“Shrek” cambiò l’animazione
20 anni fa uscì il celebre film sull'orco scorbutico, largamente emulato e con un'eredità visibile e discussa ancora oggi
Il 15 giugno 2001, vent’anni fa, uscì in Italia Shrek, che un giornale di quel giorno descrisse così: «cartone animato per bambini divertente e carino, prodotto dalla DreamWorks di Spielberg e soci, il film capovolge le regole delle favole, prende in giro gli eroi fiabeschi, ha un protagonista sudicione, ha personaggi realistico-tridimensionali».
Prima che uscisse, durante i molti anni di lavorazione che richiese, Shrek era considerato un progetto azzardato, quasi una punizione per chi ci lavorava. Poi uscì (negli Stati Uniti il 18 maggio) e finì per avere quasi mezzo miliardo di dollari di incassi, vincendo il primo Oscar della storia per il miglior film di animazione e diventando un celebrato apripista di tanta animazione per bambini, ma non solo. Negli ultimi vent’anni, Shrek è diventato altro ancora, e tra le riflessioni e le celebrazioni di questi giorni c’è stata una serie di critici che ha messo in discussione la sua eredità, fino a ipotizzare che sì, abbia effettivamente cambiato l’animazione: ma in peggio.
Prima di diventare un film della DreamWorks Animation, Shrek era stato un libro: Shrek!, pubblicato nel 1990 e scritto e illustrato da William Steig, che aveva 83 anni. Poco dopo l’uscita Steven Spielberg lo lesse e ne comprò i diritti per farci un film, nei suoi pensieri iniziali un film di animazione tradizionale, un cartone animato come quelli della Disney. Nel 1994, dopo aver fondato la DreamWorks insieme a David Geffen e Jeffrey Katzenberg, i piani per i film furono affidati alla sezione della casa di produzione che si occupava di animazione, in particolare animazione a computer.
Shrek (nome che deriva dal sostantivo tedesco “Schreck”, spavento) ebbe una produzione complicata, sotto vari punti di vista. In generale, sembra che in diversi aspetti – dai disegni ai doppiaggi – la giovane DreamWorks Animation faticò a trovare il tono giusto per il film, a bilanciare la parti per bambini con i tanti ammiccamenti per un pubblico adulto.
«Non molti sembravano aver fiducia nel fatto che un brutto orco potesse essere l’eroe cinematografico di una favola comico-romantica» ha scritto il New York Times. Per di più, durante la sua travagliata produzione «cambiarono produttori e registi, cambiò il principale doppiatore [Chris Farley morì dopo aver doppiato parte delle scene del protagonista e fu sostituito da Mike Myers] e la tecnologia necessaria per girarlo si rivelò ostica». La regista Vicky Jenson, che lo diresse con Andrew Adamson, ha detto che tra chi lavorava alla DreamWorks c’era la sensazione che «essere mandati a fare Shrek fosse un po’ come essere mandati in Siberia». Sia lei che Adamson erano al loro primo film da registi.
Intanto, tra il 1998 e il 2000, la DreamWorks aveva fatto uscire Z la formica, Il principe d’Egitto, La strada per El Dorado e Galline in fuga. A fine anni Novanta, ben pochi – fuori ma anche dentro la DreamWorks – avrebbero pensato che vent’anni dopo ci saremmo ricordati più di Shrek che di questi altri film: uno dei quali doppiato da Woody Allen (e Sharon Stone, Gene Hackman, Sylvester Stallone e Jennifer Lopez). E che Shrek avrebbe lasciato il segno molto più di un film d’animazione drammatico e musicale con protagonista Mosè, che si rifaceva a I dieci comandamenti, kolossal del 1956.
Invece a rimanere, a vent’anni di distanza, è Shrek: un film su un orco burbero, scorbutico e antisociale che vive in una palude, presentato nella prima scena mentre esce da una latrina, che incontra un asino parlante e che – suo malgrado, per liberarsi da una serie di creature magiche e favolistiche che ne infestano la palude – intraprende un viaggio per provare a salvare per conto terzi una principessa. E che facendolo trova cose che non sperava di trovare e ne scopre altre che lo fanno cambiare.
