Cinquant’anni fa cominciò la pubblicazione dei “Pentagon Papers”
Grazie all'iniziativa di un ex marine contrario alla guerra in Vietnam, gli americani scoprirono come quattro presidenti si fecero coinvolgere in un conflitto disastroso
Nel 1967 gli Stati Uniti erano molto più lontani dal vincere la guerra in Vietnam di quanto si aspettassero. Il loro coinvolgimento militare nel paese era cominciato negli anni Cinquanta, ma era diventato massiccio a partire dal 1962, quando John Kennedy ordinò l’invio di migliaia di “consiglieri militari” per sostenere il governo filo-occidentale del Vietnam del Sud contro il Vietnam del Nord, filo-sovietico (al culmine della guerra, nel 1969, i soldati americani in Vietnam furono 550 mila). L’intervento americano avrebbe dovuto ottenere successi rapidi, ma nel 1967 erano ormai trascorsi diversi anni e decine di migliaia di truppe erano ormai impantanate a combattere contro la guerriglia vietnamita.
L’allora segretario alla Difesa Robert McNamara, per questo motivo, commissionò a un gruppo di analisti un’indagine interna per ricostruire la storia del conflitto e capire cosa stesse andando storto nella strategia militare e soprattutto nel processo decisionale della classe dirigente. Tra loro c’era Daniel Ellsberg, un ex marine e analista militare presso la RAND Corporation (uno dei più importanti centri studi americani) che nel corso degli anni Sessanta aveva cominciato a nutrire sentimenti di opposizione alla guerra.
Avendo accesso al rapporto finale che il Pentagono aveva stilato per McNamara, Ellsberg decise di divulgarlo e nell’ottobre del 1969 iniziò a fotocopiarlo in segreto, pagina per pagina: in totale il rapporto ne aveva 7.000. Il contenuto delineava come ben quattro presidenti si fossero fatti coinvolgere sempre di più in una campagna militare disastrosa e di come avessero tenuto nascosto al pubblico e al Congresso americani che le possibilità di vittoria erano scarse.
A quel punto Ellsberg tentò di convincere qualche membro del Congresso a rendere pubblico il rapporto, ma tutti si rifiutarono. Si rivolse quindi alla stampa, nella persona del giornalista del New York Times Neil Sheehan, che si era già occupato di Vietnam ed era critico nei confronti del proseguimento della guerra. Date le enormi conseguenze che il contenuto di quel rapporto – e il modo in cui era stato ottenuto – poteva provocare, si creò una redazione parallela in un hotel di New York per studiare le carte, e l’editore del giornale Arthur Sulzberger radunò un gruppo di avvocati per capire come muoversi.
La decisione, dopo alcuni mesi di lavoro e discussioni, spettò proprio a Sulzberger, che come racconta il Washington Post si prese un rischio altissimo e decise di pubblicare la storia. Era domenica 13 giugno, cinquant’anni fa.
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Il titolo in prima pagina quella mattina fu Vietnam Archive: Pentagon Study Traces 3 Decades of Growing U.S. Involvement (“L’archivio del Vietnam: il Pentagono ricostruisce tre decenni di un coinvolgimento degli Stati Uniti sempre maggiore”) e nell’articolo principale – scritto da Sheehan – si leggeva che le amministrazioni avevano «sviluppato una specie di senso del dovere, un’inclinazione a combattere il Vietnam del Nord comunista per proteggere il Vietnam del Sud, e in definitiva una frustrazione in tali sforzi molto più estesa di quanto non facessero pensare le loro dichiarazioni pubbliche».
Il rapporto divenne poi noto con il nome di “Pentagon Papers”. Raccontava come quattro amministrazioni, da Truman a Johnson, avessero di fatto mentito all’opinione pubblica nascondendo le loro effettive intenzioni legate al Vietnam. Nel corso della sua campagna elettorale nel 1964, per esempio, Lyndon Johnson aveva affermato di non voler estendere il conflitto, ma nella realtà dei fatti si era mosso per espandere le operazioni belliche anche in Laos e Cambogia. La pubblicazione dei Pentagon Papers consentì inoltre all’opinione pubblica di venire a conoscenza di alcune azioni militari sulle quali le amministrazioni non avevano mai fornito notizie.
All’inizio l’amministrazione dell’epoca, guidata dal Repubblicano Richard Nixon, non fece nulla, dal momento che il rapporto era incentrato di più sui precedenti governi di Kennedy e Johnson, entrambi Democratici. Ma il 15 giugno 1971 decise comunque di affrontare la questione, chiedendo al tribunale federale di Manhattan di ordinare al New York Times di cessare qualsiasi pubblicazione dei Pentagon Papers. Secondo il Washington Post quello fu un momento cruciale della vicenda, perché era la prima volta nella storia degli Stati Uniti che il potere politico tentava di censurare preventivamente la stampa. Il tribunale fissò un’udienza, e ordinò di sospendere temporaneamente le pubblicazioni.
Nel frattempo però il Washington Post ottenne a sua volta le carte, sempre da Ellsberg, e si ripeté la stessa dinamica avvenuta poco prima. Anche stavolta la decisione spettò all’editrice Katharine Graham. E anche stavolta Graham decise di pubblicare. Di nuovo, il governo chiese ai giudici di impedire ulteriori pubblicazioni anche al Washington Post: inizialmente rifiutarono, ma poi la Corte d’Appello di Washington DC acconsentì alla richiesta della Casa Bianca.
Alla fine di quella settimana, il caso finì alla Corte Suprema, la più alta autorità giudiziaria americana. Probabilmente a causa dell’importanza della questione, la sentenza arrivò in fretta: «La stampa deve servire i governati, non i governanti», disse il giudice Hugo Black. Il New York Times e il Washington Post poterono tornare a rivelare i contenuti dei Pentagon Papers, che successivamente vennero anche pubblicati per intero in un libro.
La vicenda dei Pentagon Papers è stata raccontata anche The Post, un film diretto da Steven Spielberg, in cui Katharine Graham era interpretata da Meryl Streep, e l’allora direttore del Washington Post Ben Bradlee da Tom Hanks.
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