Hong Kong non interessa più così tanto alle multinazionali
Era il posto ideale dove fare affari in Asia orientale, ma a causa della repressione del regime cinese sta perdendo la sua unicità
Fino a poco tempo fa la città cinese semiautonoma di Hong Kong era considerata uno dei principali centri commerciali e finanziari del mondo, il punto d’incontro tra la Cina e l’economia globale, e un luogo che godeva di un sistema economico particolarmente fiorente e di uno stile di vita libero, perfetto per lo sviluppo del business internazionale. Queste caratteristiche tuttavia negli ultimi anni stanno venendo meno, e sempre più multinazionali straniere hanno perso interesse ad avere una sede in città, e si stanno trasferendo in altre città o in paesi diversi: c’entrano soprattutto le politiche aggressive della Cina nei confronti delle autonomie del territorio, che hanno reso Hong Kong sempre meno aperta e pertanto sempre meno attraente per le società e gli affaristi stranieri.
Hong Kong fu una colonia britannica dalla metà dell’Ottocento al 1997, quando tornò a far parte della Cina, seppur con molte autonomie rispetto al governo centrale. Per via della sua storia ha sempre avuto un’economia aperta al capitalismo, che negli anni ha attirato centinaia di multinazionali straniere in cerca di opportunità per fare affari con la Cina e in Asia orientale.
Fino a pochi anni fa, i complessi rapporti tra Cina e Hong Kong potevano essere sintetizzati dal principio “un paese, due sistemi”, che sottolinea l’unità nazionale della Cina, ma anche il fatto che a Hong Kong, in virtù degli accordi presi tra la Cina e il Regno Unito al momento della restituzione della colonia, vigeva un sistema politico particolare: al contrario della Cina, a Hong Kong era consentita piena libertà di espressione, di manifestazione e di stampa; Internet non era censurato, il sistema giudiziario era indipendente e basato sulla common law, il principio del diritto consuetudinario dei paesi anglosassoni, e l’intervento dello stato sull’economia era minimo.
Queste caratteristiche facevano di Hong Kong il luogo perfetto per gli affari delle multinazionali: trattandosi di una città cinese dava ampio accesso all’enorme mercato interno, ma al tempo stesso il suo sistema giuridico e finanziario era paragonabile a quello di una città dell’Occidente.
Negli ultimi due anni, però, tutte queste garanzie sono via via state eliminate o indebolite, e il governo centrale cinese ha iniziato a reprimere duramente molte delle libertà che avevano reso unico e fiorente questo territorio.
Per questo, benché alcune banche e istituzioni finanziarie internazionali vedano ancora Hong Kong come un centro cruciale per fare affari con la Cina e altri paesi dell’Asia orientale, molte imprese se ne stanno andando perché la città non sembra più offrire le stesse prospettive di una volta. Altre aziende, inoltre, hanno deciso di spostare la loro sede in altre città della Cina, perché non vedono più nessun vantaggio pratico nell’avere la sede a Hong Kong piuttosto che in qualunque altra città cinese, dove magari gli affitti sono meno costosi.
A gennaio la multinazionale dell’abbigliamento VF Corporation, che controlla tra gli altri marchi come Timberland e the North Face, ha annunciato dopo 25 anni di attività la chiusura del suo ufficio di Hong Kong, dove lavoravano 900 persone. La società giapponese produttrice di videogiochi e console Sony Interactive Entertainment ha spostato i suoi uffici a Singapore, lo stato insulare a sud della Malaysia con una tra le economie più libere e competitive del mondo, mentre sia la prima azienda del mondo nel settore cosmetici L’Oréal che la multinazionale francese del lusso LVMH hanno trasferito i dipendenti che lavoravano a Hong Kong in altre sedi, tra cui Shanghai.
