: prima alle cyclette e poi ai tapis roulant, sempre con prodotti di altissima gamma e design parecchio ricercato, con grandi schermi e tanta ed efficace tecnologia.
Già nel 2018 Foley disse di ispirarsi ad Apple e a Tesla e ad «altre piattaforme software e hardware che sono verticalmente integrate, arrivano direttamente al consumatore e stanno rivoluzionando i loro rispettivi mercati». Secondo lui, prima di Peloton, cyclette e tapis roulant erano parti di «una categoria che è stata molto sonnolenta, e non si è saputa evolvere. A volte capita ancora di vedere davanti a sé schermi con dei pallini che si riempiono man mano che ti avvicini alla fine. È un’interfaccia che c’è dal 1979».
Già dai primi anni di Peloton, Foley parlava della sua azienda con notevole ambizione. Disse per esempio che Peloton non vendeva biciclette, bensì felicità. O che nei suoi piani i tapis roulant dovevano essere dei «portali di esperienze».
Qualcuno prese in giro Foley per le sue affermazioni, in verità piuttosto comuni tra aziende di questo tipo e di questi anni. Intanto, però, l’azienda cresceva: in pochi anni ha aumentato la sua gamma di prodotti e soprattutto si è dedicata all’app a pagamento per fare corsi, sia con i suoi macchinari che a corpo libero. In pochi anni, Peloton è arrivata nel Regno Unito, in Canada, in Germania e ora in Australia.
Nel settembre di 2019 Peloton si quotò in borsa, pochi mesi prima dell’inizio di una pandemia che ne ha fatto crescere tanto e in fretta vendite, abbonamenti e azioni. Qualche mese fa l’analista Michelle Segar aveva detto al Financial Times: «Già prima della pandemia Peloton andava piuttosto bene, ma dopo la pandemia è proprio esplosa». Il motivo è chiaro: l’azienda offriva la possibilità di tenersi in forma da casa e, allo stesso tempo, di avere contatto e confronto con altre persone: gli istruttori dei corsi ma anche gli altri utenti Peloton. «Riesce difficile» ha scritto il Financial Times «scrivere una sceneggiatura più favorevole per il successo di un’azienda come Peloton».
Negli ultimi anni, in particolar modo durante la pandemia, molti istruttori di Peloton (spesso pressoché sconosciuti fino a poco tempo prima) sono diventati molto famosi e alcuni di loro – come Robin Arzón, Alex Toussaint o Cody Rigsby – sono oggi influencer con centinaia di migliaia di seguaci, e a loro modo delle celebrità.
Negli ultimi mesi Peloton ha avuto problemi legati al richiamo di alcuni suoi prodotti (con costi notevoli e conseguente perdita di valore delle sue azioni), ma i piani per la sua espansione continuano. Peloton sta completando una serie di acquisizioni di aziende e startup di vario tipo, da quelle che producono attrezzi da palestra a quelle che si occupano di dispositivi tecnologici da indossare, passando per altre che si occupano di intelligenza artificiale o di algoritmi per personalizzare l’allenamento e il fitness.
Da un lato, è evidente e logico che Peloton voglia sviluppare la tecnologia dei suoi prodotti e servizi e migliorare quello che già si può fare con gli schermi HD delle sue attrezzature, che superano i 20 pollici (in certi casi addirittura i 30) e offrono varie possibilità di interazione con altri utenti di Peloton.
Dall’altro – quello più importante – Peloton sta provando a diventare una sempre più influente media company: un’azienda di contenuti e intrattenimento, una società che secondo l’Hollywood Reporter si sta sempre più hollywoodizzando. Secondo le parole di Jennifer Cotter, direttrice dei contenuti di Peloton, una specie di «Netflix del wellness», come viene chiamato in modo un po’ pretenzioso l’insieme di pratiche per stare meglio, sia fisiche che mentali.
Attraverso i suoi abbonamenti, il più semplice dei quali costa 12,99 dollari al mese, Peloton punta infatti a offrire sempre più corsi, in attività sempre più varie e con modalità sempre più disparate. Per creare quelli di cui un ex dipendente intervistato dall’Hollywood Reporter ha definito «mini spettacoli sempre più legati all’immagine dell’istruttore che li fa».