Fu un film che riuscì a distinguersi per una colonna sonora con molte canzoni appiccicose di quegli anni (e alcune altre di qualche decennio prima). E, ancor più, per il modo, la frequenza e l’intensità con cui citava, dileggiava e rielaborava tanta cultura popolare, partendo dalle favole per parlare però anche di altro. A proposito: da subito ci fu chi notò una certa somiglianza tra Lord Farquaad, l’antagonista del film, e Michael Eisner, che ai tempi era amministratore delegato della Disney, azienda da cui Katzenberg se n’era andato prima di fondare la DreamWorks, e dopo che non gli era stata data un’importante promozione che pare volesse.
Quando uscì, Shrek piacque tanto a tanti. Anche a molti critici. Roger Ebert scrisse che era «sia allegro che cattivo, pieno di battute scaltre e argute eppure anche dotato di cuore». Sul New York Times, Elvis Mitchell scrisse: «non è certo il primo film a prendere in giro i fastidiosamente delicati marchi di fabbrica della Disney, però raramente la cosa era stata fatta con questo zelo e vena distruttiva». E aggiunse: «come tanti altri film di questi tempi, Shrek è una intensa cavalcata attraverso la cultura popolare». Un’altra recensione scrisse che era «quel tipo di film in grado di intrattenere spettatori di ogni età, forse per diverse generazioni».
Prima ancora di uscire negli Stati Uniti e di diventare uno dei film con i più grandi incassi mondiali del 2001 (incassando oltre 10 volte quanto era costato), Shrek era stato presentato al Festival di Cannes, nel concorso ufficiale. Insieme a film di Ermanno Olmi, Michael Haneke, David Lynch, Nanni Moretti e Jean-Luc Godard. E agli Oscar del 2002, i primi che assegnarono un premio al miglior lungometraggio d’animazione, vinse avendo la meglio su Jimmy Neutron e Monsters & Co. (nei due anni successivi il premio andò a La città incantata e poi ad Alla ricerca di Nemo, primo di una lunga serie di film Pixar a vincere il premio).
Negli anni successivi Shrek ebbe un sequel, poi un altro ancora, poi altri due, poi uno spin-off sul suo gatto con gli stivali, e diventò a tutti gli effetti un vasto franchise di prodotti e storie anche non d’animazione e anche non cinematografiche.
E poi Shrek, il personaggio, trovò un po’ di nuove vite su internet: in parte grazie a una serie di meme (di ogni tipo, davvero) che lo riguardavano, in parte perché a un certo punto, diversi anni dopo il primo film, la pagina Facebook ufficiale iniziò a postare contenuti come se fossero proprio aggiornamenti scritti da Shrek, il personaggio.
Per il cinema di animazione, invece, visto il suo grande successo, Shrek fu preso a modello da più parti. Anzitutto dalla DreamWorks, che vide in quel tipo di approccio un modo per scardinare il dominio della Disney e l’ascesa della Pixar, e che, da Madagascar in poi, ci riprovò più e più volte. Ma anche da altri: alcuni in modo più esplicito, come Cappuccetto Rosso e gli insoliti sospetti o Cenerentola e gli 007 nani, fino ad altri che, comunque e in qualche modo, copiarono qualcosa.
Tuttavia, da qualche anno c’è anche chi pensa che Shrek sia invecchiato male o che addirittura che ci si fosse sbagliati allora, e che già al tempo e nonostante il suo successo su più livelli, Shrek non fosse granché. Di recente, Vanity Fair ne ha parlato come di un film «volgare, sia nei comportamenti che nell’estetica», con un «umorismo stantio». Sul Guardian, Scott Tobias lo ha definito «un film non divertente e sopravvalutato, che segnò un basso punto dell’animazione». Alcuni altri, nel ricordare l’anniversario di Shrek, hanno elencato tutte le sue battute e gag a sfondo sessuale.
Su Wired, Gabriele Niola ha scritto: «il successo di Shrek, vent’anni fa, segnava un punto di non ritorno da cui la DreamWorks in primis e moltissimi altri dietro a lei avrebbero costruito un altro tipo di animazione, alternativa alla Disney, fondata sul fare appello al minimo comun denominatore in ogni situazione. La fonte di tutto il peggio che abbiamo visto in questi anni». Secondo Niola, Shrek ha «rovinato l’animazione».
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