Sia VF che L’Oréal, per esempio, hanno imputato la loro decisione a nuove strategie di mercato, ma secondo diversi esperti citati dal Wall Street Journal in realtà i motivi che stanno spingendo molte aziende straniere ad abbandonare Hong Kong sarebbero principalmente altri. In particolare, le ampie proteste di massa a favore della democrazia e contro i tentativi – riusciti – del governo cinese di togliere gran parte delle autonomie al territorio, e l’imposizione della rigida legge sulla sicurezza nazionale del giugno 2020, che tra le altre cose ha dato alla Cina la possibilità di arrestare chiunque venga accusato di compiere «attività terroristiche» e atti di «sedizione, sovversione e secessione».
Secondo diversi esperti l’inasprimento della repressione degli attivisti pro-democrazia, unito alla crisi legata alla pandemia da coronavirus, avrebbe compromesso la reputazione di Hong Kong come luogo stabile e libero per fare affari.
Tra gli altri, anche la società informatica sudcoreana Naver Corp ha trasferito i server di backup del suo motore di ricerca Hong Kong a Singapore per proteggere i dati degli utenti, mentre Facebook e Alphabet – la società che controlla Google – hanno abbandonato un grosso progetto che prevedeva la posa di un sistema di cavi sottomarini per internet che avrebbe collegato gli Stati Uniti a Hong Kong: un piano a cui si erano opposti i funzionari di sicurezza del governo statunitense per via delle enormi tensioni commerciali e politiche con la Cina.
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Frederik Gollob, responsabile della Camera di Commercio europea a Hong Kong, ha detto che stare a Hong Kong «era sempre stato semplice come bere un bicchier d’acqua», ma che adesso «per la prima volta multinazionali e uomini di affari si stanno chiedendo ‘dobbiamo per forza stare qui?’».
In base ai dati raccolti del governo, dal 2019 decine di società internazionali hanno abbandonato Hong Kong, una cosa che secondo un’analisi della società immobiliare Cushman & Wakefield ha portato alla percentuale più alta di spazi commerciali sfitti degli ultimi 15 anni. Tra il giugno del 2019 e il giugno del 2020 più di 60 multinazionali cinesi hanno aperto nuove loro sedi a Hong Kong, con un aumento del 12 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente: al contempo, però, sono stati chiusi 45 uffici o sedi di società statunitensi, il 6 per cento di quelli che gli Stati Uniti avevano nella città.
Sempre secondo i dati del governo, nel 2020 le persone che si sono trasferite a Hong Kong sono state la metà di quelle che erano arrivate nel 2019, e benché questo dato possa essere stato influenzato dalla pandemia da coronavirus, è notevole che le persone che se ne sono andate siano aumentate del 30 per cento. È stato calcolato che l’anno scorso la popolazione di Hong Kong, di circa 7,5 milioni di abitanti, sia calata di 46.500 persone: non se ne sono andati soltanto uomini d’affari – il 42 per cento dei 325 intervistati in un sondaggio realizzato a maggio dalla Camera di Commercio americana a Hong Kong ha detto che si sta organizzando per andare via –, ma anche diversi residenti che hanno deciso di trasferirsi in altri paesi a causa delle nuove leggi sulla sicurezza nazionale.
Gli esperti e i funzionari pubblici comunque sono divisi su ciò che succederà nei prossimi anni a Hong Kong.
Gli ottimisti, come il segretario del Commercio di Hong Kong Edward Yau, sostengono che Hong Kong sia ancora il posto migliore per avere buone opportunità di fare affari con le principali città cinesi, soprattutto per la finanza, e che dopo questo periodo di assestamento la città tornerà a essere forte come o più di prima grazie a una maggiore sinergia col governo cinese centrale; i pessimisti ritengono invece che il mercato si piegherà su se stesso e rimarrà ancorato a pochi settori che sono ancora cruciali per la Cina, come quello finanziario.
Per rafforzare l’economia, nei prossimi anni il governo cinese vorrebbe far diventare Hong Kong parte di un’area economica e commerciale ancora più ampia, che inglobi anche le vicine città di Shenzhen, nota per il suo importante porto e per il distretto produttivo, e di Macao, l’unico posto in tutta la Cina in cui è legale il gioco d’azzardo. Anche questo progetto di assimilazione agli altri grandi centri economici della zona, tuttavia, è stato criticato come un ulteriore modo per far perdere a Hong Kong la sua unicità.