Già ora, ha scritto l’Hollywood Reporter, Peloton è «un marchio globale di contenuti», che dedica grandi attenzioni alla «sceneggiatura dei suoi corsi», alla «astuta promozione dei suoi istruttori» e tanti e sempre più importanti accordi con compagnie di intrattenimento. «Per molti versi, Peloton agisce come un vecchio studio cinematografico, perché trasforma in star i suoi istruttori, non prima però di averli legati a se con contratti pluriennali, e perché si produce da sé tutti i suoi contenuti, controllandone anche la distribuzione».
Già ora Peloton produce e rende disponibili decine di nuove lezioni ogni giorno, con una cura che difficilmente si trova in altri servizi simili. Queste lezioni, ha scritto l’Hollywood Reporter, «sono rigidamente prodotte da un gruppo che, secondo quanto dice l’azienda, è composto da persone che in tutto hanno vinto 19 Emmy [gli Oscar della tv statunitense]». Quando Arzón, una delle istruttrici, restò incinta, l’annuncio fu studiato nei minimi particolari, per far sapere a chi di dovere il momento e il modo in cui l’avrebbe comunicato durante una delle sue lezioni, alcune delle quali seguite in contemporanea da oltre 20mila persone.
E già ora Peloton produce contenuti per Instagram o YouTube che non sono lezioni e che poco hanno a che fare con il fitness e il wellness, con il pedalare, correre, camminare, fare yoga, fare stretching, fare aerobica o meditare. Arzón, per esempio, ne ha dedicato uno al racconto della sua gravidanza.
I corsi di Peloton, inoltre, stanno diventando sempre più ricercati. Ce ne sono per esempio alcuni a tema musicale, in cui ci si allena ascoltando musica di un determinato artista: cosa che presuppone che Peloton faccia accordi specifici, come ha fatto con Beyoncé, o che si assicuri i diritti, come ha fatto con i Beatles.
La futura crescita di Peloton passerà di certo da strumenti migliori e app migliori con maggiori servizi e funzioni (per esempio una che, sulla falsariga di Strava, permetta di tracciare le proprie attività e performance sportive all’aperto, confrontandole con quelle degli altri utenti).
Ma anche e soprattutto dalla creazione di un sempre più sentito senso di comunità a quello che qualche mese fa un articolo di Elle ha definito il “Peloverse”, l’universo digitale di Peloton, di cui scrisse: «è una parte integrante dell’identità dell’azienda, un’ancora di salvezza per molti, l’ingrediente segreto che separa Peloton dalla concorrenza». Jenna Jacobson, professoressa di “retail management” ha detto: «Peloton è davvero entrato in certi stili di vita individuali». Che però diventano collettivi grazie alla tecnologia: “you’ll never ride alone” (“non pedalerai mai da solo”) era un motto di Peloton già nel 2013.
Per assecondare questo seguito – che a qualcuno, in certi casi, ricorda quasi un culto – Peloton sta anche pensando di organizzare (ora che si può, e dopo che già in passato gli utenti se li erano organizzati da soli) eventi, festival e momenti di aggregazione non digitali.
Intanto, Peloton è cresciuta fino ad avere circa 3mila dipendenti, quasi 100 “showroom” nei paesi in cui è presente (servono a far provare i suoi prodotti, più che a venderli direttamente) e nel 2020 ha avuto entrate per circa 1,8 miliardi di dollari, e per buona parte dell’anno problemi legati ai troppi ordini dei quali non riusciva a tenere il passo (ora parla di spedizioni in genere entro le due settimane).
Al momento Peloton ha una capitalizzazione superiore ai 30 miliardi di dollari e oltre tre milioni di utenti abbonati. Tra loro ci sono Justin Bieber, Beyoncé, Shonda Rhimes e pure Joe Biden, proprietario di una cyclette dell’azienda. Nello spiegare ai suoi lettori cosa fosse quella cyclette prima che Biden si trasferisse alla Casa Bianca, il New York Times scrisse: «per i non iniziati, è in parte una cyclette e in parte un social media».