I porti commerciali sono congestionati in tutto il mondo
Alcuni tra i più importanti stanno accumulando enormi ritardi, per la ripresa economica, l'aumento degli ordini e pure gli strascichi di Suez
di Paolo Bosso
La National Retail Federation degli Stati Uniti, la più grande associazione di commercio al dettaglio al mondo, ha scritto alla Casa Bianca chiedendo un incontro con l’amministrazione Biden per discutere i problemi di una catena di approvvigionamento marittima che va avanti a singhiozzo da alcuni mesi e che sta portando alla congestione dei principali porti commerciali del paese.
Lidia Yan, CEO di NEXT Trucking, sviluppatore locale di software e dispositivi destinati ai trasporti, riferisce che nelle ultime settimane nel porto di Los Angeles, il più importante scalo marittimo commerciale degli Stati Uniti, fino a 40 navi portacontainer hanno dovuto attendere in rada (lo specchio d’acqua al largo dei porti dove le navi “parcheggiano” in attesa di entrare) una media di 7,5 giorni. Dall’inizio dell’anno il tempo medio di sosta a terra di un container è aumentato da tre a sette giorni, fino ad arrivare al record di febbraio con quasi 800 mila TEU (unità di misura che indica il volume di un container lungo venti piedi) in attesa a terra, ovvero 800 mila container ma anche meno, se sono più grandi. Il 47 per cento in più rispetto a febbraio 2020, quando il commercio globale si stava per fermare.
La scorsa settimana NRF ha rivisto al rialzo le previsioni annuali di vendita al dettaglio negli Stati Uniti, che dovrebbero crescere tra il 10,5 e il 13,5 per cento arrivando a oltre 4,44 migliaia di miliardi di dollari, accelerando significativamente la ripresa economica. Era da oltre un secolo, dicono gli operatori del porto di Los Angeles, che non si vedeva un tale flusso di importazioni.
La lettera dell’associazione statunitense dei commercianti è l’ennesimo sintomo di un periodo difficile per la logistica internazionale dei trasporti, dovuto principalmente a una poderosa ripresa economica dei Paesi industrializzati, che ha spinto diverse fabbriche a ordini massicci di materie prime e semilavorati, mettendo in crisi l’offerta di conduttori elettrici, microchip, carta, caffé, acciaio, scatoloni da imballaggio, tra gli altri. Per il settore delle spedizioni, che trasporta tutte queste merci, la crisi si concretizza in una difficoltà crescente nel consegnarle in tempo. Aprile, un po’ ovunque nel mondo, è stato uno dei mesi più intensi nella storia del traffico di portacontainer, con i noli marittimi dedicati (lo spazio a bordo noleggiato dallo spedizioniere, il principale profitto degli armatori) che stanno raggiungendo e superando prezzi senza precedenti.
Ma non è tutto qui. C’è una cronica mancanza di container vuoti da riempire, un fenomeno strutturale, presente da ben prima della pandemia. A marzo c’è stato il blocco di sei giorni del canale di Suez, porta di accesso dello shipping (che trasporta fino al 90 per cento delle cose che acquistiamo) sul Mediterraneo, generando ritardi sulle spedizioni marittime che persisteranno almeno fino all’autunno. Infine, il blocco delle ultime settimane del primo polo di approvvigionamento in uscita verso Occidente degli oggetti di consumo, il terminal di Yantian di Shenzhen in Cina, deciso per via di un focolaio di coronavirus. Una concatenazione di eventi che sta avendo – anche se non ne è la principale causa – effetti concreti sull’inflazione.
Matthew Shay, presidente e CEO della National Retail Federation (NRF), spiega che «l’interruzione della catena di approvvigionamento, in particolare la congestione che colpisce i nostri principali porti, sta causando sfide significative per i rivenditori americani. I problemi di congestione non solo hanno aggiunto giorni e settimane alle nostre catene di approvvigionamento, ma hanno portato a carenze di inventario che incidono sulla nostra capacità di servire i clienti. Inoltre, questi ritardi hanno aggiunto costi di trasporto e stoccaggio significativi per i rivenditori». Costi che per ora non si ripercuotono sui consumatori perché lo shipping (come viene chiamato dagli anglofoni il commercio marittimo) è un conglomerato di pochi gruppi armatoriali che può assorbire facilmente questi costi. Senza dimenticare che questa situazione, tramite i noli marittimi, genera enormi profitti. Piuttosto, i costi tendono a scaricarsi sulle aziende logistiche, il cui mercato è molto più affollato e competitivo.
Al momento la congestione portuale non sta interessando tutto lo shipping ma solo i container, cioè il trasporto marittimo dei prodotti di consumo. Ripercussioni sul trasporto di energia (che avviene tramite petroliere e cisterniere, cioè navi tanker) e di cibo (tramite rinfusiere, apparentemente simili alle tanker ma strutturalmente differenti) al momento non ci sono.
Si stanno accumulando enormi ritardi qua e là, a seconda dell’area commerciale interessata, del giorno della settimana coincidente col servizio marittimo, del terminal portuale che se ne deve occupare e dell’hub logistico di terra che riceve la merce da smistare sui treni, sui camion e nei capannoni: un collo di bottiglia. A sovraffollarsi sono un pugno di porti nel mondo, sufficienti a mettere in difficoltà il sistema di approvvigionamento mondiale.
I porti più grandi, cioè quelli che accolgono navi molto grandi e che devono scaricare o caricare un sacco di merce in poche ore, diventano meno efficienti. Giusto per fare un esempio, sempre a Los Angeles in questi ultimi mesi alcune navi portacontainer hanno dovuto scaricare le merci su vecchie banchine poco lontane dai grandi terminal automatizzati congestionati, una cosa che non si vedeva dal 2004. Ma soffrono anche importanti porti d’Europa come Rotterdam (che da sola fa come tutto il traffico container italiano, circa 10 milioni di TEU), Anversa e Valencia, primo porto container del Mediterraneo.