L’uomo che ha permesso la nascita del nuovo governo israeliano
Si chiama Mansour Abbas ed è un islamista conservatore: alcuni lo ritengono un leader pragmatico, altri un traditore della causa palestinese
Domenica sera si è insediato il nuovo governo israeliano guidato da Naftali Bennett, che ha sostituito Benjamin Netanyahu nell’incarico di primo ministro dopo 12 anni consecutivi di mandato. Il governo è sostenuto da una maggioranza di appena 61 parlamentari su 120 alla Knesset, il Parlamento israeliano. Per la sua nascita è stato decisivo l’appoggio di Ra’am, uno dei principali partiti che rappresenta i cittadini arabi-israeliani: il suo leader si chiama Mansour Abbas, è considerato un islamista conservatore e molti lo ritengono l’uomo che di fatto ha permesso la nascita del nuovo governo.
La decisione di Abbas è considerata storica. È la prima volta che un partito indipendente di arabi-israeliani, cioè persone arabe con cittadinanza israeliana, fa parte del governo: in precedenza era successo che liste di arabi-israeliani si candidassero all’interno di partiti più grandi, come quello Laburista, e che sostenessero da fuori alcuni governi. Nel suo discorso inaugurale da parlamentare, Abbas ha detto che intende lavorare «per favorire un dialogo che creerà una nuova e migliore relazione fra tutti i cittadini dello stato, ebrei e arabi».
Gli arabi-israeliani sono persone di etnia araba che vivono in territorio israeliano. Molti di loro discendono dai palestinesi che abitavano questi territori prima della nascita dello stato israeliano, nel 1948. Sono in maggioranza musulmani e in moltissimi, anche se non tutti, si riconoscono come palestinesi. In tutto rappresentano circa il 20 per cento della popolazione israeliana. Nominalmente hanno gli stessi diritti e doveri degli altri israeliani, tranne la leva obbligatoria.
Mentre diversi osservatori ritengono Abbas un leader pragmatico la cui scelta porterà vantaggi concreti agli arabi-israeliani, altri lo considerano un traditore della causa palestinese, dato che ha accettato di allearsi con una serie di politici di estrema destra – fra cui lo stesso Bennett – che negano la necessità di creare uno stato palestinese indipendente.
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Abbas ha 47 anni e prima di entrare in politica aveva studiato come dentista. Si considera un seguace di Abdullah Nimar Darwish, un ex combattente palestinese che si convertì al pacifismo dopo anni di carcere in Israele. Ma Abbas sostiene anche la necessità di temperare le proprie visioni politiche con la propria fede, nel suo caso quella islamica: da anni ha posizioni apertamente ostili verso la comunità gay, come insegna la dottrina più radicale dell’Islam, e nel 2020 si rifiutò di votare una legge per vietare la screditata “terapia di conversione” (cioè quella che considera l’omosessualità alla stregua di una malattia psichica).
Fino a qualche mese fa Ra’am faceva parte di un cartello elettorale che riuniva tutti i partiti che rappresentano gli arabi-israeliani, Lista Comune. Sia per alcune divergenze interne sia per il fatto che per statuto non avrebbe potuto ricandidarsi, dato che aveva già concluso due mandati, a gennaio Ra’am lasciò la coalizione e decise di candidarsi da solo alle elezioni del 23 marzo. Un po’ a sorpresa aveva superato lo sbarramento e ottenuto 4 seggi, risultando il partito più piccolo eletto nella nuova Knesset.
Il solo fatto di essere entrato in Parlamento ha dato comunque a Ra’am un peso specifico molto alto. Ormai da un paio d’anni Abbas si diceva disposto ad allearsi con chiunque, pur di inserire nel programma di governo alcuni punti precisi, mentre i partiti che si opponevano a Netanyahu avevano giusto bisogno di 4 seggi per raggiungere la soglia della maggioranza. I negoziati per l’ingresso di Ra’am nella nuova maggioranza sono stati assai rapidi.
In una recente intervista data a Time, Abbas ha spiegato che «servire i cittadini arabi e proporre soluzioni per i loro problemi» è la sua priorità «numero uno, due e tre»: «abbiamo problemi enormi di criminalità, violenza, povertà, mancanza di case e di riconoscimento per le comunità nel deserto del Negev. E vogliamo risolverli».
Abbas insomma ha fatto leva su questioni molto sentite dalla comunità di arabi che possiedono la cittadinanza israeliana e vivono soprattutto nelle periferie delle grandi città o in comunità ancora oggi a maggioranza araba, e contro cui secondo moltissimi esperti esiste una discriminazione sistemica. Se un cittadino israeliano abita in una zona a maggioranza araba c’è infatti una buona probabilità che le scuole e gli ospedali funzionino peggio, che la spazzatura sia raccolta meno di frequente, che le strade siano malmesse, e così via per una serie di fattori che incidono sulla qualità della vita.
In cambio del suo sostegno al governo, Abbas ha ottenuto la promessa di alcune misure che dovrebbero alleviare parzialmente questi problemi. Il sito di news Globes fa notare per esempio che Abbas ha ottenuto che il prossimo fondo quinquennale per lo sviluppo delle comunità arabe sia quasi il triplo dell’ultimo in vigore, approvato dal governo Netanyahu: si parla di 30 miliardi di shekel – circa 7,6 miliardi di euro – contro gli 11 del piano precedente.
Al Jazeera scrive inoltre che secondo Ra’am il nuovo governo smetterà di demolire le case palestinesi costruite senza permesso in territorio israeliano e riconoscerà ufficialmente alcuni villaggi di beduini nel deserto del Negev. Ieri inoltre Abbas è stato nominato sottosegretario per i Rapporti con la comunità araba, cosa che dovrebbe consentirgli di avere una discreta influenza nel modo in cui il nuovo governo gestirà i rapporti con gli arabi-israeliani.
Non tutti però ne sono convinti: per prima cosa perché il nuovo governo è talmente eterogeneo e fragile che non è chiaro quanto possa rimanere in carica e cosa possa realizzare. Poi perché in diversi posti chiave del governo, Bennett – che in passato si è vantato di avere ucciso «molti arabi» durante i suoi anni nell’esercito – ha nominato noti politici di estrema destra come Ayelet Shaked e Gideon Sa’ar, che hanno posizioni spesso al confine con il razzismo nei confronti degli arabi in generale, quindi anche di quelli che vivono all’interno di Israele.
Un’altra critica rivolta ad Abbas, più sottile, è quella di avere legittimato di fatto un governo che non farà nulla per risolvere il conflitto in corso ormai da decenni con i gruppi palestinesi che controllano la Cisgiordania e Gaza, governo che da più di mezzo secolo occupa dei territori in Cisgiordania, cioè le cosiddette colonie, che secondo la maggior parte della comunità internazionale spettano ai palestinesi.
«Come palestinesi, il nostro ruolo non prevede di fare l’ago della bilancia ma di opporci a questo sistema e proteggere la nostra comunità», ha spiegato ad Al Jazeera Diana Buttu, avvocata e attivista per i diritti dei palestinesi: «l’idea che in qualche modo Abbas avrà potere sufficiente per approvare delle misure che bilanceranno le leggi razziste che riguardano i palestinesi è una barzelletta», ha aggiunto.
Abbas ha messo già in chiaro che la più ampia causa dei palestinesi non è in cima alle sue priorità: «ma se avrò l’opportunità di lavorare al processo di pace, lo farò», ha spiegato a Time.